mercoledì 31 marzo 2004

predestinazione

una segnalazione di P. Cancellieri

il manifesto 31 marzo 2004
cultura
«Nati per il crimine», le tesi di Cesare Lombroso nell'analisi di Mary Gibson
Predestinati alla condanna

Un volume che ricostruisce l'influenza delle idee lombrosiane in un ambito solo di rado studiato, quello della loro attuazione pratica non nei disegni legislativi o nei programmi di studio accademici, ma nelle circolari ministeriali, negli iter burocratici, nel loro influire gli atteggiamenti dei commissari, dei poliziotti. Un'influenza che si esercitò in tutta la sua potenza nei confronti della devianza giovanile e influì poi nel plasmare la polizia fascista
Agli inizi del Novecento la teoria dell'«uomo delinquente» di Lombroso, della predestinzaione al crimine, fu alimentata dal panico del dilagare della criminalità. Ma già allora, come oggi, questa psicosi era in gran parte suggestione: la criminalità diminuiva, o comunque non aumentava, nella realtà, mentre si ingigantiva nella percezione collettiva. Un determinismo biologico che oggi rischia di riprende forza all'ombra del Dna
di MARCO D'ERAMO


Ogni giorno i giornali ci svelano qualche nuovo aspetto del comportamento umano che sarebbe geneticamente determinato: è ricorrente la pretesa che l'omosessualità sia una tendenza «iscritta nel Dna». Un futuro di artista, delinquente, forse acrobata, magari dongiovanni, sarebbe iscritto non nel neonato al primo vagito, non nel feto appena abbozzato nel ventre materno, ma già all'atto della fecondazione, acquattato nelle circonvoluzioni elicoidali dell'acido deossiribonucleico. È curioso come questo determinismo biologico rappresenti la forma scientista della predestinazione di stampo calvinista: la predestinazione cristiana condannava gli umani all'inferno (o li destinava alla salvezza eterna) per disegno divino: «noi diciamo che il Signore ha una volta tanto deciso, nel suo consiglio eterno e immutabile, quali uomini voleva ammettere alla salvezza e quali lasciare in rovina (...) l'ingresso nella vita è precluso a tutti coloro che egli vuole abbandonare alla condanna; e ciò accade per un suo giudizio occulto e incomprensibile, per quanto giusto ed equo» (Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, 7; III, 62-3). All'imperscrutabile volere divino noi abbiamo sostituito l'altrettanto imperscrutabile disposizione dei geni, ma stessa è la predestinazione, e uguale il suo esito: una condanna inappellabile, lì eterna, qui immanente.
Presi dall'entusiasmo scientizzante, rimuoviamo la lunga storia veteropositivista di questa innata predestinazione alla condanna: infatuati dalla microscopica sofisticazione della doppia elica, dimentichiamo l'artigiana grossolanità dei concetti deterministici. È perciò benvenuto il libro di Mary Gibson pubblicato dalla Bruno Mondadori, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica (28 euro, 390 pagine).
È facile dimenticare che Cesare Lombroso (1835-1909) è stato l'intellettuale italiano ottocentesco più famoso nel mondo, creatore dell'antropologia criminale, poi chiamata criminologia, tanto che personaggi di Lev Tolstoi (Resurrezione) e di Conrad (L'agente segreto) si richiamarono esplicitamente a lui. La stroncatura riservatagli dall'idealismo dominante in Italia nel primo Novecento l'ha confinato in limbo concettuale, mentre il suo inimitabile uso della lingua italiana fa stentarci e prendere sul serio le sue teorie. Alcuni esempi: poiché l'eccessiva continenza produce un «ubriacamento spermatico», è colla masturbazione che «si supplisce dal barbaro alla venere mancata». Ancora: la carità ospedaliera «non deve bilicarsi sull'ipocrita pietà oligarchica»; carità per altro «incerta spesso, più spesso falsa e spigolistra, e sempre avvilente». Nell'«umida e bigia miseria» gli uomini bruti «barbugliano, grugniscono e s'accosciano sbadati tra gli apatici congiunti». Certi spettacoli ti sollevano «dalla spigliata acerbità del dolore». Primo a balzare agli occhi è l'accostamento di registri dissonanti: a un concetto morale si giustappone un termine chimico: il genio fa «sperpero dei fosfati», mentre l'altruismo, altro non è che «un'ipertrofia dell'affetto», un'anomalia che spiega come mai gli anarchici sono«criminali per altruismo», ovvero «assassini filantropi».
Già nel lessico si legge così quella che fu la grande ambizione di Lombroso e del materialismo ottocentesco: spiegare, o almeno descrivere, tutti i fenomeni psichici, affettivi, sociali, in termini di pura materialità (o per lo meno di quella che allora era considerata tale). Un materialismo naif per cui Jakob Moleschott (venerato da Lombroso come maestro) affermava che «i pensieri si comportano col cervello come l'orina coi reni, la bile col fegato».
