domenica 16 novembre 2003

Macaluso, un libro sulla storia del PCI

La Stampa 16.11.03
MACALUSO PUBBLICA «50 ANNI NEL PCI». RITRATTI, CONFESSIONI, INGANNI, LA POLITICA MISCHIATA CON GLI AFFETTI
Comunisti a cuore aperto
Fra i ricordi il suicidio della donna amata
di Pierluigi Battista


SI chiede Emanuele Macaluso nel Prologo che apre il suo 50 anni nel Pci , ora in libreria per la casa editrice Rubbettino (con uno scambio epistolare con Paolo Franchi): «Si può parlare della storia del Pci senza parlare di chi in quel partito ha militato, e delle ragioni per cui, nonostante tutto, lo faceva con disinteresse e passione?». Per Macaluso, evidentemente non si può. E per un dirigente storico del Pci, esponente di lungo corso di quella corrente «migliorista» che con più decisione (ma per la verità non sempre, come dimostrano i casi di Giorgio Amendola e Paolo Bufalini) ha rivendicato ancor prima della «svolta» di Occhetto la resa dei conti con l’Urss e l’attenzione verso i modelli della socialdemocrazia e del riformismo, questa convinzione si traduce nell’esigenza di scrivere non tanto la storia del comunismo, ma quella dei comunisti. Dei comunisti italiani, per l’esattezza. Dei loro volti, delle loro azioni, delle loro debolezze: crollato il comunismo, resta ancora molto da scrivere e da riflettere sul tragitto umano e intellettuale di chi ha scelto il Partito comunista italiano.
Il punto di vista di Macaluso risulta così «continuista» rispetto all’esperienza storica dei comunisti italiani. Quanto più radicale appare la rottura teorica e culturale con l’universo del comunismo, tanto più accorata è la rivendicazione della buona fede dei comunisti, come si diceva una volta, «in carne ed ossa». Anche Palmiro Togliatti, il monumento della «doppiezza» comunista italiana (infrangibile fedeltà al legame di ferro con l’Urss ma anche sottolineatura della via peculiarmente «italiana» al socialismo), ne esce assolto. Sempre che sia lecito usare una categoria dal sapore più giudiziario che politico e storiografico come l’«assoluzione».
Ma è certamente qualcosa di più di un commosso ricordo, il percorso nella memoria dei comunisti italiani che Macaluso compie, a partire dal suo primo avvicinamento ai comunisti nella natìa Caltanissetta, agli inizi degli Anni Quaranta. E’ una galleria di ritratti, di letture, di tensioni e di scontri. Om questa galleria, si stagliano le icone di Girolamo Li Causi e delle sue battaglie contro la mafia. Di Eugenio Reale, il comunista che abbandonò il partito nel ’56 e che venne spietatamente ostracizzato dai suoi ex compagni («Mi salutò cordialmente, io gli risposi con imbarazzo. Avrei voluto fermarlo e dirgli qualcosa, ma non lo feci: e questo è uno dei miei atti di viltà che non ho dimenticato», confessa con giustificato pathos Macaluso). Di Giuseppe Di Vittorio, il «sindacalista unitario e volto riformista». Di Paolo Bufalini, «gran testa politica». Di Giancarlo Pajetta, «l’intelligenza e la nevrosi». Di Giorgio Amendola e delle sue contraddizioni. Di Enrico Berlinguer, anzi dei «due» Berlinguer, quello della «solidarietà nazionale» e quello degli ultimi anni aggrappato al mito della superiorità morale dei comunisti. Di Achille Occhetto, raffigurato sia nella veste di leader del partito in Sicilia negli Anni Settanta, sia come protagonista della svolta che porterà alla fine del Pci, sul quale Macaluso non offre una definizione altrettanto icastica, presentandolo come prigioniero di un interrogativo: «Liquidatore o salvatore?».
Ma Macaluso, cui l’esperienza giornalistica ha certamente smussato e sciolto molte rigidezze tipiche di un funzionario di partito a tempo pieno, aprendo la sua curiosità a fatti e stati d’animo non riconducibili nelle categorie fisse della politica professionale, si dimostra molto attento ad esplorare gli incroci tra politica, costume e mentalità dentro e fuori il partito, mettendo apertamente in gioco, con coraggiosa franchezza, anche il proprio privato e raccontando episodi dolorosi, talvolta atrocemente dolorosi, in cui la dimensione affettiva ha riverberato i suoi effetti anche sulla politica. E’ così quando Macaluso, nel 1960, viene accusato di aver falsificato documenti perché aveva iscritto i figli all’anagrafe senza dare il nome della madre giacché, «sulla base delle leggi dell’epoca, se la mia compagna, separata legalmente, avesse dichiarato di aver avuto un figlio, questi avrebbe dovuto avere per padre “legale” l’ex marito, che lei non vedeva da anni». Racconta Macaluso: «Informai Li Causi e assieme a lui ne parlai con l’avvocato Nino Sorgi, nostro comune amico: restò sbalordito per l’iniziativa ma ci disse pure che avrebbero potuto arrestarmi».
In un’altra occasione affetti e politica si mischiano nella vita di Macaluso. Accade che la figlia della sua compagna Ninni, Fiora Pirri Ardizzone, viene arrestata con l’accusa di terrorismo. Dopo sette anni di carcere, nel 1985, il presidente Pertini fa capire a Macaluso, al tempo direttore dell’ Unità , che era possibile coinvolgere Fiora in un provvedimento di grazia per i carcerati «che si fossero dissociati e non avessero commesso reati di sangue». Ma «Pertini di fronte alle proteste di Galante Garrone fece marcia indietro e, mentendo, dichiarò che il Segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, l’aveva ingannato, facendogli firmare un documento di cui non conosceva bene il contenuto». L’operazione saltò, ma Maccanico dovette rassegnare le dimissioni, poi rientrate per insistenza dello stesso Pertini.
Ma l’episodio più doloroso («È la prima volta che racconto pubblicamente questa storia, e il ricordo mi ferisce ancora») è quello che Macaluso ha vissuto quasi trentacinque anni fa: «Nel 1964 incontrai Erminia Peggio, sorella di Eugenio, mio amico ed economista del Pci, e quasi subito allacciammo una relazione amorosa molto intensa. Nel 1966 Erminia mi chiese di metterci insieme; io, per viltà, non ero in grado di rompere tutti i ponti con la mia famiglia e le dissi di no». Ma «Erminia si offese del mio no, si amareggiò. Era una donna molto fragile: dopo alcuni mesi si suicidò». E ancora: «A darmi la notizia del suicidio fu Natta: mi telefonò a Firenze dove avevo tenuto una riunione in preparazione dell’XI congresso. Mi parve che mi cadesse il mondo addosso. Non credo di avere mai sentito un’emozione e un dolore così lancinanti».
Il fatto privato, dolorosamente privato, che piomba su Macaluso, ha anche degli imprevisti risvolti politici nel partito: a Peggio «Amendola aveva chiesto di formalizzare un’accusa di “scorrettezza morale” nei miei confronti attraverso un colloquio con Mauro Scoccimarro, presidente della Commissione di Controllo. E Peggio lo fece, anche se poi la cosa non ebbe un seguito. Non ho capito se Amendola agì per eccesso moralistico (era nel suo carattere) o perché utilizzò quell’episodio - come si faceva nelle “famiglie” della Terza Internazionale - dato che in quel periodo avevamo contrasti politici». In un caso o nell’altro, l’atteggiamento di Amendola è spia di un clima psicologico e culturale anch’esso determinante per capire la vicenda storica e umana del comunismo. E anche dei comunisti. Dei comunisti italiani.