venerdì 17 ottobre 2003

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UNA INTERVISTA A MARCO BELLOCCHIO

(Arianna Rossini segnala l'intervista che segue, disponibile sul sito della RAI, ma fin qui sfuggita
L'intervista è disponibile, dalla data del 25 settembre 2003, in originale QUI
)

25 settembre 2003
Un'intervista a Marco Bellocchio
La feconda infedeltà del cinema verso la letteratura
di Andrea Monda


Marco Bellocchio è il regista del momento: non è usuale che un film italiano superi al botteghino i grandi spettacoli che arrivano da Hollywood eppure è quello che sta facendo in questi giorni l’ultimo suo lavoro, Buongiorno, notte ispirato al caso Moro. Eppure l’uomo che incontro nel suo studio romano non ha nulla del “trionfatore”: gentilissimo, mi parla con grande affabilità della “fatica” dell’essere regista e mi confida di essere già al lavoro per un nuovo film, con Sergio Castellitto, che ha, come titolo provvisorio Il regista di matrimoni: “una storia in partenza autobiografica, su un regista in fuga dal suo mondo, ma che poi ha come una “svolta” quando incontra il personaggio che dà il titolo il film”.

D. A Urbino si è svolto un convegno sulla traduzione all’insegna del “bella e infedele”, come a dire che la traduzione anche se infedele deve essere innanzitutto bella. Anche la trasposizione cinematografica di un romanzo è una forma di traduzione e quindi può essere una forma di tradimento. Lei ha spesso esercitato questa forma di infedeltà, rivendicandone il diritto, in quanto artista, e questo vale anche per Buongiorno, notte ispirato al libro di Laura Braghetti. Ma l’infedeltà è una virtù?

R. A me non piace molto generalizzare. Credo che in arte sia quasi un obbligo. E’ questo vale anche per i film cosiddetti storici, in cui il regista prende lo spunto dalla storia e la interpreta ma sempre, inevitabilmente, partendo dal presente, dal suo presente. Così è successo per Buongiorno, notte che mi è stato proposto, nel 2001, e che io ho accettato solo a certe condizioni, a condizione, appunto, di poter essere infedele. Ho usato molto di quel vastissimo materiale, filmato e scritto, che si è accumulato in questi 25 anni sul caso Moro, ma poi ho privilegiato il libro della Braghetti proprio per quel carattere di cronaca che aveva di quei 55 giorni. Quel libro è stato una formidabile “piattaforma”. Al tempo stesso però quella fatalità della tragedia, questa accettazione dei personaggi di un destino ineluttabile in senso quasi religioso, era un elemento di difficoltà per me in quanto regista. Ho sentito quindi la necessità di innestare su quello sfondo qualche elemento di infedeltà.

D. Come è stata recepita dall’autrice del libro questa sua libertà?

R. La Braghetti ha apprezzato proprio quelle infedeltà (e così hanno fatto anche altri brigatisti come la Faranda o Morucci). Cioè nel film una serie di dettagli della cronaca sono stati sviluppati in modo tale da restituire una verità più profonda della cronaca stessa. La Braghetti ha aggiunto che anche la “falsificazione” del suo personaggio si è rivelata come un qualcosa di “vitale”. Tutto quel conflitto interiore che lei ha vissuto ma che nella cronaca di quei giorni non era uscito fuori, ora nel film è emerso, anche se in modo visionario (o forse proprio grazie a questo linguaggio infedele).

D.. Lei, nella sua carriera, ha “tradotto” molte opere letterarie, da La Balia e Enrico IV di Pirandello a Il Diavolo in corpo di Raymond Radiguet, da Il Gabbiano di Cecov, Il Principe di Hornburg di Heinrich von Kleist: tutti tradimenti?

R. Sì, ma sempre con diverse gradualità e intensità: ne Il Gabbiano c’è stata una grande fedeltà, quasi letterale. In Hornburg c’è un’infedeltà maggiore dovuta anche a dei tagli del testo di von Kleist in alcuni casi radicali; ne Il Diavolo in corpo l’infedeltà è totale, per cui dell’opera di Radiguet non è rimasto quasi nulla. Pure ne La Balia c’è una grande dose di infedeltà anche se lo spunto, la situazione, la vita familiare sono riconducibili a Pirandello. Direi quindi che c’è una vasta gamma qualitativa e quantitativa di infedeltà.

D. Queste infedeltà nascono dal diverso linguaggio artistico dovuto al mezzo usato oppure c’è stata, di volta in volta, una sua precisa scelta?

R. Tutte e due le cose. Senz’altro il linguaggio incide anche per quella dimensione del cinema di non volersi “arrendere” alla parola. Però c’è in ognuno di questi casi molto di me, una mia cifra. Per esempio ne La Balia c’è un procedimento simile a Buongiorno, Notte. Il testo di Pirandello era improntato al realismo e al naturalismo per cui la protagonista finiva nel degrado più totale e, in un finale alla Zola, diventava prostituta anche a causa della grettezza della sua famiglia borghese meschina e vigliacca che la rifiuta e la scaccia. Questo cupo fatalismo naturalista mi sembrava intollerabile per cui l’infedeltà è stata una necessità e nel finale mi sono discostato dal testo di Pirandello. La stessa cosa è avvenuta per Buongiorno, notte.

