giovedì 30 ottobre 2003

Emanuele Severino su filosofia e politica

Corriere della Sera giovedì 30.10.03
Cari democratici,
diffidate dei filosofi
di EMANUELE SEVERINO


A quanti non sopportano l’aria di superiorità di buona parte del pensiero filosofico consiglierei la lettura di "Verità e progresso" del filosofo americano Richard Rorty (Feltrinelli). Per lui la democrazia è il bene supremo dell’uomo. Se gli intellettuali non servono a rafforzarla, si faccian da parte. Poiché soprattutto i filosofi hanno contribuito a indebolirla, l’invito va rivolto soprattutto a essi. Anche scienza e tecnica, per Rorty, debbono stare al servizio della democrazia. Le preoccupazioni di Rorty sono motivate. Dopo la sconfitta del totalitarismo di destra e sinistra, sta facendosi innanzi anche una profonda delegittimazione della politica democratica. Non intendo quella (deprecabile, che però non è la fine del mondo) dovuta al comportamento degli avversari politici che, come in Italia, si delegittimano a vicenda.
Mi riferisco invece alla delegittimazione costituita dalla tendenza, deprecata da Rorty, dove la competenza tecnico-scientifica mira a guidare le comunità democratiche - e dalla quale, aggiungo, quelle islamico-teocratiche si illudono ancora di non essere guidate.
Gli Stati Uniti mostrano un sintomo significativo di tale tendenza planetaria. Si servono sempre più della loro ricchezza per essere potenti; mentre prima si servivano della loro potenza per difendere la loro ricchezza. Dalla volontà di esser forti per portare la democrazia nel mondo, alla volontà di portare la democrazia nel mondo per esser forti.
Ma una democrazia che si serve della tecno-scienza e la guida è qualcosa di essenzialmente diverso da una democrazia che è al servizio della tecno-scienza e ne è guidata. La delegittimazione autentica della politica democratica è appunto il passaggio di quest’ultima dal ruolo di guida a quello di servitore. Quando una struttura sociale (come il capitalismo democratico) deve la propria sopravvivenza a un certo strumento (come l’apparato scientifico-tecnologico), è inevitabile che tale struttura eviti di indebolirlo e anzi ne accresca sempre di più la potenza per resistere e prevalere sui propri avversari - che ieri erano, per le democrazie, i totalitarismi e oggi sono il terrorismo e, alla base di esso, la povertà di gran parte dei popoli. A questo punto tale struttura non assume più come scopo i propri valori, ma il potenziamento indefinito del proprio strumento.
Tuttavia questo rovesciamento può avvenire solo se scienza e tecnica sanno che la crescita della loro potenza non ha davanti a sé alcun limite assoluto; e questo sapere esse non se lo possono dare da sole, ma lo ricevono dall’esterno, cioè dal risultato essenziale della filosofia contemporanea. Che nella totalità della realtà quel limite non possa esistere - che non esista alcun ordine immutabile al di sopra del divenire del mondo - non può essere la scienza a dirlo: lo dice la filosofia del nostro tempo.
I democratici alla Rorty hanno ragione di diffidare dei filosofi, perché costoro, dopo aver evocato i fondamenti del totalitarismo politico, hanno evocato anche quel senso della realtà che legittima la scienza e la tecnica a oltrepassare ogni limite e a porsi alla guida (anche) della democrazia capitalistica, che in tal modo resta delegittimata: nella misura in cui pretende di stare essa alla guida di tutto il resto.
In questa situazione, preoccuparsi della democrazia significa incominciare a domandarsi che cosa essa possa essere quando, da scopo e guida, diventa mezzo e strumento per il crescente potenziamento della tecnica legittimata dalla filosofia. Diventa pertanto sempre più obsoleto chiedersi che cosa possono fare gli intellettuali per salvaguardare la sovranità e l’autonomia della politica democratica. Certo, gli «intellettuali» che si limitano a ereditare la superficie della filosofia del nostro tempo, e che non sanno nulla della relazione profonda tra scienza, tecnica e filosofia, fanno ben poco per vincere le battaglie di retroguardia in favore della politica democratica.
Di questi intellettuali è giusto dire, come è stato detto su queste colonne, che hanno un ruolo conservatore e che si accodano a quelli che essi ritengono gli orientamenti politici prevalenti. Ma chi ha portato alla luce gli «orientamenti» - politici e non politici -, se non i veri intellettuali?
E, anche qui, quale grande concezione politica non è riconducibile al sapere che è stato portato alla luce da quegli intellettuali che sono i filosofi autentici? Pericle non parla forse agli Ateniesi dando ascolto ad Anassagora? L’illuminismo non sta alla radice della rivoluzione americana e francese? Il marxismo, che è uno sviluppo di quest’ultima, non è la base della rivoluzione sovietica?
Socrate e Gesù (anche il suo messaggio è profonda filosofia) sono dei conservatori rispetto alle società che li hanno condannati, o non sono anch’essi grandi anticipatori dei tempi? Tutto questo non significa che la filosofia non sia dannosa. Perfino Gesù diceva di essere venuto a portare la spada.
In un certo senso la filosofia sta alla radice di tutto ciò che è dannoso. Ma chi sono i danneggiati se non gli «orientamenti» che, guidati anch’essi dalla filosofia, non hanno saputo resistere al suo evolversi? Che cosa sono se non le forme perdenti rispetto a quelle vincenti della volontà di potenza?