martedì 4 maggio 2004

Cina e Stati Uniti

Corriere della Sera 4.5.04
Il governatore Zhou: le riforme procedono, però a zig-zag. I danni ecologici
Credito facile e grattacieli vuoti La tigre cinese ora vuole frenare
Stretta sulle banche statali. Ma anche l’America teme la fine del boom
di Massimo Gaggi


SHANGHAI - VACILLA l´ultimo pilastro della leadership americana nel mondo, il primato nella scienza. L´Asia tallona la supremazia degli Stati Uniti anche in questo campo: brevetti, scoperte, invenzioni, formazione universitaria. Dopo aver svuotato "dal basso" l´industria tecnologica americana, portandole via le mansioni operaie, le potenze asiatiche ora alzano il tiro e lanciano la sfida a un livello superiore. Le aiuta involontariamente la guerra di George Bush al terrorismo: le restrizioni ai visti negli Stati Uniti incoraggiano un´emigrazione alla rovescia, il "ritorno dei cervelli" in Cina e in India, due giganti in pieno boom economico. Anche l´esplosione della spesa militare americana è sotto accusa perché sacrifica gli investimenti pubblici nell´istruzione. Una responsabilità a parte spetta all´integralismo religioso del presidente, che ostacola la sperimentazione scientifica in campi come le cellule staminali.
Il New York Times apre la prima pagina con questo allarme: "U.S. is losing its dominance in the sciences", gli Stati Uniti stanno perdendo il loro dominio nelle scienze.