D. Però qui l’infedeltà è duplice: nei confronti del libro della Braghetti e nei confronti della storia. Lei più volte di recente ha affermato di non aver fatto una mera ricostruzione storica e tantomeno un ragionamento politico ma di aver voluto mettere al centro del suo film il tema del rapporto con il padre. Ma allora c’era proprio bisogno della figura di Moro?

R. La figura di Moro senza dubbio mi ha intrigato. Confesso che, nel corso del lavoro sulla sceneggiatura, la sua figura, progressivamente e quasi inconsapevolmente, mi ha ricordato quella di mio padre. Quando Moro passeggia per ben due volte di notte nell’appartamento (non importa se sia sogno o realtà) lì è proprio mio padre che passeggia di notte nel mio ricordo da adolescente, perché lo faceva, soprattutto negli ultimi tempi prima di morire, per cui passava intere notti insonne e veniva malinconicamente a vedere i suoi figli stanza per stanza. Quella morte di mio padre fu in qualche modo cancellata, fatta scomparire un po’ proprio come in Italia la tragedia di Moro che in questi lunghi anni ha sempre suscitato un po’ di ritrosia, una voglia più o meno celata di non volerne ridiscutere. Tutte le reazioni che in questi giorni ci sono state all’uscita del mio film mi confermano quella sensazione, come se oggi i tempi siano maturi per una ulteriore riflessione che, sia ben chiaro, io non intendevo programmaticamente riaccendere.

D. Tra le varie reazioni, quasi tutte positive, c’è anche chi l’ha accusata di revisionismo buonista. Cosa risponde a questa osservazione?

R. In effetti per qualcuno sono stato troppo buono con i brigatisti ma in realtà ho cercato di capire chi fossero e anche di rappresentare nella normalità quotidiana quella disumanità fanatica. Mi è sembrato più efficace rappresentare la “banalità del male” (secondo l’espressione della Harendt) piuttosto che far vedere i brigatisti come dei mostri assetati di sangue. Dall’altra parte sono stato accusato (magari da quegli stessi critici) di essere stato troppo buono anche con Moro che avrei in qualche modo idealizzato. Io posso dire soltanto che, in assoluta sincerità, nella dialettica dei personaggi la pacatezza e la moderazione di Moro mi sono apparse più umane che non la freddezza e la cecità dei terroristi e che quel conflitto mi sembrava degno di essere rappresentato in tutta la sua forza. Il punto è che alcune volte i critici schematizzano, per cui o c’è il realismo o c’è il sogno e il sogno è spesso visto in maniera negativa, come una “psicanalisi deteriore”. Dimenticano che nell’arte come nella vita, le cose sono molto più complesse per cui accanto al realismo e al sogno c’è anche la visionarietà. Invece spesso ci si fossilizza su alcuni termini o concetti che vengono affermati in modo astratto e assoluto e che quindi rimangono generici, apodittici, insoluti.

D. Che influenza ha avuto nel suo lavoro di regista la sua frequentazione con lo psichiatra Massimo Fagioli?

R. Ho conosciuto Fagioli proprio nel 1978. E’ stato un rapporto lungo e complesso nel quale però io ho sempre mantenuto una mia identità personale pur partecipando a un’esperienza di analisi collettiva che ovviamente mi ha trasmesso una serie di spunti e suggestioni feconde. In questo contesto c’è stato il cosiddetto periodo dello scandalo e dell’incomprensione, relativo soprattutto a tre film: Il diavolo in corpo, in cui ho chiamato Fagioli ad accompagnarmi nella regia (scelta di cui non mi pento minimamente), La condanna, la cui sceneggiatura abbiamo scritto a quattro mani e Il sogno della farfalla, in cui ho messo in scena una sua sceneggiatura. Dopodiché io ho preso una strada del tutto autonoma professionalmente in cui però non ho rinnegato la precedente ricerca che si potrebbe ritrovare persino in Buongiorno, notte, anche perché quando uno realizza un approfondimento, una ricerca, tutto questo rimane e riemerge continuamente. Nel complesso si è trattato di un’esperienza che ha avuto e ancora ha per me un’importanza notevole.

La chiacchierata è finita e Bellocchio mi accompagna alla porta. Parliamo ancora del faticoso “lavoro del regista”: “Un lavoro che può apparire inutile”, mi dice, “soprattutto in Italia. Un po’ come il direttore d’orchestra. A che serve se i musicisti da soli sanno già suonare? Ed è un lavoro pesante. Se non hai la fortuna di fare un film di successo devi sempre ricominciare da capo, convincere mezzo mondo dell’importanza del tuo progetto… tutto questo per trovare i soldi, quei tanti soldi che servono a fare i film.”. Mi sorprende però la calma con cui ne parla, cercando gli aspetti positivi di questa condizione che potrebbe apparire frustrante: “C’è però un lato positivo in tutto questo” afferma, “il regista fa un lavoro sempre attivo, sempre portato al confronto con gli altri, con il mondo. Questa brutale concretezza del cinema fa solo del bene all’artista. In qualche modo è un fattore terapeutico”. Parola di regista.