giovedì 8 gennaio 2004

«il fascino di un vero maestro»
e i modi della percezione

La Repubblica 8.1.04
Pagina 42 - Cultura
IL FASCINO DI UN VERO MAESTRO
un nuovo saggio di George Steiner

Che cosa vuol dire insegnare? Dai mitici esempi di Socrate e di Gesù alle esperienze moderne
Una società che non onora i suoi insegnanti è profondamente guasta e corruttrice
Nella tensione del nodo pedagogico si esprimono passioni di varia natura
Dante sa tutto di quel rapporto: la Commedia è la vera epica dell'apprendimento
di NADIA FUSINI


Invitato ad Harvard nell'anno accademico 2001-02 per tenervi le prestigiose Charles Eliot Norton Lectures, con piega barocca George Steiner dedica le medesime all'idea di lezione, e con intenso spirito autoriflessivo si interroga intorno al senso dell'azione che ha compiuto (ora è in pensione) per un quarto di secolo. Fa esplicito riferimento al seminario che teneva a Ginevra ogni giovedì mattina e la nostalgia, il rimpianto sono palpabili e commoventi.
Steiner rievoca quei giorni nella piena consapevolezza che, riguardo a quell'atto, tutto è cambiato. Per dirla con Pound, "insegnare? È impossibile!". Pound lo diceva circa un secolo fa riferendosi a una università prestigiosa, e cioè Harvard; per il grande poeta, nemmeno lì poteva accadere lo specialissimo incontro tra chi insegna e chi impara. Del quale rapporto - che lo si chiami istruzione, educazione, apprendistato, formazione, paideia - Steiner indaga con insistenza le sinuosità simboliche e le particolari versione storiche in cui si è incarnato. Nella convinzione teorica che la libido sciendi sia un istinto proprio alla specie umana, inscritto in natura; ma che, come sempre con gli istinti, la cultura vi abbia un peso, e dunque una società possa arrivare a pervertire la propria Wissenschaft, a tradirla in radice. A tale trionfo staremmo assistendo in tutte le scuole del mondo nella nostra epoca.
Il libro Lessons of the Masters (Harvard University Press, pagg. 198, $19,95) comincia da lontano. Inizia da quei maestri greci, con cui nasce la sapienza alla quale ancora oggi ci abbeveriamo. Empedocle, Eraclito, Pitagora - sono i nomi e i volti che stanno all'origine. Sono loro gli antichi Maestri. E dopo di loro vengono i nuovi - i Sofisti, e i loro discepoli. E Socrate e Gesù: maestri vocali, che a viva voce ammaestrano, i quali non avrebbero mai vinto una cattedra in America, perché, così recita una freddura accademica, saranno pure stati bravi ad insegnare, ma che cosa mai hanno pubblicato?
E tuttavia Socrate ad Atene, Gesù a Gerusalemme, l'uno per parabole, l'altro per miti, incarnano quanto vi è di più decisivo e inspiegabile in quell'arte. E dopo Socrate e Gesù, Plotino. E Agostino. E Dante. Dante, afferma Steiner, è scolastico in ogni senso. La Commedia è l'epica dell'apprendimento. Del rapporto maestro-discepolo la Commedia è l'anatomia. Dante sa tutto della felicità e della tristezza intrinseca a quel rapporto, della fedeltà e del tradimento, della dolcezza della dipendenza e dell'amarezza della separazione. È una stella di discepolo, un allievo modello di Virgilio, di Beatrice, e prima ancora di Brunetto Latini, il quale gli insegnò «come l'uomo s'etterna». Ecco la vera lezione, la vera paideia, il vero proposito dell'insegnamento.
Proseguendo nei tempi moderni Steiner osserva che a Shakespeare tale tema è indifferente. Ne sa invece qualcosa Marlowe: ne scrive nel suo Faust. Ne sa molto, sempre rimanendo in Inghilterra, la coltissima George Eliot, la quale declina il tema dalla parte delle donne e con Dorothea Brooke dipinge una specie di meravigliosa e moderna Eloisa. C'è dell'eros, c'è un che di mistico in ogni vera paideia: tra maestro e allievo e allieva si esprimono passioni e desideri che rendono il rapporto carico di tensioni erotiche, senza le quali il rapporto stesso sarebbe povero. Epperò, tali tensioni è importante che non passino all'atto. Il passaggio all'atto, se accade, è un vero peccato, perché le cose prenderanno una piega, che dire?, senza meno più volgare.
Altrettanto sapiente Nietzsche definisce Lou Andreas-Salomé. Senz'altro Heidegger considera Hannah Arendt uno dei suoi studenti migliori. E lei ricambierà facendogli da impresario nel nuovo mondo, organizzando per lui traduzioni, convegni. Pur consapevole della di lui mendacità, della agghiacciante vanagloria che impedisce al maestro di riconoscere la qualità degli scritti dell'allieva, la sua fama internazionale.
Nella tensione del nodo pedagogico passioni di varia natura si esprimono: c'è l'odio e l'amore. Dante quando si separa da Virgilio soffre. È destino che gli allievi tradiscano il Maestro, lo superino, lo oltrepassino. A volte, in tale senso, eccedono, e per invidia attaccano i loro maestri: sono gli irriconoscenti, gli incapaci di gratitudine. Heidegger umilia Husserl. Ma ci sono anche maestri che distruggono i proprii allievi: sono vampiri. E maestri che rifiutano di essere tali, che non vogliono discepoli, perché nessuno è degno del loro insegnamento.

