sabato 15 novembre 2003

Cancrini sul caso dell'assassina di Firenze

Il Messaggero Sabato 15 Novembre 2003
E’ Daniela Cecchin, ...
di LUIGI CANCRINI


E’ Daniela Cecchin, 47 anni, la donna che ha ucciso - rea confessa - sabato scorso a Firenze Rossana D’Aniello, 47 anni, bancaria e moglie di un farmacista. Ha suonato alla porta della sua vittima e l’ha quasi decapitata con un colpo di coltello: «L’ho fatto per invidia, perché lei era felice e io no».
La cosa che più mi colpisce, di fronte all’omicidio, è sempre il divario forte che c’è fra la debolezza delle motivazioni proposte da chi lo ha commesso e l’enormità irrimediabile del fatto che si è verificato. Invidia, dice oggi la donna fino a ieri normale o apparentemente normale che ha ucciso un’altra donna a Firenze solo una settimana fa. Vendetta, suggeriva questa estate lo psichiatra radiato dall’Ordine dei medici che aveva ucciso il collega che non era riuscito a curarlo. Incapaci ambedue di dar conto con parole appropriate, nel momento in cui lo hanno davvero commesso, nel momento in cui non è più possibile liberarsi dell’enormità del loro atto, del fluire tumultuoso di emozioni, vissuti e passioni che hanno reso il delitto in qualche modo naturale solo poche ore prima.
Sto cercando di studiare con particolare attenzione in questi ultimi anni, con l’aiuto degli psichiatri e degli altri operatori che lavorano in un ospedale psichiatrico giudiziario a Montelupo Fiorentino, quello che accade nella mente di tanti omicidi nelle ore, nei giorni, nei mesi che precedono il loro gesto. Perché, a volte, il delitto sembra emergere all’improvviso, dal nulla di un pensiero che non c’era. Perché, altre volte, il delitto si presenta come un comportamento naturale all’interno di quello che viene descritto come uno stato sognante, un incubo sognato ad occhi aperti del tipo di quello immaginato dal regista del film dedicato al Truman show: l’uomo che pensava di aver capito che il mondo intorno a lui era una rappresentazione, un incredibile spettacolo teatrale recitato solo per filmare le sue reazioni. Perché, più spesso, il delitto è lo sbocco di un pensiero inseguito a lungo, combattuto e accarezzato a lungo, legato a situazioni o ad eventi avvenuti molto tempo prima, a lungo rimasticati nell’inconscio e nella coscienza della persona, dall’interno di un vissuto febbrile, sempre, gonfio di risentimenti e di paure, di rabbia e di sentimenti di umiliazione in cui l’idea dell’omicidio è apparsa dopo un certo tempo, ed è scomparsa e si è ripresentata definendo una condizione tormentosa di insicurezza progressivamente più difficile da sostenere. Come magistralmente descritto da Dostoevskij nel Raskolnikov di Delitto e castigo. Come probabilmente vissuto, in questi ultimi mesi o giorni, dalla Daniela Cecchin delle cronache di oggi.
Se questo è il punto da cui si può partire in un tentativo di capire, tuttavia, il problema che ci troviamo ad affrontare è un problema che rischia di sembrare semplice dal punto di vista teorico ma che assai complicato si presenta comunque dal punto di vista pratico. Il giudizio da dare sul funzionamento della mente di un uomo che uccide un altro uomo, infatti, diventa inequivocabilmente e regolarmente un giudizio di anormalità, di patologia franca del suo vissuto e del suo comportamento. La scelta operativa da fare nei suoi confronti, tuttavia, non è per niente semplice.
Quello che mi viene da proporre, assai sommariamente e assai sommessamente, è che dovremmo essere capaci di preparare, di immaginare, di studiare in tutte queste situazioni un progetto di cura. Centrata sulla pena e sulla reclusione per un tempo sufficientemente lungo, certamente, perché quello che la persona che uccide deve comunque accettare è il principio di realtà e perché il riconoscimento della gravità di ciò che ha fatto è alla base di questa accettazione. Ma centrato anche, nello stesso tempo, sulla capacità di ascoltare chi ha ucciso un’altra persona per aiutarlo a capire quello che gli è davvero successo, le origini lontane del disturbo di personalità che ha reso possibile questa sua assurda e speciale reazione. Sapendo sempre che, per quanto ciò sia difficile nell’immediata vicinanza del fatto, quella cui ci si trova sempre di fronte è una patologia che ha determinato, molto tempo prima del fatto per cui la persona ora è giudicata, una sua sostanziale e drammatica incapacità di vivere, che ha avuto un’importanza decisiva nel determinarsi del suo gesto folle e di cui lui o lei hanno comunque il diritto di essere curati.

Il Messaggero Sabato 15 Novembre 2003
Lo psicologo: un caso di stalking


Un omicidio che rappresenta «l’estrema conseguenza di precedenti e ossessivi comportamenti persecutori riconducibili ad una sindrome definita stalking» spiega Massimo Lattanzi, psicologo clinico dell’Osservatorio nazionale stalking. «Lo stalking prevede un diversificato campionario comportamentale che include telefonate, invio di sms, e-mail, pedinamenti, danneggiamenti e atti vandalici nei confronti della vittima prescelta e dei suoi familiari fino ad arrivare ad aggressioni e violenze fisiche. Si differenzia da altre molestie per frequenza, esiti psicologici e durata». Per l’Osservatorio circa il 22% degli italiani monitorati, sono state vittime di atti di stalking.