sabato 15 novembre 2003

Ildegarda di Bingen

La Repubblica 15.11.03
Il maggior genio femminile di tutto il Medioevo

Esce "Il libro delle opere divine"
Nata nel 1098 entrò in convento da bambina . Fu badessa, erborista, guaritrice d'anime e di corpi, esorcista, indovina e musicista. L'opera della Bingen è qualcosa di simile ad un universo
Corrispondeva con monaci, vescovi, principi e sovrani d'ogni paese. Arrivò a minacciare di morte Federico Barbarossa
Per tutta la vita fu malata e soffriva di violentissime emicranie: le visioni e le profezie le davano intanto del dolore

di PIETRO CITATI


Vorrei consigliare un libro ai lettori italiani che, fra pochi giorni, a Milano e a Roma, a Vicenza e a Siena, a Napoli e a Palermo, a Orvieto e a Ancona, a Firenze e a Lecce, salendo su metropolitane, autobus, tram, automobili, motorini, biciclette o a piedi, raggiungeranno le librerie delle loro città, per acquistare a se stessi e agli amici un dono di Natale. Sui tavoli delle librerie, troveranno soprattutto romanzi moderni: pessimi, mediocri, discreti, buoni, qualcuno ottimo. Non li comprate. Sapete già cosa contengono: le storie della vita quotidiana; nascite, infanzie, amori, ricchezze, dolori, violenze, fantasie, pensieri, morte. Per una volta, voltate le spalle alla vita quotidiana, che conoscete (o credete di conoscere) anche troppo bene.
Chiedete al vostro libraio Il libro delle opere divine di Ildegarda di Bingen (benissimo commentato e tradotto da Marta Cristiani e Michela Pereira, Mondadori Meridiani Classici dello Spirito, pagg. CLXIX-1316, euro 49, con miniature del XIII secolo), composto negli anni dal 1163 al 1174 da una monaca tedesca. Non è un libro ma un universo: qualcosa di lontanamente simile alla Divina Commedia: un'opera di cosmologia, teologia, filosofia, ermeneutica, psicologia, terapeutica, medicina, profezia: nutrita da un'immensa sensibilità, intelligenza razionale, immaginazione, sensualità, solennità, tenerezza; dove appaiono le cose visibili e quelle invisibili, quelle che Ildegarda conosceva per esperienza e quelle (come l'eros) che aveva scoperto nella sua fantasia illimitata. Sconosciuta e dimenticata per secoli, quest'opera avrebbe entusiasmato Goethe e Balzac, Blake e Baudelaire, Wagner e Yeats, e entusiasmerà i lettori moderni, i quali hanno dimenticato che esistono anche le opere divine.
Ildegarda di Bingen fu il maggiore genio femminile del Medioevo; e tra le donne moderne non le saprei mettere vicina che Emily Dickinson. Nacque, vicino a Magonza, nell'estate del 1098. Di famiglia aristocratica, entrò in convento da bambina: imparò a leggere sui Salmi, recitò e cantò i Salmi, si alzò alle due della notte per il Mattutino, alle prime luci dell'aurora recitò le laudi, al crepuscolo i vespri. Attorno al 1148, fondò un nuovo monastero, a St. Rupertsberg, dove fu badessa, erborista, guaritrice d'anime e corpi, esorcista, indovina, musicista. Scrisse molti libri, tra cui Scivias, ed opere medico-scientifiche. Nutrì un´ardente passione per una giovane monaca, Riccarda von Stade, che l'abbandonò per dirigere la fondazione di Bassum, e morì poco dopo, ispirando a Ildegarda parole terribili: «Dio non aveva voluto che la propria amata avesse un amante rivale, cioè il mondo». Negli ultimi anni di vita, diventò una autoritaria Sibilla cattolica. Predicava nei conventi tedeschi, attraversando la Germania in battello. Corrispondeva con monaci, vescovi, principi, sovrani di ogni paese, papi, imperatori, non risparmiando a nessuno la violenza della sua parola: «O re, scrisse a Federico Barbarossa con la voce di Dio, se ti preme di vivere, ascoltami, o la mia spada ti trafiggerà». Morì nel settembre 1179 nel suo convento, dopo aver annunciato la prossima morte.
Per tutta la vita fu malata, specialmente di violentissime emicranie, per cui si sentì diversa da tutti gli altri esseri umani: in un certo senso, più infantile. Le visioni e le profezie, che Dio le concedeva, erano in primo luogo dolore, tremendo dolore: perché una creatura umana non può esprimere senza angoscia un messaggio ultraterreno. Aveva paura di rivelare le visioni: sentiva che Dio, con robusti tocchi, la obbligava a scrivere la sua parola: non vedeva, veniva oppressa nel cuore da un peso insopportabile; ma anche quando obbediva alla voce scrivendo i segni misteriosi, le sue viscere erano scosse, i suoi sensi corporei annientati, le carni tormentate. La malattia era una introduzione alla visione: come accadeva ai poeti omerici che le Muse rendevano ciechi, o a Maometto, al quale l'arcangelo Gabriele strappava l'anima a pezzi. Non c'era altra strada. Per gli altri, le sue visioni e profezie erano scandalo. Ma Ildegarda sapeva di dover sopportare lo scandalo e la lacerazione. Alla fine del dolore e dell'annientamento, Dio lasciava scendere nella sua anima una rugiada di gocce soavi: un miele ultraterreno.