I volti della relazione tra maestro e discepolo possono cambiare. Steiner osserva il modo dell'incontro in filosofia, in letteratura, nella musica. È puntuale, preciso, ed elabora un ricco calendario storico di figure. Ambisce inoltre a individuare l'essenza della figura stessa: quale l'eccellenza della sua funzione, o missione? Giunge in questo campo a conclusioni ineccepibili, anche se non originali e sempre affermate con accenti fin troppo enfatici. E cioè: il vero insegnamento non può non essere anche una cura dell'anima. È inconcepibile una società nella quale non si coltivi tale attenzione. Né tantomeno una cultura, dove non si abbia cura dello scambio implicito nel contatto tra un adulto e un bambino, un adolescente, un giovane. Una società che non onora i suoi insegnanti è profondamente guasta. È una società che non ama i giovani, ma li corrompe. È una società pornografa, di pedofili. I giovani non li ama, li sfrutta, ne abusa.
E ancora: insegnare sul serio è imporre le mani su ciò che c'è di più vitale in un essere umano. Il maestro è un taumaturgo. Il rispetto del maestro è salutare. Cura. Ci sarebbe meno bisogno di pseudo-terapeuti, ci fossero dei veri maestri. Ma, ahimé, la nostra è l'età dell'irriverenza, siamo drogati di invidia, di denigrazione.
E ancora: è una relazione di potere. Come in ogni relazione che contempli la diseguaglianza tra i soggetti implicati, tra maestro e discepolo c'è gioco di potere. E tuttavia - dico io - nell'indagare le forme del potere sarebbe sbagliato fare di tutta l'erba un fascio, e non investigare le differenze. E non rendersi conto, in omaggio a un anti-autoritarismo vago, che il modello di riferimento qui non è lo schema hegeliano del servo-padrone. Il paradigma - Steiner ne converrebbe - è un altro. Tra maestro e allievo il legame è tra affini. L'invidia dovrebbe curarsi con l'ammirazione, la distanza risolversi in vicinanza spirituale, il desiderio colmarsi. È questo il caso in cui se l´uno vuole quel che l'altro ha, l'altro è per l'appunto lì per darglielo. Il maestro non profitta, dona. E non è neppure quella cosa così difficile in amore, dove l'uno chiede all'altro quel che l'altro non ha. No, qui si domanda qualcosa di cui l'uno è ricco, l'altro è desideroso. L'uno colmo, l'altro vuoto. E nel modo del dare non c'è perdita.

