giovedì 30 ottobre 2003

Mark Rothko (*)

La Repubblica giovedì 30.10.03 Pagina 44 - Cultura
ROTHKO E LA TELA INFINITA
la mostra del centenario
A un secolo dalla nascita, una selezione di capolavori del pittore morto suicida che voleva rappresentare le emozioni
Voleva che lo spettatore si perdesse nei suoi quadri guardandoli da vicino
BASILEA
FABRIZIO D'AMICO


(*) informazioni e immagini su e di MARK ROTHKO possono essere viste QUI

Cade quest´anno il centenario della nascita di Mark Rothko: ed è ancora una volta la Fondazione Beyeler di Basilea, dopo la grande mostra del 2001, a dedicargli un ricordo, intenso ed emozionante: quattro sale raccolgono venticinque suoi dipinti, da un primo del 1938, Entrance to subway, a cui s´usa far risalire il primo snodo rilevante della sua ricerca, sino agli acrilici ultimi, datati fra '69 e '70, l´anno del suicidio. Contemporaneamente, alla Beyeler, è allestita una fin troppo ampia mostra sull´opera tarda di Paul Klee, relativa a quel suo ultimo decennio che lo vide rifugiato nella natia Svizzera dopo la condanna nazista dell´»arte degenerata»: un tempo in cui parte degli studi ha riconosciuto, fors´anche sull´onda emotiva di quell´esilio e della malattia che lo condurrà alla morte nel 1940, uno dei vertici dell´arte di Klee.
Ma è una non banale coincidenza, quest´omaggio parallelo a due fra gli artisti del secolo trascorso più intensamente amati prima di tutto dai loro colleghi pittori, d´ogni tempo e latitudine, sino ad oggi: due pittori che hanno poco o nulla, all´apparenza, da spartire, se non - cruciale - quella primazia riconosciuta da entrambi al pensiero sulla mano; e, assieme, quel rifuggire il messaggio univoco implicito nella propria opera, che pur volevano capace di parlare all´uomo. Klee dipinse, e scrisse sull´atto del dipingere, per insegnare a guardare il mondo, mai per narrarlo. Vent´anni dopo la sua morte, al culmine d´una fama divenuta presto universale, Rothko, che aveva da tempo abbandonato una rabdomantica e imperfetta figurazione surrealista per una pittura di pura effusione cromatica, dichiarò, paradossalmente, di «non essere un pittore astratto». Di essere disinteressato a sondare semplicemente una sintassi possibile di forme e di colori. «Quel che m´interessa è soltanto la rappresentazione delle emozioni fondamentali dell´uomo - tragedia, estasi, destino»; meglio: di suscitare nel riguardante, attraverso la sua opera, la percezione acuita di quelle emozioni.
Il modo in cui lo spettatore avrebbe fruito della sua pittura è sempre stato al centro delle preoccupazioni di Rothko (che ha con ciò anticipato un´attitudine poi divenuta canonica in ambito concettuale); al punto che attraverso l´evolversi delle sue indicazioni e dei suoi interventi relativi all´allestimento delle sue mostre o delle sale museali a lui dedicate (quella, ad esempio, della Tate Gallery di Londra con i Seagram murals) si può seguire, e talora anticipare, l´evoluzione stessa della sua pittura, che proprio dal rapporto che avrebbe cercato con il mondo sarebbe stata influenzata. Raccomandò ad esempio, partecipando nel 1952 alla mostra 15 Americans al Museum of Modern Art di New York, una disposizione molto ravvicinata delle sue tele e un´illuminazione, per esse, forte e clamorosa. In occasione della sua prima retrospettiva (1961, sempre al Moma), alla quale sovrintese personalmente e con grande impegno d´energie mentali, volle invece un´illuminazione molto bassa, così che le opere, anche adesso l´un l´altra ravvicinate, apparissero come fuochi di luce baluginanti nel buio. Già allora dunque, pur esponendo tele datate dal '45 al '60, e dunque di differente temperatura stilistica, s´era affacciata in lui l´idea che la sua opera dovesse mirare ad essere un organismo plastico unitario, dotato di vita e di capacità di parola autonoma rispetto agli elementi da cui era costituito.