Il sole tramonta nella foschia di Shanghai, ma il cantiere nel quale si costruisce la seconda torre dell’hotel Shangri-la non si ferma. Dalla mia camera nella prima torre, lo spettacolo è impressionante: le gru continuano a girare nell’oscurità, gli operai montano le travi d’acciaio sotto la luce dei riflettori.
All’una di notte conto ancora quattro cascate di scintille, le squadre dei saldatori. Ma l’albergo non è pieno. Il giorno dopo chiedo al manager il perché di tutta questa fretta. «Sa, anche quest’anno l’economia deve crescere al 9%» è la disarmante risposta.
Fino a qualche settimana fa la Cina preoccupava l’Occidente per la rapidità della sua crescita che sottrae lavoro a molti Paesi industrializzati e sconvolge i mercati delle materie prime, a cominciare da petrolio, acciaio e carbon-coke.
Si chiedeva al governo guidato da Wen Jiabao di azionare la leva del freno, anche per ridurre il surriscaldamento del sistema finanziario, e di rivalutare il renmimbi, anche per rendere le merci cinesi un po’ meno competitive. Gli economisti americani ed europei studiavano le mosse del governo soprattutto per capire fino a che punto fossero sinceri gli impegni presi per rallentare il ritmo di crescita e guidare la trasformazione di un’economia pianificata in un vero sistema di mercato.
Quando, alla fine del primo trimestre 2004, i dati hanno mostrato che il Pil cinese continua a crescere a una velocità poco inferiore al 10% annuo, furono in molti a concludere che il governo aveva mentito, dato che un’economia pianificata e centralizzata non può finire fuori controllo. Ma il governo ribadì il suo impegno e la banca centrale iniziò a intervenire sul sistema creditizio. In pochi giorni il clima è mutato: le Borse asiatiche (e non solo) hanno reagito con forti ribassi all’ipotesi di una frenata cinese; gli esperti hanno cominciato a temere un rallentamento troppo brusco che potrebbe togliere carburante alla ripresa internazionale fin qui alimentata proprio da Pechino, e in parte dagli Usa.
Cosa sta accadendo? La sensazione è che la tecnocrazia al governo abbia chiara la percezione dei rischi che corre l’economia cinese e stia cercando di pilotare una sorta di «atterraggio morbido», che però non è detto che riesca pienamente. Anche perché, se il potere centrale è effettivamente molto forte, il controllo dei venti o trenta dirigenti di Pechino che davvero «contano» su un Paese sterminato e sovrappopolato, non può essere così capillare. Non è, del resto, storia recente: un antico proverbio dice che il dragone (cioè l’impero) è potente, ma i serpenti (i feudatari al potere nelle varie province) sanno come sopravvivere ai suoi artigli.
Qualche giorno fa, il passaggio-chiave: la banca centrale, verificato che gli istituti - che col loro credito facile sono stati i veri «fuochisti» dell’economia cinese - anche a marzo avevano incrementato i prestiti addirittura del 20%, ha invitato tutti a voltare pagina. E la Commissione che controlla il sistema creditizio ha deciso di inviare squadre di ispettori in tutte le sette province del Paese per controllare che la disposizione venga realmente eseguita e che l’esposizione si riduca, in particolare nei settori più esposti: acciaio, industria automobilista e settore immobiliare, il cui boom, soprattutto a Shanghai e nelle zone di nuova urbanizzazione, sta producendo molta inflazione.
Insomma, la volontà di frenare sicuramente c’è: il governo teme davvero un surriscaldamento dell’economia, comincia a calcolare anche i danni ambientali prodotti da un’industrializzazione «selvaggia» e capisce che il disordine creato nel mercato mondiale delle materie prime danneggia i suoi stessi partner commerciali. Ma la frenata non può essere troppo pronunciata perché il Paese ha comunque bisogno di un certo livello di crescita per creare i nuovi posti di lavoro (circa 15 milioni l’anno) necessari per fronteggiare l’incremento demografico e i flussi migratori dalle campagne.
Che la manovra riesca è però tutto da vedere: alcune riforme sono state impostate, ma si procede a zig-zag, come dice il governatore della Banca centrale, Zhou Xiaochuan. Dal mercato del lavoro vengono flebili segnali che possono far sperare in qualche forma di riequilibrio tra Cina e Paesi avanzati, nel lungo periodo. Oggi il salario di un operaio di Shanghai in media è otto volte più basso rispetto all’Occidente. E, soprattutto in alcuni settori come le costruzioni, vige una sorta di «caporalato» che rende il lavoro tanto «flessibile» quanto privo delle più elementari garanzie. Ora qualcosa sta cambiando. A esempio a Pechino, dove tre milioni di lavoratori emigrati dalle campagne ricevono incarichi precari, è stato vietato il subappalto dei lavori a società che non garantiscono i requisiti minimi di sicurezza e spesso non pagano nemmeno i loro dipendenti. E gli operai che oggi vengono pagati una volta l’anno, dovranno ricevere il salario mensilmente. Non molto, visto dall’Europa, ma un cambiamento significativo per la Cina. Dove per alcune professionalità (a esempio gli ingegneri laureati in America che tornano in patria) si cominciano a pagare retribuzioni comparabili con quelle di altri Paesi industrializzati.
Se nel mondo del lavoro qualcosa si muove, dalle banche per ora non vengono indicazioni incoraggianti. Abituate a operare come rami della pubblica amministrazione che garantisce tutti i loro crediti, le quattro grandi banche cinesi hanno continuato per anni a erogare cifre enormi ai clienti, prevalentemente aziende di Stato, senza curarsi della redditività dei progetti finanziati. Cinque anni fa lo Stato destinò il 3% del reddito nazionale a un loro massiccio rifinanziamento (270 miliardi di yuan, circa 27 miliardi di euro, al cambio di oggi). Dovevano entrare nel sistema finanziario internazionale con un adeguato grado di patrimonializzazione. Ma la musica non è cambiata: pressate anche dai governi delle singole province, desiderosi di sostenere lo sviluppo, queste banche hanno continuato a finanziare di tutto. Così Pechino ha appena dovuto spendere ben 45 miliardi di dollari per rifinanziare due di queste banche. Ora, però, il sentiero si è fatto stretto: l’elevato livello dei crediti «in sofferenza» o già inesigibili - ufficialmente il 21% del totale, ma c’è chi ritiene che siano più del doppio - richiederebbe infatti una frenata brusca che verrebbe pagata a caro prezzo dall’economia cinese e da quella internazionale. Una frenata troppo morbida rischia invece di non allontanare il pericolo di un « meltdown » finanziario.
E così ieri sul «New York Times» Thomas Friedman ha trasformato la sua corrispondenza sulla Cina in una preghiera (ironica fino a un certo punto) al Padre Celeste, affinché mantenga i governanti cinesi forti e in buona salute fino all’età di 120 anni, capaci di governare con saggezza un processo di riforme economiche che consenta alla Cina di crescere per sempre al 9 per cento l’anno. Scavalcando, uno alla volta, tutti gli altri grandi protagonisti dell’economia mondiale, America compresa.