A dirlo nel modo più semplice, il maestro è una persona che parla. Non solo in epoche che non conoscono la scrittura: ancora oggi il modo viva voce della trasmissione è fondamentale all'atto. Il maestro è voce, è corpo, è lì in carne ed ossa e dimostra agli allievi il suo rapporto alla materia di cui tratta, la sua capacità di contatto con la cosa. La lezione è una performance. C'è ostentamento nell'atto. C'è anche esibizionismo. E soprattutto il senso dell'esclusione, dell'iniziazione. Solo una banda di eletti ricevono il vero significato del maestro. Tra il maestro e gli adepti il legame è religioso, nel senso proprio: quello dell'insegnare è, al fondo, un gesto che lega. Lega il nuovo essere a quel che lo precede; lo stringe al suo passato, alla sua tradizione; la sua società, la sua cultura sono la sua vera famiglia spirituale.
Detto questo, guardandoci intorno, come non disperare di tale rapporto? Come non vedere che la società oggi stringe a sé i suoi figli in modi più mediatici?
E tuttavia Steiner è ottimista: professa la sua fede che l'aura, il carisma del maestro ispirato resisteranno, anche se in cerchie sempre più ristrette. Ed esoteriche. Intanto, in Europa, come in America, i maestri si confondono sempre più con le star mediatiche. E i discepoli si trasformano in fan.

Una cosa si capisce leggendo questo libro. A Steiner non dispiacerebbe il titolo di maître. Anche se tale titolo, qualora gli venisse conferito, non avrebbe a che fare con i suoi seminari a Ginevra, né con gli allievi che ha fecondato (se lo ha fatto). A ben pensarci, non c'è bisogno oggi che il maître faccia allievi, né che lo si incontri faccia a faccia. Sempre più basta che si favoleggi di lui, che se ne scriva, se ne crei l'ombra; basta che passi una volta in televisione. È altrettanto chiaro a chi legga il suo libro (in particolare i ringraziamenti) che Steiner è per ora un accademico illustre e ha una famiglia accademica, una moglie accademica, un figlio, una nuora accademici, che tutti graziosamente con i loro differenti titoli accademici ringrazia. Accanto a questa famiglia vanta una intima parentela con i grandi del pensiero e dell'arte, vicino ai quali si colloca. Ne prende lezione, ma soprattutto tramanda la lezione dei maestri, consapevole, però, che l'appellativo di cher maître non si traduce nella lingua in cui gli è capitato per lo più di scrivere e insegnare. "Dear master" non ha lo stesso senso e suono, e il nativo inglese per la sua vocazione all'understatement deriderà chi si fregi di tale titolo, tenderà a sospettarlo di ciarlataneria. A un americano verranno addirittura in mente gli schiavi. Eppure, il titolo del libro Steiner lo riprende da un americano, ovvero, da Henry James, il quale, se non ha paura di fregiarsi di tale vocabolo "imperiale", è perché a lui vengono in mente Flaubert, Turgenev. Ma si sa, James è un eccentrico. E rimane che nel discorso inglese e americano tale titolo non "passa".
Il che non significa che non ci sia un buon livello di istruzione, in America, in Inghilterra. Solo che è stata assunta in pieno dall'istituzione, dall'accademia, e lì non ci sono maestri, ma professori. I quali se si chiamano così è perché professano qualcosa, qualcosa che ha a che vedere con la fede. Bisogna vedere a chi prestano fede, se all'oggetto, o al ruolo. A chi risponde chi insegna? Al mistero di quel nodo erotico, passionale, o, nel caso nostro, al Ministero? Al mistero dell'incontro con l'allievo, voglio dire? O alle circolari di un ministro?
Per restare a casa nostra, tutti sappiamo per esperienza che ci sono molti modi di insegnare, quanti insegnanti in carne e ossa. Lo si può fare nel modo più routiniero del mondo. O più esaltato. C'è un insegnamento povero, che genera un invincibile tedio. C'è una resistenza all'apprendimento strafottente, insuperabile. C'è molta stupidità e molto cinismo da entrambi le parti. A me sono capitati, come allieva, insegnanti i più diversi. E come insegnante gli allievi più differenti. E dirò senza remore e senza troppe illusioni che oggi come oggi c'è più bisogno di buoni insegnanti, che di maestri. Un buon insegnante non sarà esaltante, ma vi assicuro - ce n´est déjà pas mal.