martedì 2 dicembre 2003

l'arte, «una perdita della ragione»,
«un'emersione incontrollata dell'inconscio»

La Stampa 02 Dicembre 2003
IL FILOSOFO PAUL AUDI
Anche l’arte ha bisogno d’ebbrezza
di Edoardo Bruno


«PERCHÉ l'arte esista, perché esista un qualsiasi fare e contemplare estetico, è indispensabile un presupposto fisiologico preliminare: l'ebbrezza». Così inizia il paragrafo 8 del Crepuscolo degli dei, dove Nietzsche ritorna sul concetto dell'apollineo e del dionisiaco, precisandoli entrambi come forma di ebbrezza, come eccitazione della volontà di trasfigurazione, trasformazione e creazione dell'arte. Partendo da queste premesse il filosofo Paul Audi, nel suo ultimo libro L'ivresse de l'art, sviluppa e approfondisce un'analisi sul concetto dell'ebbrezza e sull'importanza che l'eccitazione, la sessualità e l'ubriachezza, proprio nello squilibrio che provocano, hanno nell'arte, eccitando una maggiore sensibilità e «quel più» di soggettività, che crea la forma. È un modo di richiamarsi alla necessità di trasgredire l'interdetto, di cogliere, nel culmine di una esperienza portata all'estremo, ciò che Bataille esaltava di più nell'erotismo, il senso estatico. Un uscire da sé, quindi, un viaggiare nell'empireo della sovrapotenza, in uno stato di rapimento che rasenta il metafisico, e un senso di accrescimento smisurato del proprio io, come scriveva Van Gogh, «colpito o rapito dalla morte e dall'immortalità».
Questa effusione dell'io, in un sovraccarico di affettività, questo arricchimento di sensibilità, accompagnato da una perdita della ragione, sono per Audi virtù essenziali per accedere all'arte, e raggiungere la pienezza di una espressività altrimenti trattenuta e mortificata dall'equilibrio. Ma l'esaltazione di una soggettività esasperata, e, in un certo senso, la stessa emersione incontrollata dell'inconscio, liberate dallo stato di eccitazione dell'ebbrezza, non sono che elementi di scelta di un ordito che va selezionato e composto. Altrimenti l'uscita da sé, propria dell'estasi, rischia di mettere in questione la padronanza dell'io, di far smarrire, sia pure momentaneamente, la forza del pensiero e della ragione, e perdere il controllo della soggettività. E se è vero che questa padronanza non appare sempre essenziale e che la funzione dell'io, in quanto immaginaria, lascia libera una certa oscillazione tra lo stato di veglia e lo stato di ebbrezza, è anche vero che «il luogo filosofico» richiede un'articolazione di discorso, dove il confine tra soggetto e non soggetto, costituisca la regola di un retto ragionare.