Tutto deve fare capo a una quantità misurabile per quanto improbabile essa sia: la follia risponderà a misure craniche, la delinquenza ai lobi frontali, via via fino all'anima che, «pur riducendosi a una materia fluidica, ... continua ad appartenere al mondo della materia».
Il progresso si attua attraverso una panoplia di strumenti e tecniche: ora, nel XXI secolo, è la mappatura del genoma; al tempo di Lombroso erano l'algometria elettrica, il craniometro o il sitoforo, oppure il pletismografo del Mosso che «può farci scendere nei penetrali dell'uomo».
Ma, appunto, nella stessa materia si nasconde un grumo opaco che resiste a ogni progresso, che riemerge anche tra i più civili, e questa irriducibilità naturale è quella dell'istinto, del selvaggio, dell'atavismo, tre parole chiave in Lombroso. «Gli istinti primitivi, scancellati dalla civiltà, possono ripullulare in un solo individuo». Se il criminale è un selvaggio, il selvaggio è - esplicitamente - un fossile: «l'Ottentotto è per gli uomini come il cammello pei ruminanti, una specie di fossile vivo». L'atavismo spiega tutto, dal tatuaggio alla longevità dei geni ai delitti sessuali, perché rivela il selvaggio che è in noi: ci sono «classi umane che, come i bassifondi marini» hanno in comune con i popoli primitivi «la stessa violenza delle passioni, la stessa torpida sensibilità, la stessa puerile vanità, il lungo ozio e nelle meretrici la nudità...».
È dal riaffiorare degli istinti primigeni che il criminologo individua senza fallo le diverse forme di delinquenti. «Negli stupratori, quasi sempre, l'occhio è scintillante, la fisionomia delicata, le labbra tumide...». Negli incendiari si osserva «la morbidezza della cute, l'abbondanza de' capelli, lisci e discriminati a guisa di donna». Mentre «gli omicidi abituali hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile... il naso spesso aquilino.. robuste le mandibole, lunghi gli orecchi...».
Queste tesi trovarono una sintesi nel celebre L'uomo delinquente (1876) secondo cui in gran parte i delinquenti rappresentano regressioni lungo la scala evolutiva, giungendo in questo modo a somigliare ai popoli «primitivi», agli animali e addirittura alle piante: «sono selvaggi viventi in mezzo alla fiorente civiltà europea». Fulminato dalla visione del cranio di un brigante calabrese, Giuseppe Vilella, Lombroso ebbe infatti un'illuminazione: «mi parve d'improvviso di vedere, risaltante e chiaramente illuminato come un'ampia pianura sotto un sole fiammeggiante, il problema della natura del criminale, che riproduce in epoche civili le caratteristiche non solo dei selvaggi primitivi, ma anche di tipi ancora inferiori giù giù fino ai carnivori». «Caratterizzati da anomalie fisiche quali la testa piccola, gli zigomi prominenti, il naso piatto, le orecchie grandi, i `delinquenti nati' non possono sfuggire al proprio destino biologico» (Gibson).
Certo, Lombroso sfumerà la sua diagnosi: solo il 40 per cento dei crimini sono compiuti da «delinquenti nati», gli altri sono perpetrati da «delinquenti occasionali» per ragioni ambientali (fame, educazione familiare). Ma il marchio della predestinazione resterà sul delinquente, e, a maggior ragione, sulla delinquente donna: se rispetto all'uomo civile il delinquente maschio è una regressione nella scala evolutiva, la donna delinquente è una doppia regressione poiché la donna civile è essa stessa un gradino più in basso nella scala gerarchica rispetto all'uomo: «la donna sente meno, pensa meno» e caratteristici del sesso femminile sono i seguenti tratti: «la impulsività, la mobilità, la vanità puerile, il bisogno della menzogna, l'amore per l'esteriorità e la futilità, tutte quelle note psicologiche - in una parola - che sono comuni al bimbo e al selvaggio» (Alfredo Niceforo, discepolo di Lombroso); «la donna è inferiore all'uomo: fisicamente, i fisiologi hanno trovato nei suoi tessuti, nei globuli del suo sangue, nel progresso evolutivo del suo cervello le stigmate dell'inferiorità; intellettualmente, e analizzando la sua intelligenza, si trova la mancanza assoluta della genialità, la forma automatica della ideazione, l'assimilazione quasi subcosciente delle idee, la grettezza, la povertà, la monotonia dei pensieri» (Niceforo).
Sono queste tesi che non ammettono contraddizioni. Se infatti sono contraddette dai fatti (così cari ai positivisti), è perché nascondono altre realtà. Non esistono donne geniali? Allora che dire, nel solo Ottocento, di Madame de Staël, di George Sand e di George Eliot? Semplice: non erano vere donne: per Lombroso infatti, la prima aveva «una faccia da uomo» (i tre figli e la passione ardente di Benjamin Constant non bastano a smentirlo); la seconda «aveva la voce di basso e vestiva volentieri da uomo»; la terza «aveva un viso da uomo, con un testone enorme, capelli disordinati, naso grosso, labbra spesse, baffi e mascelle voluminose, una faccia allungata da cavallo».
