giovedì 20 novembre 2003

secondo una sentenza della terza sezione penale
della Corte di Cassazione

il Tempo 20.11.03
La pedofilia non è malattia mentale


ROMA — La pedofilia, di per sé, non esclude né attenua la capacità di intendere e volere. Insomma non è una malattia mentale in virtù della quale i pedofili possono ottenere sconti di pena - tramite la concessione delle attenuanti per la diminuita capacità psichica - sostenendo che la loro volontà era offuscata, o scemata, nel momento dell'abuso sessuale sui minori. Lo sottolinea la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 43135. In particolare, con questo verdetto, la suprema corte ha rigettato la tesi di un imputato - Aurelio M. condannato a 8 anni di reclusione dalla corte d'appello di Perugia per aver violentato, per 12 anni, un minore - che protestava per la mancata concessione dell'attenuante. L'uomo aveva chiesto ai supremi giudici di pronunciarsi a favore di una pena più mite dal momento che la perizia di parte aveva riscontrato, in lui, un deficit delle capacità intellettive e volitive avvalorato anche dai precedenti episodi di pedofilia che avevano arricchito la sua fedina penale. Ma piazza Cavour ha bocciato la tesi per cui i pedofili abituali sarebbero una sorta di minorati mentali che non sanno quel che fanno.

...e La Gazzetta del Sud, sempre di oggi, precisa:

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...Piazza Cavour ha bocciato la tesi per cui i pedofili abituali sarebbero una sorta di minorati mentali che non sanno quel che fanno. Rilevano in proposito gli ermellini che «se è vero che la pedofilia, come modifica dell'oggetto sessuale in direzione dei minori, presenta ordinariamente carattere di abitualità, ai fini penali questa condizione non esclude né attenua la capacità di intendere e volere e, di conseguenza, la penale responsabilità per abusi sessuali contro i minori». Spiega la Cassazione che non c'è alcun motivo di equiparare, tout court, e a priori, i pedofili agli incapaci. A questa conclusione – prosegue il Palazzaccio – può arrivare solo il giudice di merito sulla «base dell'esame dei test psicologici e psichiatrici, dei colloqui clinici e di altri elementi» qualora «ricorrano le condizioni di una vera e propria malattia in grado di escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e volere». Tale circostanza, però, avvertono i magistrati di legittimità, non ricorre in presenza di un qualsivoglia disturbo caratteriale.