Le visioni di Ildegarda non avvenivano né in sogno né in trance né nell'estasi, come la maggior parte delle rivelazioni mistiche. Ildegarda era sveglia: vedeva con gli occhi, ascoltava con le orecchie; eppure le visioni non accadevano attraverso gli occhi e gli orecchi del corpo. Tutto avveniva molto più in profondo: in quella zona lucidissima, irraggiungibile ai sensi, che è l'anima - questo senso supremo. Quando guardava nell'anima, Ildegarda si rendeva conto che non poteva rappresentare né descrivere esattamente ciò che vedeva: perciò, come Dante, diceva sempre: qualcosa come, qualcosa come - perché la rivelazione divina non si può comunicare con precisione. Eppure le descrizioni di Ildegarda non hanno nulla in comune con i sublimi, rapidissimi e tenebrosi scorsi dell'Apocalissi cristiana. Sebbene la visione divina non sia rappresentabile, Ildegarda la descrive con una nitidezza e lucidità che non finiscono di meravigliarci. Sembra di contemplare una pittura fiamminga: Van Eyck o Bosch; sembra di consultare la carta topografica dell'anima, con la più estrema esattezza di misure e di rapporti.
Mentre vedeva, Ildegarda ascoltava la voce di Dio, che le diceva: «Scrivi ciò che hai visto ed udito». All'improvviso, la voce divina le parlava, ci parla con una straordinaria altezza, sublimità e solennità di timbro: «Io che sono senza inizio, sono il fuoco da cui tutti gli astri sono accesi»; «Io sono il sostegno di tutto, perché tutte le cose ricevono da me il loro ardore, io sono vita sempre eguale a sé stessa nell'eternità». A volte, Ildegarda dubitava che si trattasse di suoni: non erano parole, ma «fiamme scintillanti, nubi che si muovevano in aria pura»: perché visione e parole erano identiche. Ildegarda sapeva di essere soltanto una paupercula forma, l'ultima creatura della creazione - debole, malata, fragile, forse abitata da passioni perverse. Eppure quella voce-visione veniva da Dio; e lei doveva manifestarla ad ogni costo, persino con scandalo e vergogna. Qualsiasi cosa accadesse, il segreto andava rivelato a tutti, perché doveva diventare di tutti. Ildegarda era una piccola tromba, che emetteva suoni, ma non era la causa dei suoni: Dio soffiava nella tromba con la sua voce grandiosa ed esorbitante; e lei ne risuonava un poco, come la lieve nota dello splendore divino.
La rivelazione dell'Apocalisse di Giovanni restava oscura: chiusa, non solo per noi, ma probabilmente per i suoi contemporanei. Giovanni voleva restare oscuro nei secoli. Il caso di Ildegarda era opposto: Dio non si accontentava di farle vedere ed udire, ma commentava, interpretava, analizzava il significato di tutte le parole ed immagini. Il Dio di Ildegarda era un interprete: come Origene, Basilio ed Agostino, scriveva, per mano di lei, minuziosissimi e complicatissimi commenti allegorici, che talvolta sgomentano il lettore moderno. Tutto doveva venire spiegato: perché la visione, come nella Divina Commedia, coincideva con il pensiero che stava nascosto nella visione e la commentava. Malgrado le continue professioni di incultura, Ildegarda conosceva (per via diretta o indiretta) quasi tutta la cultura teologica, filosofica e scientifica del Medioevo: qualcosa di quella classica ed araba, come Marta Cristiani e Michela Pereira dimostrano nel loro commento. Mentiva come Omero e gli aedi dell'Odissea: i quali derivavano i loro canti da una tradizione epica antichissima, eppure sostenevano di dovere tutto soltanto alla Musa, che li «ispirava» o «piantava in loro i canti», come il Dio cristiano piantava immagini e parole-fiamma nell'animo di Ildegarda.
