venerdì 17 ottobre 2003

su Repubblica di Venerdì 17:
l'intervista di Paolo D'Agostini a Marco Bellocchio

La Repubblica venerdì 17.10.03 
Incontro con l'autore di "Buongiorno, notte" dopo le polemiche che ne hanno accompagnato l'uscita
"Racconto la separazione dal padre"
di PAOLO D´AGOSTINI


ROMA - Per un regista come Marco Bellocchio ottenere ottimi riscontri economici è un dato che vale un´apertura di intervista. Come sta andando "Buongiorno notte"?
«Siamo alla settima settimana con questo weekend. La scorsa eravamo a tre milioni di euro. La previsione è di arrivare fra o tre e mezzo e i quattro, gli otto vecchi miliardi. "L'ora di religione" arrivò a cinque».
Chi lo va a vedere questo film, chi ha determinato l'esito?
«In relazione a quello che "il manifesto" definisce una elaborazione del lutto, tutte quelle generazioni che sono state a vario titolo coinvolte in quella tragedia e in ciò che rappresenta».
40-50enni, non più giovani?
«Naturalmente anche loro, li vedo ai dibattiti. Tanti spettatori, sono passati 25 anni, non erano neppure nati».
Quindi esercita attrazione su chi non c'era.
«Mi rifaccio a un commento che ho letto su "l'invisibile". Ci sono quelli che fanno un ragionamento storico politico e criticano. Ci sono poi quelli che si emozionano, si commuovono, sono coinvolti da quello che non avevano mai visto e sentito. Poi c'è anche un ex partito di quelli che coltivano i sensi di colpa».
Lei ha operato una "semplificazione" che ha urtato da una parte e dall'altra: come se avesse dato atto di una fede ideologica non eterodiretta, anche se ha condotto a conseguenze mostruose e sbagliate. È questo il fondo del film, il suo grande interesse?
«Nel film è molto ripetuta la separazione tra indagine storica e il vedere questi nella loro follia in qualche modo religiosa. La mia "infedeltà" nasce da questo: l'impossibilità di subire una tragedia così fatale e così immane. Parlo soprattutto dell'infedeltà rispetto al personaggio di Chiara. Come se io sentissi la necessità che questa Chiara dovesse non essere la Braghetti ma contraddire, contrastare, disordinare la fatalità di quella conclusione».
Il film ha scontentato due partiti. Chi lamenta la santificazione di Moro, chi una forzatura sull´umanità della figura che allude alla Braghetti.
«Si è parlato molto di questo, ma dissensi e consensi sono stati trasversali, spia che l'identità della sinistra è piuttosto in crisi. Ci sono stati aperti e generosi consensi da parte di gente di sinistra ma anche di destra: l'entusiasmo di Ferrara per esempio. Ma ragionano tutti come se non si potesse separare il film da un giudizio politico. Merlo dice che i brigatisti devono starsene zitti, Pirani che la linea della fermezza era giusta, quando mi pare che il film non affronti questo discorso. Le mie intenzioni erano molto chiare: vedere la disumanità dei terroristi. Non è che rivendico il diritto dell'artista, ma mi sento confortato dalle reazioni al mio andare nella direzione dell´interno delle persone, che dice: è finito il momento del chiudere gli occhi, adesso si può cominciare a raccontare, ognuno a modo suo».
Bertolucci rifiutava l'equazione tra la prima molotov e l'omicidio di Moro.
«Statisticamente la maggior parte dei terroristi viene da quel movimento. Ma forse c'è tutta una popolazione del 68 che ha esaurito in quei mesi l'esperienza. Tanti dopo la primavera sono andati per i fatti loro, ma c'è una connessione tra quelli che erano a Lettere nel '68 e poi sono andati in galera».
Bertolucci è uno dei tanti affezionati a ipotesi dietriste rimaste misteriose, esprimendo una velata critica nei suoi confronti perché nel film non ve n'è traccia.
«Questo film ha una costruzione libera da preoccupazioni di correttezza storica. Ci sono allusioni. Mi interessava esprimere l´impossibilità di un altro esito: quest´uomo doveva morire. La sfilata dei politici, o la seduta spiritica, danno il senso di impotenza e smarrimento totale. Disordine. Gli stessi che mi hanno criticato, Macaluso, hanno apprezzato l'aver sgomberato il campo dalla dietrologia. Qualcuno può considerarlo un limite, ma io non ho avuto il dilemma, ho seguito la strada che sentivo».
Lei scombina le carte invertendo un luogo comune dell'estrema sinistra di allora: paragona la condizione di Moro e i prigionieri della Resistenza: erano i brigatisti a sentirsi eredi dei Resistenti.
«Tutta la sequenza di quando cantano "Fischia il vento" è concentrata sul volto di lei: come se il ricordo del padre le facesse venire in mente la perdita totale di umanità e di rapporto con la realtà. Moro non è un eroe per me ma qualcuno più umano di loro, ha un rapporto più sicuro con la realtà, con loro stessi, è portatore di una sanità mentale che loro non hanno».
Questo è presentato nel confronto di linguaggio, di logica, tra prigioniero e carcerieri.
«Ti sei arreso alla logica dei padri, mi hanno detto. Intanto stabilivo dei valori relativi tra lui e loro, prendevo le parti sicuramente di lui in quel contesto e in più mi serviva per rivedere la figura di mio padre. Ecco, come "L'ora di religione" è la separazione dalla madre questo è la separazione dal padre».
Dove scatta questa relazione?
«Nella passeggiata finale. Il film procede secondo una visionarietà leggera in cui non sono distinguibili il sogno, la visione, la fantasticheria dal realismo. Il momento in cui si vede sulla musica di Schubert passeggiare Moro, è suggerito dall´immagine di mio padre che di notte, già malato, si aggirava per il grande appartamento, eravamo otto figli, non potendo dormire».
Sinceramente pensa di aver contribuito a dire una parola utile di riflessione e di scavo sugli ultimi decenni italiani?
«È un film che sull'argomento ha una sua novità. Una novità che può spiazzare, far incazzare. Che deriva da uno sguardo interno con uno stile non realistico. La storia si può fare con i fatti ma ormai ci hanno insegnato che si può fare anche con le psicologie, gli animi, le passioni: quell'immagine per alcuni intollerabile per altri vitalizzante di Moro che passeggia libero non è l'utopia di una piccola ragioniera che sogna ma credo valga per l'oggi. È la rappresentazione di una libertà, di una possibilità di cambiamento».