domenica 16 novembre 2003

il libro su Erika di Lidia Ravera

L'Unità 16.11.03
IL LIBRO
ERIKA E ME
di Beppe Sebaste


Dopo tre anni dal massacro di Novi Ligure Lidia Ravera scrive un libro-confessione in forma di lettera aperta all'assassina.
"Quella storia ha spostato le frontiere dell'orrore nella realtà e nell'imaginario"
"Ciò che mi colpisce è l'assenza di empatia, l'incapacità d mettersi al posto degli altri, di uscire dal proprio punto di vista... Mi interessava indagare quello che c'era dietro. La sociopatia giovanile è la punta estrema di qualcosa che bolle sotto"


Una volta scrive Lidia Ravera all'inizio di Il freddo dentro, «essere giovani era un lavoro, una sorta di artigianato esistenziale. Adolescenti si entrava a bottega. Da qualche anno la bottega è ferma». Il libro di cui stiamo parlando, che attraversa uno dei più drammatici fatti di cronaca accaduti in Italia, ci parla anche del vuoto esistenziale, della «sopravvivenza» che ha sostituito la vita, e che, se più evidente appare nei giovani, concerne anche molta dell'insensatezza dell'omologazione degli adulti .

Il 21 febbraio del 2001 la diciassettenne Erika, col suo ragazzo Ornar, massacrò a coltellate la madre e il fratellino a Novi Ligure. Il padre non fecero in tempo a sopprimerlo. Dopo quel crimine, in quella città e nel resto d'Italia, si levarono voci veementi contro una criminalità tanto più crudele quanto più estranea e venuta da fuori, come gli immigrati slavi o albanesi. Dopo il terribile svelamento della verità mi tornò in mente una delle frasi più geniali e agghiaccianti dei genere poliziesco a enigma (quello che si svolge in case isolate possibilmente inglesi). La donna in fuga nel maniero si rifugia nella stanza più alta, dove si chiude per sfuggire al pericolo, all'assassino. Ma una volta armata la serratura, nel buio della stanza ode risuonare una voce: «Quando chiudi la porta con la chiave, sai quel che che chiudi fuori, ma non sai quel che chiudi dentro». A Novi Ligure, come in tutti o quasi i delitti italiani, si trattava di una villetta, ma l'esito non cambia: il pericolo, come Alien, era ed è dentro la nostra normalità. Da gioiosa «pubblicità di un telefono cellulare», i due ragazzi diventarono mostri e alieni. Per qualche tempo la tv e i giornali perorarono solennemente il dovere della memoria e della riflessione sulla tragedia, ingaggiando qualche professionista televisivo di disagi giovanili. Finché su Erika De Nardo è sceso il silenzio («come un sudario», scrive Lidia Ravera) e l'oblio ha rassicurato la maggioranza.

Ecco, il libro di Lidia Ravera, a tre anni da quel fatto, rompe il silenzio per indagare e problematizzare quel dentro, quell'estraneità racchiusa nei nostri spazi domestici. Il freddo dentro analizza con indubbio rischio personale il mondo chiuso a chiave nei nostri interni sazi di cittadini, e consumatori rispettabili - quelli a cui uno spot dei governo fa dire «grazie» quando comprano merci. È un libro coraggioso e scomodo, come ogni opera che interrompe la presunta innocuità della letteratura per farvi irrompere la verità della vita - che è poi un sinonimo di rischio. Un libro che ripropone a suo modo il problema dell'autenticità della parola scritta mettendo in relazione letteratura e testimonianza. Ora, il connubio tra letteratura e testimonianza ha un nome antico, quella «confessione come genere letterario» che negli anni '40 Maria Zambrano sottraeva all'oblio, mostrando ad esempio cosa leghi le splendide Confessioni di Agostino alla modestia empirica di tutte quelle scritture, letterarie e filosofiche, che non nascondono o mistificano il ricorso al pronome «io» di chi scrive, o al «tu» di chi legge, a costo di dubitare e di procedere a tentoni. Ogni verità o visione è relativa, ed è solo sviscerando l'origine del proprio sguardo che si può aspirare alla sincerità, o autenticità. Il libro di Lidia Ravera, che come una lunga lettera aperta si vuole rivolto a Erika De Nardo - l'assassina -, riceve dall'iscrizione del destinatario nel discorso l'autorizzazione a scoprirsi, parlare di sé, mostrare l'origine delle proprie parole, delle proprie emozioni, del proprio turbamento. E nella spontaneità e imprevedibilità delle lettere che spesso accade l'autoanalisi più impietosa. La stessa parola «sincerità» («senza cera», senza sigillo), ha un'origine epistolare.