Repubblica 4.5.04
Dalle pubblicazioni sulle riviste specializzate al numero dei brevetti, gli americani perdono terreno
Vacilla il primato Usa nelle scienze ora la ricerca si fa in Asia ed Europa
L'allarme sulla prima pagina del New York Times: "Il mondo ci sta per raggiungere"
Le restrizioni ai visti favoriscono il ritorno dei cervelli in Cina e in India, giganti in ascesa
DAL NOSTRO INVIATO FEDERICO RAMPINI


Il quotidiano denuncia la sottovalutazione generale delle «conseguenze per l´occupazione, l´industria, la sicurezza nazionale o il dinamismo della vita culturale del paese». «Il resto del mondo ci sta raggiungendo», conferma John Jankowski della National Science Foundation, l´agenzia federale che studia proprio i trend della scienza. L´allarme è fondato su dati e indicatori precisi. Una misura della competizione internazionale nel sapere è il numero di brevetti. Qui gli Usa conservano una lunghezza di vantaggio su tutti, ma il margine si assottiglia di anno in anno, con un calo dal 60 al 52% in un ventennio, mentre in alcuni settori specifici i paesi asiatici sono già passati in testa.
Un altro indicatore che gli esperti guardano con attenzione è il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche. Qui il sorpasso è già accaduto. Nella fisica, per esempio, gli studi americani sono caduti dal 61% del totale vent´anni fa, al 29% oggi. Il direttore della Physical Review, Martin Blume, rivela che la Cina è ormai passata in testa con più di mille studi presentati all´anno, e afferma che lo stesso sta accadendo in altre discipline avanzate.
Il New York Times cita Diana Hicks del Georgia Institute of Technology, secondo cui il ritmo dell´ascesa asiatica nella scienza e nell´innovazione tecnologica «è incredibile, studi e brevetti salgono in modo stupefacente». Il giornale mette sotto accusa il provincialismo di un´America che si crede il centro del mondo, e talvolta ignora i progressi altrui. Ricorda l´esempio delle missioni su Marte: la notizia che la sonda europea ha individuato tracce di metano nell´atmosfera è stata ignorata dai mass media americani, troppo intenti a esaltare le prodezze della missione Nasa.
L´opposizione democratica cavalca l´allarme, il capogruppo al Senato Tom Daschle parla di un «momento di svolta», in cui si moltiplicano «i segni che il primato americano nel mondo scientifico è scosso». La proliferazione delle spese militari in passato ha avuto effetti benefici anche sul progresso tecnologico, e tuttora la ricerca a scopi bellici riceve 66 miliardi di dollari di finanziamenti all´anno. Ma il peso della guerra in Iraq sui deficit pubblici costringe a tagli dolorosi e gravidi di conseguenze in altri campi: 21 agenzie federali su 24 che si occupano di ricerca scientifica hanno visto i propri bilanci decurtati, le tre che si salvano sono quelle che si occupano esclusivamente di missioni spaziali e sicurezza nazionale.
La priorità alla sicurezza si ritorce contro la scienza in un altro modo. Una conseguenza dell´11 settembre è stato il giro di vite sulle procedure per i visti d´ingresso agli stranieri. I nuovi controlli hanno allungato a dismisura i tempi di rilascio anche per i visti di studio. Questo rallenta e ostacola l´arrivo di quei talenti stranieri - docenti, ricercatori o studenti - che da sempre contribuiscono alla forza delle università americane. Il numero di laureati stranieri che hanno presentato domanda per un dottorato di ricerca negli Usa nel prossimo anno accademico è sceso del 25%. Pochi giorni fa un summit d´emergenza ha portato i rettori delle principali università americane alla Casa Bianca, per tentare di porre un riparo a questa emorragia di cervelli. Ma la paura di attentati e l´inefficienza dell´Immigration Service hanno creato un collasso burocratico da cui è difficile uscire in tempi rapidi.
L´impatto negativo della nuova politica dei visti coincide con una fase in cui emergono come nuovi poli d´attrazione la Cina e l´India, due tradizionali serbatoi d´emigrazione qualificata verso gli Usa. Negli anni ?90 un terzo delle nuove imprese fondate nella Silicon Valley - il centro californiano delle tecnologie avanzate - era stato creato da imprenditori-scienziati di origine asiatica. Oggi una parte di loro stanno tornando a casa, attirati dall´opportunità di usare la propria esperienza americana nella "nuova frontiera" del boom asiatico. Ormai per molti giovani laureati provenienti da Cina, India, Corea, Taiwan, anche se hanno già in tasca il visto Usa la prospettiva è cambiata. Un dottorato a Berkeley, Stanford o Harvard è solo una tappa prima di tornare a far carriera in patria, non l´anticamera dell´emigrazione negli Stati Uniti. A questa inversione di tendenza contribuiscono le stesse multinazionali americane. Da Ibm a Microsoft, da Intel a Hewlett Packard, tutte investono in Cina non più solo per crearvi fabbriche con manodopera a buon mercato, ma per costruire centri di ricerca avanzata, design, progettazione. La grande paura americana dell´offshoring assume di colpo un significato nuovo. Non sono solo posti di lavoro che vengono trasferiti sull´altra sponda del Pacifico, ma la stessa ricetta-chiave della leadership americana nel mondo. Giappone, Taiwan e Corea del Sud già rappresentano da soli un quarto di tutti i brevetti industriali registrati sul mercato americano, Cina e India sono sulla buona strada. «Ci stanno raggiungendo - dice la vicepresidente del Council on Competitiveness, Jennifer Bond - e gli americani farebbero bene a non addormentarsi sugli allori».

