La Stampa Tuttolibri 21.2.04
A Rosy la pazza rubarono il Nobel
Fu lei, Rosalind Franklin, a pensare per prima la struttura del Dna, poi elaborata da Wilkins, Watson e Crick: «bravissima, benché donna», pagò caro il suo carattere intrattabile
di Marina Verna
DETESTAVA essere chiamata Rosy - il suo nome era Rosalind e lei imperiosamente lo scandiva Ros-lind. Invece è passata alla storia come Rosy la pazza, la dark lady del Dipartimento di biofisica del King’s College di Londra, la scienziata accecata dall’arroganza che le impediva di discutere con chi avrebbe potuto rompere i suoi schemi di pensiero. Adesso una documentata biografia della giornalista inglese Brenda Maddox, "Rosalind Franklin, la donna che scoprì la struttura del Dna", le restituisce il posto che si merita nella storia della scienza, accanto ai «padri» del Dna Wilkins, Watson e Crick. Che, quando nel 1962 ottennero il Nobel, non sentirono il bisogno di menzionarla nei discorsi ufficiali. Lei era morta di cancro quattro anni prima e i Nobel non si assegnano postumi. E’ probabile che non lo avrebbe comunque avuto, perché nell’ambiente scientifico era mal tollerata. Quando, esasperata dalla guerriglia quotidiana con i colleghi, lasciò il King’s College, Wilkins scrisse a un amico: «La nostra dark lady ci lascerà la prossima settimana. Via libera!». Rosalind aveva una mente di prim’ordine, era diligente e tenace, votata a null’altro che alla scienza, senza alcuna indulgenza per gli sciocchi e con una profonda avversione per qualunque forma di trasporto emotivo. Aveva 15 anni quando decise che sarebbe diventata una scienziata. Che fosse un talento precoce l’aveva rivelato a sei quando, in vacanza in Cornovaglia con la famiglia, passava il tempo facendo esercizi di aritmetica. «E’ paurosamente intelligente», commentò un familiare, preoccupato di che cosa avrebbe potuto fare delle sue qualità una ragazza di buona famiglia nata nell’Inghilterra Anni 20. A 16 anni fa la sua scelta definitiva: va a Cambridge a studiare chimica, fisica e matematica pura. Negli Anni 30 le donne sono ancora una singolarità nell’istituzione, anche se il diritto a frequentarla era stato conquistato già nell’800. Il massimo del complimento era «bravissima, benché donna». Lei ragiona come un uomo, in particolare possiede quel requisito essenziale della professione di scienziato che è la capacità di pensare in tre dimensioni. Non si fida invece di quella prerogativa squisitamente femminile che è l’intuito. E sarà questa diffidenza a farle perdere la gara dell’elica. C’è ancora la guerra quando abbozza sul quaderno degli appunti una struttura elicoidale e a fianco scrive: «La base geometrica dell’eredità?». E’ assolutamente la prima a pensarlo, ma la sua testa di uomo la perde: non si fida dell’intuizione, vuole verificare. Non si arrende all’intuito neppure quando - e siamo alla fine degli Anni 40 - scatta la celebre fotografia ai raggi X numero 51, la prova incredibilmente chiara che il Dna è un’elica. Rosalind è ricca di famiglia - proviene dall’ambiente angloebraico dei grandi banchieri - ma passerà tutta la vita a cercare fondi di ricerca su una sponda e l’altra dell’Atlantico, senza mai approdare alla stabilità di una cattedra universitaria. Vive la vita nomade del ricercatore - Londra, Cambridge e Parigi sono le stazioni del suo peregrinare - per lo più in camere d’affitto, dove sorprende gli ospiti con la sua abilità in cucina, della quale dà una spiegazione scientifica: è semplicemente chimica applicata. Arriva al King’s College - il luogo dove si compie il suo destino - nel 1951 e si dedica alla struttura cristallina delle molecole biologiche. Le eliche sono nell’aria: le studiano a Londra, ma anche al Cavendish Laboratory di Cambridge e al Caltech di Pasadena. Rosalind è sottostimata, la qualità dei suoi lavori precedenti è ampiamente sconosciuta. Nel mondo scientifico si spettegola sul suo caratteraccio e i suoi litigi con i colleghi: «Collaborare io? Come osano interpretare i miei dati al posto mio!». Mentre lei se la vedeva con Wilkins a Londra, a Cambridge lavoravano sul Dna Crick e Watson, «quella coppia di bricconi», come li definì proprio Wilkins. I bricconi non solo invasero il terreno di ricerca di Rosalind - una scorrettezza bell’e buona - ma le rubarono quell’idea di struttura elicoidale che lei aveva esposto in un seminario senza pronunciare la fatidica parola «elica» perché il concetto era ancora troppo vago per i suoi standard scientifici. E’ così che, arrampicandosi sulle sue spalle inconsapevoli, Watson e Crick fanno il salto intuitivo e ricostruiscono la struttura a doppia elica del Dna. Per bruciare i colleghi sul tempo, mandano subito una lettera a Nature ma, ammesso che lo volessero, non possono menzionare i lavori di Rosalind, perché non li aveva ancora pubblicati. Lei non protesta, anche perché considerava l’elica poco più di un’ipotesi. Solo in anni molto recenti Watson e Crick riconoscono che il contributo di Rosalind era stato «essenziale». Da cinque anni il suo ritratto è esposto alla National Portrait Gallery di Londra accanto a quelli di Wilkins, Watson e Crick. E un’ala dell’amato-odiato King’s College porta il suo nome.
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