Né conta l'obiezione devastante a questa tesi, anch'essa scaturita da un fatto, e cioè che le donne delinquono molto meno degli uomini: se il delinquere è dovuto a un'arretratezza sulla scala evolutiva e se le donne sono inferiori agli uomini, come mai commettono molti meno crimini? All'inizio l'obiezione coglie impreparati i criminologi positivi, che poi trovano però la parata: il tasso di criminalità femminile è falsato e sottostimato perché non vi sono incluse le prostitute; se invece esse sono conteggiate, allora «i conti tornano»
È molto bello tutto il capitolo di Mary Gibson dedicato alla donna delinquente. Soprattutto quando osserva che «gli antropologi criminali videro nella psicologia della donna delinquente qualcosa di più che una mera esagerazione delle caratteristiche peggiori comuni a tutte le donne. Forse paradossalmente scorsero in essa anche `una tendenza fortissima a confondersi col tipo maschile'», perché in esse c'è «l'erotismo eccessivo, la debole maternità, il piacere della vita dissipata, l'intelligenza, l'audacia, il predominio sugli esseri deboli e suggestionabili, talora anche per forza muscolare, il gusto degli esercizi violenti, dei vizi»: che donne fascinose queste delinquenti, viene da dire! Ma dietro soggiaceva l'idea che per una donna fosse criminale volere emanciparsi.
Il libro di Mary Gibson è utilissimo anche perché ci restituisce il contesto fattuale in cui queste teorie presero vita. Ci mostra per esempio che la teoria dell'uomo delinquente fu alimentata dal panico del dilagare della criminalità: ma già allora, come oggi, questa psicosi era in gran parte suggestione: la criminalità diminuiva (o per lo meno non aumentava) nei fatti, mentre s'ingigantiva nella percezione collettiva. La seconda ragione è che Gibson ricostruisce l'influenza delle idee lombrosiane in un ambito solo di rado studiato, quello della loro attuazione pratica non nei grandi disegni legislativi o nei programmi di studio accademici, ma nelle circolari ministeriali, negli iter burocratici, nel loro influire gli atteggiamenti dei commissari, dei poliziotti.
Anche in questo campo, ci ricorda Gibson, la polizia era vista all'inizio del `900 con la stessa diffidenza di oggi (anche allora gli italiani si fidavano di più dei carabinieri, forse perché scaturiti da una tradizione militare e quindi con un corpo ufficiali di stampo nobiliare). L'ispettore di polizia Giuseppe Alongi ci fa notare nel 1887 che il popolo prova «un sentimento unanime di avversione pel personale di polizia, alto o basso che sia». Nel 1893 un avvocato romano, Giuseppe Leti, scrive che «non vi ha cittadino per bene che non si tenga, più che può, lontano da un funzionario di polizia; pochi ne abbracciano la carriera; e tutti arricciano il naso se hanno a trovarsi per caso in un ufficio di questura», mentre nel 1912 il deputato Pasqualino Vassallo afferma che il comportamento della polizia sembra «profondamente, quasi irrimediabilmente, guasto da una specie di malattia costituzionale». È per darsi un'allure di scientificità, per divenire una «polizia scientifica», che la polizia criminale abbraccia le teorie lombrosiane.
Il percorso e il diffondersi delle idee lombrosiane nelle micropratiche quotidiane degli apparati, negli ordini di servizio, nelle circolari e nei verbali si esercitò in tutta la sua potenza nei confronti della devianza giovanile e influì poi nel plasmare la polizia fascista.
Merito di Gibson è di esplicitarci tutta l'ambiguità dell'antropologia criminale positivista: formulata da teorici filosocialisti (come lo stesso Lombroso), fu fatta propria da vaste frange della borghesia liberale e fu infine usata dal fascismo. L'ebreo Lombroso e i suoi discepoli fecero largo uso della distinzione in razze (la pigrizia e delinquenza dei meridionali veniva spiegata con la loro ibridazione con «razze inferiori» come i neri o gli arabi). «Marchiando interi gruppi come biologicamente inferiori e retrocedendoli ai gradini più bassi della scala evolutiva, i criminologi positivi crearono inoltre un ambiente culturale propizio alla dittatura. Dopo il 1938 (anno delle leggi razziali), questa linea di pensiero finì per rivolgersi contro lo stesso Lombroso per opera del fanatico ideologo razzista Evola che (...) lo denunciò insieme con Freud come membro di un'accolita internazionale di pericolosi scienziati ebrei. Ritorcendo contro gli ebrei gli strumenti del positivismo, Evola elaborò tabelle pseudoscientifiche che ricostruivano la trasmissione di `malattie del sangue tra gli ebrei', alcolismo ereditario e alienazione mentale attraverso successive generazioni della `razza' ebraica».
Un grazie perciò a Mary Gibson perché ci aiuta a guardare con più circospezione al determinismo biologico che - con la subdola ovvietà del va-da-sé - oggi rifiorisce all'ombra della doppia elica. Ammantato dall'aura della sua infallibilità, è il ormai il Dna a guidarci, novello filo di Arianna, nel labirinto «dei penetrali dell'uomo».