Nella sua pittura, voleva che ci si perdesse: raccomandava perciò una visione ravvicinatissima dei suoi grandi dipinti - «a 45 centimetri»: cosa di fatto oggi purtroppo impossibile, per un allarme che scatta o un custode che ti guarda in cagnesco - così che l´occhio giungesse a smarrire i confini esatti del dipinto: rinunziando così ad un´esperienza puramente estetica, o lucidamente cognitiva, per attingerne una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente. Per questo, ancora, dopo l´esperienza dell´antologica di New York, Rothko fu soprattutto interessato a rispondere a poche, grandi commissioni che prevedessero la possibilità di immaginare ampie serie di suoi dipinti stabilmente collocati in spazi pubblici: sin quando, alla maggiore di quelle commissioni, riguardante una cappella - che egli volle multiconfessionale - a Houston, Rothko destinò ogni sua energia dal '64 al '67, ed oltre: sino al tempo, praticamente, in cui le condizioni di salute non gli impedirono di continuare quel lavoro sulla grande dimensione che ormai prediligeva. In quella cappella, inaugurata appena dopo la sua morte, Rothko aveva cercato quella che Dore Ashton chiamerà «un´espressione della divinità senza un Dio»; e in essa darà figura compiutamente a quel luogo che cercava, creato dal colore - rosso, bruno, nero - e svelato dalla poca luce che lentamente lo avvolge e lo trascina nello spazio della contemplazione, affine ma più complesso di quello unicamente pertinente alla pittura.
A metà del suo ultimo decennio, e in coincidenza con il lavoro per la cappella di Houston, Rothko, partito dalla pittura e senza tradirla, giunge dunque ad immaginare una spazialità che concettualmente esorbita dai suoi canonici confini, e tanto più da quella nozione di superficie commentata da linee e colori che una ormai antica coscienza moderna le aveva attribuito. È entro quel suo tempo che, forse, trova una plausibile giustificazione la sua volontà d´essere qualcosa di diverso da «un pittore astratto»; ed è per quel suo tempo, che l´ha portato lontano da quel colore respirante che era stato il suo straordinario tesoro negli anni Cinquanta, che egli rimane ancora oggi, ad oltre trent´anni dalla morte, e in un´epoca che sembra aver rinunciato così vastamente alla specificità del linguaggio pittorico, così attuale, così universalmente amato.
Ma Rothko non s´è fermato su quello spalto, assalito da un´ansia che lo trascinava in qualche misura al di là della pittura. È vero invece che negli ultimi anni - amari, tormentati: nonostante la fama crescente - Rothko torna a ragionare sui termini più casti, e fin più agri, della sua prassi antica. E vengono, in numero ristretto, i Black on Gray Paintings: diciotto dipinti in tutto, sei dei quali sono oggi raccolti a Basilea in un´ultima, strepitosa sala che ripete, con ancora maggior respiro, quella finale della grande mostra di Washington, New York e Parigi del 1998-´99. Sono immagini che dicono, nel pittore non più giovane e malato, l´insorgere di una lucida volontà di un nuovo avvio: stavolta rigorosamente ancorato alla superficie, lontano da quell´intento di frastornarne la nuda apparenza che aveva innescato la sua pittura d´un tempo, ansimante fra un fondo profondissimo dell´immagine e una prima pelle emozionata, e quasi ferita, del dipinto. I colori di un tempo, il giallo e l´arancio, l´azzurro ed il verde, già sopiti dal montare dei bruni scurissimi, dei rossi intrisi di nero, dei viola annottati degli anni Sessanta, scompaiono. E insieme s´eclissano quelle forme imperfettamente geometriche, quei rettangoli smangiati che sembravano galleggiare come in un amnio nel manto del colore tremante del fondo. Solo, adesso, un grigio o un bruno sormontato da un corpo unito e sordo di nero. Un filo appena percepibile di bianco margina appena l´immagine; un´altra sottile strusciata di pennello designa la linea di demarcazione fra i due corpi cromatici. È l´orizzonte: di questi che altro non sono, altro non potrebbero nominarsi, se non paesaggi dell´anima. Nudi, spogli paesaggi, tirati in una grande dimensione che ormai non aspira più al monumentale, che non cerca vertigini o brusche impennate d´orgoglio. Ed è come se Rothko, in questi quadri ciechi di profondità e di spessori, avesse persino rinunciato a cercare, come aveva fatto per tanti anni, un rapporto con l´altro; quadri costruiti da un nulla, sublime e muto; quadri che davvero annunciano una morte.