Mi trovo a parlare con Lidia Ravera del suo libro lo stesso giorno in cui, invece, su una certa stampa appaiono contro di lei articoli risentiti, ma soprattutto ignoranti della differenza tra egotismo e confessione, tra dedica e romanzo epistolare, e soprattutto tra furbizia commerciale e riflessione letteraria. È strano, le dico. Tu scrivi per sottrarre un evento a dei cliché giornalistici, interpretazioni scontate e rassicuranti, come la fabbricazione di un «mostro». E la reazione è riportare il tuo libro a un ulteriore cliché, ed esorcizzare superstiziosamente, come monstrum, proprio la tua riflessione sull'evento e sul linguaggio. Eppure scrivere vuol dire soprattutto non accontentarsi dei cliché, sovvertirli, o quanto meno problematizzarli, anche se in genere è una cosa mal vista. La risposta di Lidia Ravera è consapevole e misurata.

«Questo sulla furbizia - dice - è un dibattito davvero troppo meschino. Avere fatto un libro tre anni dopo l'evento è la massima prova a discarico di non avere voluto fare un'operazione commerciale. Il mondo editoriale italiano proietta la propria meschinità su chiunque. Si potrebbe proiettare la stessa accusa di furbizia verso Truman Capote, ma non ha senso. La verità è che nella nostra società ogni evento viene consumato con una voracità tremenda, consumistica. Si parla troppo subito, e poi, proprio perché il consumismo fagocita e rimuove, tutto perde interesse, e la fase di riflessione rischia di non esserci mai. Non mi interessava fare la storia o la cronaca della signorina De Nardo, quanto indagare, problematizzare quello che c'era sotto, o dietro. La sociopatia giovanile è la punta estrema di qualcosa che bolle sotto, a cui mi sono soltanto affacciata, senza essere specialista né di sociologia né di psicologia. Uno dei dati che mi colpiscono maggiormente è l'assenza di empatia, l'incapacità dei giovani di mettersi al posto degli altri, di uscire dal proprio punto di vista. Per esempio: eliminare una ragazza che non vuole più stare con te, significa vedere della ragazza solo ed esclusivamente la funzione che essa aveva aveva nella tua vita ... ».

«Questo libro nasce dalla mia profonda convinzione che i bambini cattivi non esistono - continua Lidia Ravera -. La mostrificazione non mi ha mai convinto, così come non mi convinceva all'inizio la fola degli albanesi, o slavi, né l'edificazione di, un monumento alla vittima perfetta, la "splendida giovanissima donna», come i media descrivevano Erika. Sì, perché una, perfetta vittima deve essere anche una vittima perfetta - bella, bionda, alta 1,75, brava a scuola (cosa falsa), insomma una specie di icona della figlia perfetta. Non ci credevo, così come dopo non ho creduto alla dark lady. Quel senso che suggerivi della parola mostro è importante: con Erika accade qualcosa per la prima volta, fuori dalle spiegazioni sociologiche e dalle categorie esistenti. Lei (come la sua famiglia) ha tutti gli elementi per vivere nella pubblicità del Mulino Bianco. Non è che nemmeno come Pietro Maso, colui che dieci anni prima ucciso in Veneto i propri genitori per avere e spenderne i soldi. Loro - Erika e il suo bragazzo - volevano semplicemente installarsi lì, nella casa, al posto dei genitori... Comunque sia, questa storia ha spostato le frontiere dell'orrore nella realtà e nell'immaginario, ed è dunque naturale che uno scrittore ne sia attratto e vi si misuri. Fa esattamente parte della loro funzione, anche se purtroppo gli scrittori italiani non amano molto sporcarsi le mani con la realtà».