AP 3.5.04 (dall'articolo del New York Times)
SCIENZA, GLI USA STANNO PERDENDO IL DOMINIO MONDIALE (NYT)
Crescono l'Europa e la Cina, effetto della globalizzazione


Roma, 3 mag. (Ap) - I primi a stupirsene sono stati gli stessi analisti americani, ma la tendenza è in atto e i dati la confermano: gli Stati Uniti stanno perdendo il dominio incontrastato nel campo della scienza e della tecnologia. Il resto del mondo - in particolare l'Europa e l'Asia - sta rapidamente colmando un "gap" che sembrava invalicabile, e anzi pareva destinato ad allargarsi. Lo scrive il New York Times, che cita i pareri di esperti governativi e privati americani e fa l'analisi di una serie di "indicatori" del progresso scientifico: i brevetti, il numero delle pubblicazioni, i premi Nobel. La conclusione la tira senza girarci intorno John E. Jankowski, analista della National Science Foundation: "Il resto del mondo ci sta raggiungendo", dice. "Il primato nelle scienze non è più appannaggio dei soli Stati Uniti".
Il mondo nel suo complesso di certo ne trarrà beneficio, dice ancora l'esperto. Ma i grandi profitti derivanti dall'eccellenza tecnologica saranno sempre più condivisi, e anche la concorrenza nella produzione scientifica si farà più difficile, perché gli Usa non saranno più - come ora - una calamita irresistibile per tutte le menti migliori.
Da che cosa emerge la tendenza alla recessione della scienza made in Usa? In primo luogo - scrive il NYT - dall'indicatore più importante non soltanto dal punto di vista culturale, ma soprattutto economico: il numero di brevetti nelle alte tecnologie che vengono concessi nel mondo. Fino a qualche decennio fa erano tutti, con pochissime eccezioni, concessi a centri di ricerca americani. Oggi, gli Stati Uniti conservano la maggioranza, ma risicata: il 52 % dei brevetti è americano, Europa ed Asia si dividono quasi tutti gli altri.
Ancor più indicativo e preoccupante è il declino riguardante un altro indicatore specifico, il numero delle pubblicazioni scientifiche accolte dalle riviste specializzate. Negli ultimi vent'anni, da una maggioranza di articoli firmati da riceratori Usa che comunicavano i loro risultati innovativi, si è passati a una netta minoranza. Significativo il caso della Physical Review, tempio della ricerca in campo fisico-matematico: soltanto il 29 per cento degli articoli oggi esce da ricerche compiute in laboratori americani. Nel 1983 erano il 61 per cento.
Declino anche nei premi Nobel dedicati alle discipline scientifiche. Scorrendo gli Albi d'Oro dagli anni Sessanta ai Novanta, si leggono soltanto nomi di ricercatori operanti negli Usa, con poche sporadiche eccezioni. A partire dal 2000, il 51 % dei riconoscimenti è andato a ricercatori europei.
Di tutto questo, scrive il NYT, si ha poca percezione negli Stati Uniti, tanto a livello di pubblico che a livello politico. E' difficile scalzare l'immagine, ormai da tempo acquisita, del dominio scientifico Usa. I media sono abituati a non tener conto di quanto avviene all'estero, e non hanno percepito la sgradevole novità.
Il giornale cita un esempio: pochi mesi fa, la sonda marziana dell'Esa, l'agenzia spaziale europea, scoprì tracce di metano nell'atmosfera del pianeta, ovvero un forte indizio della presenza di microrganismi viventi. Negli Usa la notizia non è neppure passata, perché il pubblico era bombardato dalle immagini dei due robot della Nasa che passeggiavano nei deserti marziani.
Secondo gli analisti Usa, il futuro apparterrà sempre più a nazioni non americane. La Cina, col suo aggressivo programma spaziale, viene vista come il concorrente più temibile. Il numero di pubblicazioni da parte di scienziati cinesi è aumentato vertiginosamente in pochi anni, e continua ad aumentare.