La Repubblica 29.11.03
Mezzo secolo dopo l'occupazione delle truppe di Mao, la Cina continua a favorire l'immigrazione degli han
Matrimoni misti e quiz televisivi così Pechino ha cancellato il Tibet
L'integrazione tra questi due popoli è l'ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul tetto del mondo La capitale somiglia oggi a qualsiasi città di provincia, ricostruita dopo la svolta capitalistica degli anni Ottanta
DAL NOSTRO INVIATO BERNARDO VALLI
LHASA - La signora Cui Yuying non ha dubbi sulla doppia natura del quattordicesimo Dalai Lama: come religioso è un Buddha, come politico è un reazionario. Perché un reazionario? Perché rifiuta l'unità del paese. Altri interrogativi non sarebbero superflui. Potrei chiedere ad esempio, alla signora Cui Yuying, se Cina e Tibet non siano due terre distinte. Non è una forzatura parlare di una stessa nazione? Dovrei chiederle ancora se su questo altopiano, tanto vicino al cielo e tanto lontano dal resto del mondo, religione e politica non si confondano. Se cosi è, il Dalai Lama non è forse un capo spirituale e temporale, come dice la tradizione teocratica dell'antico Tibet che sopravvive? Ma sarebbero bestemmie. Pure provocazioni. Del resto, con un'occhiata, senza venire meno a una condiscendente cortesia, la signora Cui Yujing taglia corto. Chiude l'argomento. E subito nel ristorante dove avviene l' incontro (e dove invitanti odori annunciano arrosti di yak e teste di montone lesse) l'atmosfera si distende. Dignitari, giornalisti e interpreti, testimoni del dialogo tra il rappresentante del potere e l'ospite straniero, tirano un sospiro di sollievo. Il tema del Dalai Lama crea tensione. Lo sguardo della signora Cui Yuying rivela l'abitudine al comando. Il personaggio è di rilievo. è vice presidente della Provincia autonoma del Tibet, secondo personaggio nella gerarchia del potere, ed anche una donna che riassume la storia recente di questo popolo. è nata da un padre han, vale a dire cinese, e da una madre tibetana, una cinquantina d'anni fa, quindi subito - o poco - dopo l'invasione e l' annessione alla Repubblica Popolare. è lei stessa a dirmelo quando esprimo il mio scetticismo sulle statistiche ufficiali, secondo le quali soltanto il cinque per cento della popolazione sarebbe cinese. Percentuale che smentirebbe il «genocidio culturale», perpetrato, si dice, anche attraverso l'immigrazione cinese orchestrata da Pechino, al fine di diluire, e col tempo cancellare, l'identità tibetana di questa terra. Ho fatto notare alla signora Cui Yuying che per le strade di Lhasa si incontrano soprattutto cinesi, e lei replica che gli stranieri sono tratti in inganno dal gran numero di figli e figlie di matrimoni misti. «Come me», scandisce, guardandomi negli occhi con una fissità che sento sulla pelle quasi fosse uno schiaffo. Una sfida. Poi distoglie lo sguardo, si gira lentamente, e alza il mento, con un leggero movimento del capo. E io ho l'impressione che si metta di profilo per esibire i tratti somatici dei due popoli che convivono in lei. Ma soltanto la gente del posto può distinguere nei suoi lineamenti le tracce tibetane (l'occhio più aperto, quasi latino, e la pelle un po' scura) dalle impronte cinesi che prevalgono in modo netto. Prepotente. Suggestionato dalla tragica storia di questo paese, il cui ricordo ti accompagna ad ogni passo, do un significato profondo al quasi impercettibile, orgoglioso gesto che penso di avere colto nell' atteggiamento della signora Cui Yuying. Non mi ha forse fatto capire che lei è la prova, in carne ed ossa, della fusione tra Cina e Tibet? Un'unità indissolubile, ormai nel sangue, contro la quale il Dalai Lama in esilio, e il resto del mondo, non possono più nulla da un pezzo. Altri interlocutori mi hanno dichiarato, con uguale drammatico orgoglio, il loro sangue