L'esperienza e la teoria della visione, come venne elaborata da Ildegarda di Bingen, è forse la più straordinaria che sia mai apparsa nella letteratura occidentale. I moderni non la comprendono: persino un uomo intelligente come Oliver Sachs la attribuisce alle sue emicranie e all'«aura» derivata dalle emicranie. In realtà, l'esperienza di Ildegarda è simile a quella di molti grandi poeti visionari antichi e moderni. Nella sua anima avveniva una grandiosa metamorfosi. All'improvviso sentiva che tutta la sua ricchezza psicologica ed immaginativa, tutti i milioni di percezioni minutissime che la abitavano, tutte le estasi, i furori, le malattie, le analogie appartenevano a un altro: si chiamasse Musa o Dio. La sua conoscenza personale diventava supremamente oggettiva; audizione fiammeggiante, immagine luminosa. Non c'era più Omero, ma la Musa: non c'era più Ildegarda ma il Dio creatore o incarnato. Così Il libro delle opere divine era una rivelazione, che non poteva essere dimenticata o mutata; «Nessuno si azzardi a cambiare una sola parola di questa scrittura né aumentandola né diminuendola, per non essere cancellata dal libro della vita». «Chi tenterà di fare altrimenti, sappia che pecca contro lo Spirito Santo». Ildegarda aveva scritto immutabilmente, e per sempre.
Come nel Paradiso di Dante, la visione era soprattutto luce. A tre anni, Ildegarda «vide una luce così grande che la sua anima ne fu scossa». A quarantadue anni, ebbe la rivelazione definitiva: «una luce ignea abbagliante, che venendo dal cielo aperto, penetrò completamente il cervello e, come una fiamma che non brucia ma riscalda, infiammò completamente il suo cuore e il suo petto, come il sole riscalda le cose sulle quali posa i suoi raggi» - «e questa luce le svelava gli estremi del firmamento e le contrade più lontane». Ildegarda cercava di distinguere le diverse fiamme: diceva di scorgere una intensa luce riflessa, «l'ombra della luce vivente»; e poi, più di rado, lo stesso «splendore vivente senza ombra», forse quello divino, che allontanava ogni tristezza e angoscia, restituendole la freschezza e la semplicità dell'infanzia. Tutto il libro è scritto, visto, udito, tessuto su questo sfondo di splendore. Molti secoli sono passati: la luce del sole non è scomparsa dal mondo: fino a cinquant'anni fa, pittori e scrittori ne inseguivano le scintille e le rifrazioni: eppure sembra che oggi il Cristianesimo abbia abbandonato la sua simbologia luminosa, come se fosse diventata un segno secondario.
Ildegarda non afferma che Dio si identifica con la natura: tra Creatore e Creazione resta un abisso; eppure mai come nel "Libro delle opere divine", nemmeno in Dante, abbiamo l'impressione che Dio - l'invisibile, l'irraggiungibile, l'indescrivibile - sia presente, attivo, mobile e guizzante in tutte le cose create, come la loro nascosta forza trionfale. Dio è «fuoco inestinguibile», che accende le scintille viventi, fiammeggia nella bellezza dei campi, riluce nelle acque, arde nel sole, nella luna e nelle stelle. Dio è soffio: attraversa il mondo come i venti orientali e occidentali, inesausti e incessanti, lo percorre in ogni senso, come un turbine impetuoso e dolcissimo, che dà vita alle cose. Dio è acqua. L'acqua fa crescere i semi, genera le piante, si espande, si dilata, matura, verdeggia: diventa una viriditas onnipresente, un'energia biologica che impregna anche le pietre e le montagne. Nel mondo cristiano, tutto è viriditas : persino il germoglio dell'anima, l'impulso della fede, lo slancio del pensiero, il movimento dell'analogia, e Gesù, nato dall'utero di una vergine come le erbe e i fiori nascono nei prati.
Ildegarda immaginava che Dio nascondesse i suoi profondi misteri nel fuoco e nel soffio, nell'acqua e nel verde; e lì soltanto poteva intravederli. Sapeva che la natura obbediva a una parola essenziale: rapporto. Rapporto tra il corpo e lo spirito: perché tutto è fisico, tutto è spirituale. Rapporto tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra la destra e la sinistra. Rapporto tra l'uomo e il cosmo: il corpo umano è come la terra, le ossa come le montagne, gli occhi come le stelle, il cervello come le miniere, il ventre come il mare, gli intestini come i fiumi, i nervi come i ruscelli, le parole come il tuono, le grida come i fulmini. Rapporto tra l'uomo, la natura e gli animali: perché gli uomini, creati a immagine e somiglianza di Dio, portano in sé stessi i leoni, i leopardi, i granchi, gli orsi, gli alberi, i fiumi, il cielo, i pesci, le pecore - e soprattutto il tempo.
Nel mondo verdeggiante di Ildegarda, tutto era compatto, solidale: ogni cosa era connessa con un'altra o era il riflesso di un'altra: relazioni stringevano fra loro gli estremi: nemmeno un oggetto era frammentario; niente era spezzato. Come sette secoli dopo avrebbe scritto Baudelaire:
«La natura è un tempio dove colonne viventi
lasciano talvolta uscire dalle confuse parole;
l'uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l'osservano con sguardi famigliari.

