sabato 31 gennaio 2004

Antonio Labriola (1843-1904)

La Gazzetta di Parma 31.1.04
ANTONIO LABRIOLA
Il maestro di Croce
di Sergio Caroli


All'alba del 2 febbraio di cent'anni fa moriva a Roma, all'Ospedale teutonico del Campidoglio, Antonio Labriola. Gli ultimi suoi giorni, anzi l'ultimo suo anno di vita, furono per lui di infinito tormento; perché oltre ai dolori fisici che gli impedirono il normale lavoro - lavoro di insegnante, di scrittore, di lettore inesauribile - egli fu afflitto dalla privazione più orribile per tutti e specialmente per lui: quella di non poter parlare. Il 14 febbraio 1904 Benedetto Croce, sul «Marzocco», ne scolpiva, in sette pregnanti pagine, un ritratto che incanta ad ogni rilettura. «Vent'anni fa - vi si legge - proprio tra gennaio ed il febbraio, conobbi Antonio Labriola, in Roma, nella casa di Silvio Spaventa, dove ogni sera si raccoglieva un piccolo gruppo di amici fedeli: qualche deputato, qualche giornalista, e parecchi professori. Erano i tempi del Depretis. Il salotto dello Spaventa rappresentava quanto di più pessimistico si potesse immaginare. Io che dalla politica non ero allettato e che il giure infastidiva - ero studente di giurisprudenza - stavo tutto orecchi ad ascoltare il Labriola, che la politica mutava in satira amenissima, del diritto faceva la critica, e di ogni cosa discorreva con vena abbondante, con spirito scintillante, con informazione sempre fresca delle novità librarie, specie germaniche, di cui egli era come il bollettino serale». Fu lo stesso Spaventa ad esortar Croce a frequentare le lezioni del Labriola all'Università dov'egli finì per ascoltare solo quelle. «Gli altri insegnanti - scriveva - mi annoiavano somministrandomi definizioni belle e fatte, sullo schema costante: "Fu Platone il quale disse, Aristotile invece sentenziò, Kant opinò" ecc. Non potevo persuadermi come tutti quei pensatori, dalla Grecia in qua, avessero dovuto attendere, per essere "integrati" ed "armonizzati", le litografiche dispense di quei miei professori». Invece «il Labriola si faceva punto d'onore di non dar mai una definizione; entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi, svolgendo indirizzi antitetici come loro necessità intrinseche; non parlava con tono cattedratico, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto s'innalzavano ed ampliavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni lamentavano che quel professore non si lasciasse "riassumere", ma io, nei corridoi dell'università, lo difendevo con ardore: in verità quelle lezioni mettevano in fervore il mio cervello e, secondo il detto di Kant, mi insegnavano non pensieri, ma a pensare». «Così mi venni stringendo d'affetto d'amicizia e di dimestichezza col povero Labriola».
Nato a Cassino il 2 luglio 1843, Labriola aveva cominciato ad insegnare a Napoli nel ginnasio Umberto, ma dopo breve tempo guadagnò per concorso la cattedra di filosofia morale e pedagogia all'università di Roma. Uscito dall'ambito della Destra moderata e conservatrice, nel 1886 divenne democratico e socialista. Hegeliano in gioventù, poi antihegeliano in favore di Herbart (sotto l'influsso del quale scrisse i saggi «Della libertà morale», «Morale e religione», «Dell'insegnamento della storia», «Del concetto di libertà» e «Socrate») ritornò, per impulso di Marx, ad Hegel, dando al materialismo storico, divenuto quasi un dogma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Tale evoluzione non sorprese Croce. «Infatti - ricorda l'allievo - egli mi disse un giorno di esser giunto al socialismo rivoluzionario attraverso la critica dell'idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, gli si dimostrò un'utopia e dura ma sola realtà gli scopersero gl'interessi antagonistici delle classi sociali, si trovò nelle braccia del marxismo».
E, del marxismo, Labriola divenne «il miglior conoscitore che mai vi sia stato in Italia e forse nell'Europa tutta» (glielo riconoscerà, ne «La mia vita», anche quel Trotsky, che, secondo Deutscher, «è il solo storico di genio prodotto dalla scuola marxista di pensiero»). Dominatore della filosofia classica tedesca, Labriola comprese, come nessuno, la genesi di quella dottrina, uscita dalla sinistra hegeliana, che egli signoreggiò anche grazie ai rapporti epistolari col vecchio Engels, l'amico fraterno di Marx e con altri esponenti del socialismo tedesco. «Ma meglio di ogni altra parte del marxismo - osservò Croce - egli approfondì la dottrina storica di esso, il materialismo storico». Di questa concezione fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, «non da dilettante, ma da scienziato, con severità d'intenti», avendo «vivo il sentimento del legame tra storia e vita presente, tra storia e politica». Ma - argomenterà altrove Croce - Labriola «non riuscì mai a superare, per quanti sforzi facesse, l'unilateralità del materialismo storico e il conseguente dualismo che esso apriva tra struttura economica e sovrastruttura ideologica e morale, e che spezzava l'unità della storia».
E il discepolo ricorderà che quando egli ebbe pubblicato i suoi saggi sul marxismo e il Labriola protestò contro le conseguenze negative alle quali era pervenuto, egli rispose al suo maestro: che la colpa, se mai era di lui, Labriola, che aveva iniziato a trattare criticamente di quella dottrina, togliendole il carattere di dogma infallibile che possedeva presso i marxisti tedeschi. Croce, che degli scritti del maestro fu editore, assevera poi che «tutti gli studi sulla metodologia della storia che si son fatti in Italia debbono il primo impulso al Labriola che fu sempre aperto e attento ad ogni moto di idee, irrequieto e insoddisfatto, e rinnovò e rinfrescò di continuo la sua cultura». Di lui riconosce anche la «non piccola efficacia sulle cose politiche italiane negli ultimi decenni, sebbene operasse quasi dietro le quinte o nell'altra scuola che egli teneva ogni giorno al caffè Aragno». «Entrato nel socialismo fu il terrore dei socialisti, specie dei giovani: una frusta letteraria sempre levata, che colpiva implacabile». Un aspetto lo differenziava dal socialismo internazionale: egli guardò con favore all'impresa dell'Eritrea e ai disegni di occupazione di Tripoli, fedele, anche in ciò, al marxismo classico che non concepiva l'avvento del socialismo se non preceduto da un pieno sviluppo della borghesia. «Il proletariato - diceva scherzando - è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere ad una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». Cosi testimonia Croce, il quale, nella «Storia d'Italia», annoterà: «Con quanta ansia seguì e con quanto dolore, le cose italiane in Africa».
Quando il 14 novembre 1897 Labriola lesse nell'Università di Roma il discorso di inaugurazione su «L'università e la libertà della scienza», alla presenza del ministro dell'istruzione E. Gianturco, e il ministro restò punto dal modo di parlare del Labriola «da libero uomo», e il Consiglio accademico si rifiutò a lasciare stampare nell'annuario il discorso del collega se non ne fossero state soppresse alcune frasi, il Croce consigliò al Labriola di ritirare senz'altro il manoscritto, glielo stampò lui, divulgandolo in un migliaio e mezzo di copie. Nell'avvertenza premessavi egli scrisse: «...Sono orgoglioso di presentare al pubblico italiano questo discorso, per sentimento e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai uditi nelle aule dell'Università italiane» («Giornale d'Italia», 10 giugno 1907). In questo plumbeo presente, anche quell'episodio, seppur sepolto nel tempo, torreggia, luminoso faro di etica, ai dotti non indegni di questo nome.