«I libri di Capote erano dei romanzi - continua Lidia -, Ho molto apprezzato il suo misurarsi con fatti di cronaca, ma io non ho scritto un romanzo. Ho solo aperto una finestra postuma su un fatto, ho guardato da vicino quella storia. Ho inevitabilmente usato una parola letteraria, perché è la mia, non è un libro a tesi, c'è sospensione del giudizio. Non è una lettera vera, una lettera spedita. È però l'apertura di un rapporto a due. Non solo nel senso in cui lo è ogni opera letteraria, ogni scrittura, me perché nel marcare il «tu» si sceglie un interlocutore privilegiato, lo si estrae dal collettivo anonimo dei lettori, e si traduce in una marca di autenticità nel tono. Una modestia empirica, come tu dici. Rivolgermi a Erika col tu significa porsi sullo stesso piano, senza presunzioni di innocenza da parte mia né di superiorità, da essere umano fallibile a essere umano fallibile. L'unica superiorità che mi riconosco, nel libro, è quella anagrafica, senza per questo alzare il calice sulla mia generazione, anzi: non faccio mistero di ritenerla uno dei responsabili della deriva della cosiddetta me generation, dell'autoreferenzialità e narcisismo dei più giovani. Non si scrive con una parte di sé, ma con sé tutta intera, e quindi nel mio caso anche come madre, se avere figli fa parte della mia identità ... ».

Leggendo il tuo libro, le dico, cui sono dedicate molte pagine al narcisismo, inteso come incapacità di provare empatia, di dialogare, di relazionarsi, il lettore si accorge poco a poco che la scrittura, il fatto stesso di scrivere, può essere una pratica terapeutica. il tuo libro è allora il tentativo di praticare l'antidoto al narcisismo scrivendo...

«Sì. Ma chi non ha relazione con la letteratura pensa sempre che uno scrittore faccia delle scelte fredde e razionali, a tavolino. Ma mettersi in gioco è un altra cosa. Mettersi profondamente in relazione per capire perché si sia stati feriti o urtati nel profondo da un particolare evento, mette in moto qualcosa che non puoi forcludere. Non dico che questo rapporto con lo scrivere sia meglio di altri, ma uno scrittore è uno che fa questo, non sceglie i libri che scrive in un'ipotetica antologia di temi che si comprano al mercato, ma ascolta le proprie urgenze interiori. Parlo mette in moto un rapporto coi propri fantasmi, coi propri vissuti, che è l'essenza del fare letteratura. Non potevo zittire questa voce. Una delle cose che mi hanno più profondamente turbata è che appena sentii la notizia in tv, come tutti, con l'accusa a presunti rapinatori slavi o albanesi, con quella ragazza sfuggita al massacro, pensai immediatamente con un brivido che fosse stata lei, ma non osavo dirlo. Era una ferita che palpitava, e ho cercato di capire perché mi turbasse tanto. Ho cominciato a scrivere per me, sui quaderni. Mi colpiva l'essere stata così colpita, e profondamente, eppure non sono una che sanguina per qualsiasi cosa. Il guaio è quando vai a scavare dentro di te qualcosa trovi sempre, l'umano trova assonanze con qualsiasi orrore. È un rischio. La gente cosiddetta adulta non prende rischi. Forse per questo mi sono così simpatici gli adolescenti (...) Imparare a scrivere è imparare a pensare. Uno dei fondamentali problemi di Erika (e degli erilkoformi, come i tanti che le hanno scritto lettere di approvazione) è che non sanno pensare. Imparare a scrivere è l'unica cosa che mi viene in mente per curare questa loro deficienza: imparare a stabilire delle relazioni. Se uno legge romanzi è come ancorato a riconoscere l'umanità dell'altro. Nei grandi romanzi i personaggi sono persone. Ti aiutano a identificare e riconoscere delle persone. Per aiutare queste generazioni che non leggono né scrivono io mi sono proposta alla responsabile degli istituti minorili per dare gratis lezioni di scrittura ai detenuti. Come Erika».

Il freddo dentro, di Lidia Ravera, Rizzoli - pagg.174, €13,50