Come lunghi echi che da lontano si confondono
in una tenebrosa e profonda unità,
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono».

Solo che in Ildegarda, le parole non erano mai confuse: l'unità non era mai tenebrosa.
Come nella luce, Ildegarda credeva nella musica. Quando Adamo cantava nell'Eden le lodi di Dio, «la sua voce era come quella degli angeli»: così forte e sonora, che oggi non potremmo sopportarne il timbro. Poi Adamo peccò: la musica fu perduta e dimenticata; la voce dell'uomo diventò riso e lazzo, come avrebbe ripetuto Baudelaire. Ma non per sempre. Col tempo, i profeti e i nuovi artisti inventarono strumenti musicali, salmi e cantici, e diversi generi di melodia «per poter assecondare il piacere dell'anima». Nell'età di Ildegarda, la musica era rinata; e gli uomini e soprattutto le donne potevano, cantando e suonando, trasformarsi, «fino a recuperare la dolcezza dei canti della patria celeste». Era il sospiro, il pianto, il ricordo, la lode, l'armonia ritrovata.
Nel monastero di St. Rupertsberg, ogni domenica Ildegarda raccoglieva le sue quaranta o cinquanta monache. Le donne, che non erano nate dalla polvere della terra ma dalla carne di Adamo, erano il culmine della creazione; e a loro volta le monache, le vergini, incarnavano la sommità della viriditas, perché permanevano «nell'assoluta semplicità e bellezza del paradiso, nel pieno verdeggiare dell´albero in fiore». Le monache di Ildegarda discendevano da famiglie aristocratiche: indossavano splendide vesti bianche di seta, corone con impressi la croce e l'agnello, e un pallido ornato da zaffiri, smeraldi e perle - perché la religione era anche, secondo Ildegarda, il trionfo della forma sontuosa e della bellezza.
Le monache cantavano le musiche composte da Ildegarda; e oggi quando ascoltiamo quelle musiche ora ricomposte, ci sembra che intorno echeggi lo spazio di un'immensa chiesa gotica, non della modesta e forse povera chiesa di Ildegarda. «Lodate Dio - diceva il salmista - con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra, lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti. Ogni vivente dia gloria al Signore!». Le voci delle monache ascendevano verso l'alto, sullo sfondo della musica immobile: ascendevano verso l'alto, sempre più verso l'alto, dove forse si celava «l'ombra della luce vivente» o lo «splendore vivente». C'era, in tutte loro, devozione, venerazione, esaltazione. Eppure la misura non veniva spezzata: la forma non veniva violata; la ragione non veniva abolita. Un sovrano equilibrio riempiva lo spazio della chiesa, perché la viriditas fondeva lo slancio dell´esaltazione con la limpidezza della misura.