il Messaggero Giovedì 22 Aprile 2004
Anniversari/ Cento anni fa nasceva il grande fisico che costruì la prima atomica. Il dramma del Progetto Manhattan, le accuse di filocomunismo. E la conversione pacifista contro il terrore nucleare
Oppenheimer, l’uomo che creò l’apocalisse
di MASSIMO DI FORTI
«ORA sono diventato compagno della morte, un distruttore di mondi». 16 luglio 1945, ore 5,12. Nel deserto del Nuovo Messico, era appena avvenuta la prima esplosione atomica della storia in un luogo dal nome che il destino aveva voluto sinistro, Jornada del Muerto, e Julius Robert Oppenheimer ripeté queste parole che aveva letto sul Baghavad-Gita , il poema sacro degli indù, e che gli ritornarono all’improvviso alla mente. «Fu uno spettacolo commovente e solenne, qualcosa per cui fu giocoforza riconoscere che la vita non sarebbe più stata la stessa», disse il grande fisico che aveva diretto il Progetto Manhattan voluto dal governo americano per la costruzione della bomba, al quale avevano partecipato scienziati del calibro di Enrico Fermi, Niels Bohr, Arthur Compton, Emilio Segrè, Ernst O. Lawrence ed Edward Teller.
No, la vita non sarebbe mai più stata la stessa. Né lo sarebbe stata la morte. In quel deserto, la scienza aveva conosciuto il peccato e incontrato il diavolo.«L’intera regione era illuminata da una luce abbacinante, molte volte più intensa di quella del sole a mezzogiorno», ricordò il generale Thomas Farrell, che era l’unico testimone accanto a Oppenheimer al posto di controllo situato a 9 chilometri e mezzo dalla torre metallica dove era stata collocata la bomba mentre il generale Leslie Groves (l’altro direttore, con il fisico, del Progetto Manhattan) si trovava al Campo Base, sei chilometri più in là. «Era una luce dorata, purpurea, violetta, grigia, blu. Una bellezza abbagliante, che non può essere descritta né immaginata... Trenta secondi dopo si sentì l’esplosione, lo spostamento d’aria colpì violentemente le persone e le cose, e poi, quasi immediatamente, seguì un fragoroso terrificante interminabile tuono che ci fece sentire piccoli esseri blasfemi che avevano osato toccare le forze sino allora riservate all’Onnipotente». In una casa di Alamogordo, a molti chilometri dall’esplosione, una ragazza cieca dalla nascita gridò: «Vedo la luce!».
Pochi minuti dopo, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman - che si trovava a Potsdam per la Conferenza con Churchill e Stalin - ricevette un messaggio cifrato dal suo segretario: « Babies satisfactorily born », i bambini sono nati felicemente.
Il 6 agosto, alle 8,16 in punto, il bombardiere Enola Gay pilotato dal colonnello Paul Tibbets sganciava “Little Boy”, un’atomica di quarantacinque quintali, sulla città giapponese di Hiroshima. Un vento di fuoco sollevò le acque dei fiumi della zona, il calore liquefece ogni cosa e annientò le persone, fissando le loro ombre sull’asfalto. «Dio mio, che abbiamo fatto!», esclamò il capitano Robert Lewis, che affiancava Tibbets in quel volo verso l’inferno. «Si determinò negli scienziati, sia pure non in tutti, un grande, grande senso di orrore e di responsabilità», commentò poi Oppenheimer, «e un impegno a far in modo che una cosa simile non dovesse ripetersi mai più». Era l’ultimo atto del Progetto Manhattan. La seconda guerra mondiale si concludeva con un’apocalisse e la storia entrava, per sempre, nell’era del Terrore.
Julius Robert Oppenheimer, principale protagonista di quella tragedia che ha segnato per sempre i destini dell’umanità, era nato a New York il 22 aprile 1904, esattamente cento anni fa, da una ricca famiglia di commercianti ebrei. A dieci, leggeva Platone, Omero, Cesare e Virgilio nei testi originali. Conosceva nove lingue, tra cui il cinese e il sanscrito. Aveva conseguito tre lauree, una in chimica a Harvard e due in fisica a Cambridge e a Gottinga. I colleghi lo consideravano un genio, gli allievi dell’Università di Berkeley lo adoravano. Le sue ricerche sulla fisica quantistica e le sue eccezionali capacità organizzative lo avevano posto, nel 1942, in cima alla lista dei grandi fisici candidati alla direzione del Progetto Manhattan. “Oppie” aveva però due limiti: non aveva ricevuto il Nobel e, soprattutto, aveva simpatie e amicizie comuniste. Alla fine, ottenne l’incarico. Ma la storia d’amore con Jean Tatlock, una studentessa di psichiatria e militante comunista, aveva scatenato contro di lui l’accanimento dell’Fbi che non cessò mai di sorvegliarlo, controllandogli persino la posta e il telefono. E se, nel ’43, i sospetti di una possibile connivenza con amici in contatto con l’Urss si risolsero in una tempestosa archiviazione, nel ’54 la sua tenace opposizione alla bomba H e l’ambigua deposizione del suo avversario “Stranamore” Teller davanti a una commissione d’inchiesta gli costarono l’esclusione da ogni incarico di interesse nazionale e dalla carica di presidente della Commissione consultiva sull’energia atomica. L’infamante accusa di “tradimento” non poté essere provata ma il dramma di Oppenheimer conobbe un nuovo terribile capitolo.
La verità è che, nell’America della Guerra fredda, i “cacciatori di streghe” non riuscivano ad accettare che il padre dell’atomica fosse diventato un acceso pacifista, perseguitato dal ricordo di Los Alamos e Hiroshima. L’uomo che nel ’46 aveva detto a Truman «Signor presidente, le mie mani sono sporche di sangue» era ormai in prima fila nell’impegno per il disarmo e nell’ideazione del piano Baruch per il controllo degli armamenti nucleari. Neppure la direzione del prestigioso Istituto di Princeton e la “riabilitazione” alla Casa Bianca nel ’63, quando Lyndon Johnson gli consegnò il Premio Fermi, poterono consolarlo o placarne l’angoscia. Prima di morire a ’62 anni, per un cancro alla gola, disse amarissimo: «Questa assenza di etica è folle. Che dobbiamo pensare di una civiltà che non è stata capace di annullare il pericolo di uccidere gli abitanti di un intero pianeta?».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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