misto, cinese-tibetano, per denunciare l'abbaglio di cui saremmo vittime noi stranieri. A Lhasa, e in generale nei centri urbani, vediamo soprattutto cinesi, e immaginiamo che i tibetani siano relegati nelle zone rurali. Zhang Jiam, direttore della Tv locale, mi spiega che tanti commercianti del grande mercato, di Tromzikhang, sono cinesi come lui. E anche lui, come la signora Cui, viene da una famiglia mista. È un tibetano di padre cinese. E pure lui si presenta quale esempio dell' integrazione, anzi dell'unità carnale, tra il Tibet e la Cina. Dopo l'invasione i due popoli, che nella loro lunga storia si sono raramente amati, spesso detestati, e più volte combattuti, avrebbero cominciato a unire il loro sangue, secondo un piano che ha cambiato il panorama umano delle città. Nel dramma di questa terra ci sono tante storie inquietanti. C'è tanta passione. è comunque una terra in cui arrivo con grande ritardo. Un ritardo di cui mi rendo subito conto alle porte di Lhasa, quando (proveniente dall' aeroporto di Gonggar, dopo un'ora d'autostrada, in una splendida valle lunare) mi inoltro nei grandi, anonimi rettilinei tracciati dagli urbanisti cinesi. E la magia iniziale va in fumo, svanisce, si trasforma in delusione lungo gli ampi, interminabili viali, identici a quelli che mi sono lasciato alle spalle, nelle città ricostruite dopo la svolta capitalistica degli anni Ottanta. Viali che tagliano quartieri geometrici, delimitati da reggimenti di edifici, come ne trovi in tutti i centri di provincia della Repubblica Popolare. Strade addobbate con miriadi di cartelli su cui campeggiano ideogrammi cinesi che annunciano ristoranti cinesi o negozi di telefoni cellulari fabbricati in Cina o centri di karaoke con ragazze tibetane e cinesi. Insieme al sangue dei matrimoni misti, la Cina ha portato il vetro e il cemento del paesaggio urbano standardizzato che ormai prevale dall' Oceano Pacifico al deserto del Gobi. Ha portato le abitudini, vizi e virtù, dell' impero comunista che predica l'economia di mercato e promuove la cultura di massa, teleromanzi e quiz televisivi. Arrivare troppo tardi significa ritrovare le stesse cose che hai appena lasciato. In Cina accade spesso. Rincorri la vecchia Cina e non la trovi più. Le città del boom economico sono tutte uguali. Neanche te ne accorgi quando passi dall' una all'altra. Con qualche rara eccezione, sembrano ricostruite con un stampo. Lhasa non sfugge alla regola. Il vecchio Tibet è sparito. Resta l'incanto della natura. Il cielo è una cappa di cristallo di un azzurro mai visto. A quasi quattro mila metri l'aria è povera di ossigeno (al punto che senti il bisogno di aspirarne un po' dalla bottiglia a portata di mano) ma è di una purezza che ti stordisce. La luce rimbalza sulle montagne calve che incorniciano Lhasa e ti investe accecandoti. Invidio i turisti giovani che percorrono a piedi il Tibet, che arrivano a tappe dal Nepal. Penso proprio che Alexandra David-Néel, prima donna occidentale ad avere messo piede nel Tibet segreto e proibito, avesse ragione quando negli anni Venti rimpiangeva il fatto che, invece di violarlo con la modernità, non si creasse su questo altopiano un grande parco naturale, con le sue vette innevate, le sue immense steppe, i suoi laghi freddi di un colore blu intenso, come l'acqua dei fiumi. La pensava così probabilmente anche il grande tibetologo Giuseppe Tucci (del quale mi accompagnano alcuni libri) che amava il Tibet e l'Oriente, e detestava l'Occidente moderno e industrializzato. La descrizione idilliaca del paesaggio, non si applicava certo alla città di Lhasa scoperta dai visitatori nei primi anni del secolo scorso. Francis Yonghusband, comandante delle truppe inglesi arrivate nel 1904, trovò le anguste strade della capitale ingombre di immondizie; invase da topi e cani randagi; percorse da fogne scoperte che servivano da latrine a donne e uomini accovacciati; e gremite da legioni di mendicanti. La Lhasa descritta da Alexandra David-Néel alcuni decenni dopo non è molto diversa. Né la società sorpresa dall'invasione cinese, a metà del secolo, era quella immaginata dai romantici cultori del Tibet. Era piuttosto una società feudale, mercantile e stagnante. L'aspetto mistico riguardava un ristretto numero di monaci, di grande cultura filosofica e religiosa, animatori del lamaismo monastico, ben distinto dalla pratica religiosa popolare. Lhasa aveva nel '49 circa trentamila abitanti, e contava in più sedicimila monaci nei grandi monasteri di Sera e Drepung. Oggi gli abitanti sono duecento cinquanta mila e vivono in una città moderna, dove il reddito, mi dice la signora Cui Yuying, è ventotto volte quello di quarant'anni fa. Giuseppe Tucci e Alexandra David-Néel (che pure auspicava un po' di modernità cinese nel Tibet) non riconoscerebbero più la loro terra promessa. Il miracolo cinese farebbe inorridire Tucci e lascerebbe perplessa Alexandra. Hai l'impressione che quel miracolo abbia cancellato il Tibet. Ma non è cosi. Il Tibet lo ritrovo nelle strade del quartiere di Barkor, attorno al tempio di Jockang. Ed è con sollievo che mi lascio trascinare dal fiume di pellegrini provenienti dai più remoti angoli del paese. Una folla in cui prevalgono i contadini, in abiti tradizionali, intenti a sgranare i rosari e a bisbigliare giaculatorie. Una folla di tibetani che pregano stesi a terra, senza inibizioni, con grida e gesti antichi. Uno spettacolo che mi libera dall'angoscia in cui mi avevano precipitato gli incontri per me estremamente drammatici nonostante la cortesia, il garbo dei miei interlocutori, con i tibetani-cinesi. Non tanto per loro, quanto per il significato che assume la loro identità. Una doppia identità che sembra destinata a enfatizzare una faccia e a cancellare l' altra. Quest'ultima, l'identità minacciata, mi spunta invece davanti all' improvviso, in apparenza intatta, qui nel quartiere di Barkor, e attorno al tempio di Jockang (che significa Casa del Signore). Un'isola tibetana nella città cinese. Mi guida nel tempio, il più santo di tutto il Tibet, un monaco di rango medio. La ressa e la scarsa luce mi impediscono a volte di distinguere i visitatori dalle numerose statue di dimensioni umane di celebri lama defunti. L'odore di incenso, il brusio e i racconti di straordinari miracoli sussurratimi all' orecchio mi stordiscono. E al tempo stesso mi sento appunto sollevato, come se toccassi con mano la sopravvivenza del Tibet. Il mio compagno di viaggio cinese, ormai un amico, sorride della mia emozione. Lui, ateo, non si lascia commuovere da questo spettacolo medievale. Ma per me è anzitutto un modo di esprimere la propria identità nazionale e culturale. Mezzo secolo dopo l' invasione cinese, ritmato da insurrezioni e repressioni, e dopo la chiusura totale di templi e monasteri per dieci anni (durante la Rivoluzione culturale), il Tibet è rimasto fedele alle sue tradizioni. Il potere consente adesso che vengano celebrate, a condizione che non diventino dimostrazioni nazionaliste. Di immagini del Dalai Lama non se ne vedono. Circola ufficialmente soltanto una fotografia in cui appare a fianco di Mao. Risale a prima del '59, l'anno in cui fuggi in India. Dal terrazzo del tempio, dove saliamo per vedere la città, il monaco-guida mi indica l'immenso palazzo di Potala, dove viveva il Dalai Lama. E mi dice: «Adesso è un museo. L'hanno persino restaurato». i lamaisti Sono i seguaci del buddhismo che viene praticato in Tibet e in alcuni paesi limitrofi, quali il Bhutan. Hanno una rigida struttura gerarchica che vede il Dalai Lama e il Panchen Lama a capo della chiesa.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»