martedì 4 maggio 2004

«all'improvviso arriva la paura»

ricevuto da P. Cancellieri

Il Manifesto martedì 4 maggio 2004
Cultura
I virus della paura
Dalle nuove malattie un colpo alla ragione e un altro all'immaginazione
di FRANCO VOLTAGGIO


In un celebre frammento di Archiloco, singolare figura di poeta greco «trasgressivo» del VII secolo a.C., leggiamo: «all'improvviso arriva la paura» (ex aélptou o phóbos anérchetai). Se possiamo fare solo deboli ipotesi sul contenuto e la natura dell'opera di cui ci resta solo questo semplice verso, ci è forse possibile azzardarci a confutare la traduzione consueta dell'originale ex aélptou, «all'improvviso», sostituendola con quella letterale, dall'inatteso, rubando, magari un po' grossolanamente, il mestiere ai filologi e prendendoci tutta la libertà consentita alla nostra condizione di semplici lettori. Archiloco sembra allora trasmetterci un preciso messaggio: un affetto così sconvolgente, qual è la paura, pare sopraggiungere da qualcosa che viene avvertito come esterno, lontano e inaspettato. A quanto ci risulta, inaspettati e venuti da lontano sono avvertiti in Occidente soprattutto i virus, responsabili di gravi epidemie. E' stato così per l'antrace, che terrorizzò gli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, per la Sars scoppiata e diffusa nel 2003, per la «influenza dei polli», che oggi tanto intriga l'opinione pubblica, e, infine, qualche anno fa per la patologia prodotta dal virus ebola. Poco importa, a questo punto, se non sempre quelli che il pubblico chiama «virus» rientrino nella categoria dei microrganismi così propriamente detti (il patogeno dell'antrace, per la precisione, è un batterio, il Bacillus anthracis). Sono infatti indistintamente percepiti dall'immaginazione popolare quali «virus», cioè «veleni», conservando con ciò l'antico significato che la parola latina virus ha in Virgilio, Lucrezio, Plinio il Vecchio, Seneca. Con lo sgomento che provocano attivano una complicazione importante, per l'appunto la paura di massa, la quale fa immediatamente una vittima, degna di attenzione: la tenuta, già per altri versi tanto deteriorata, delle relazioni umane e politiche. Di qui la necessità di qualche riflessione speculativa che mobiliti la vecchia buona filosofia nella battaglia contro le emozioni da virus. Per cominciare, può essere utile provarci a discriminare tra ragione e immaginazione. La ragione, quella spicciola, ci dice innanzitutto che sarebbe sensato prestare ascolto alle informazioni e assicurazioni dei singoli medici e delle istituzioni sanitarie. Ma questo non convince i molti, specie perché le istituzioni sono screditate. In genere un'emergenza epidemica trova il governo e la sanità pubblica profondamente addormentati nello stesso letto. E' generalmente così in Italia, ma è stato così anche negli Stati Uniti almeno in un'importante occasione: come non ricordare lo sciagurato comportamento dei Centers for Diseases Control americani che battezzarono l'Aids «The Gay Syndrome», «la malattia degli omosessuali»? Ci occorre un altro tipo di ragione, quella critica che, come è suo antico costume, procede non per certezze preconcette, ma per interrogativi.
Perché «virus» nuovi o presunti tali colpiscono la nostra immaginazione? Proprio perché sono nuovi. Questa risposta suona indubbiamente come la scoperta dell'acqua calda, ma va posta perché stimola a porci domande non banali: che cos'è l'immaginazione? Quale relazione corre tra immaginazione e ragione? Per rispondere al primo interrogativo, dobbiamo riferirci alla cultura rinascimentale. Leonardo da Vinci sosteneva che tutte le forme di letteratura, riassunte nella poesia, sono costruzioni di immagini, così che il poeta è, in definitiva, fratello naturale del pittore (ut pictura poësis). Per lui, come per tanti dotti del tempo, l'immaginazione è la facoltà umana di produrre immagini (vis imaginitiva). In un'età segnata dal trionfo delle arti figurative e, in particolare, dalla pittura, si pensava che la funzione dell'artista, soprattutto del pittore, non fosse tanto quella di riprodurre con fedeltà le cose reali, magari abbellendole o al contrario rendendole orride, quanto piuttosto quella di creare nuovi oggetti, destinati poi a esistere di un'esistenza propria al pari degli oggetti naturali. In larghissima misura, gli artisti del Rinascimento fecero di questa idea un vero programma di lavoro. Non si spiegherebbe altrimenti un autentico miracolo come La melanconia di Dürer: una figura di donna, di una giovinezza in procinto di sfiorire, seduta mestamente su una larga pietra squadrata che, con il mento appoggiato alla mano guarda cupa davanti a sé, circondata da una quantità di strani oggetti, mentre un cane, altrettanto mesto, è accucciato ai suoi piedi. La malinconia diventa, a questo punto, non semplicemente il soggetto di un'incisione di strepitosa bellezza, ma un inedito oggetto reale, che sembra suggerire come l'infelicità dell'anima possa essere un inquietante spirito femminile, capace di trovare ricetto nel corpo di uomini e donne.
Questa visione perversa dell'eterno femminino veicola l'idea, in parte riprodotta in numerosi trattati medici dell'epoca che descrivono la malattia come un insieme di sintomi, svogliatezza, persistente senso di debolezza e di inferiorità, morbosità, che la tenacia del pregiudizio ritiene tipico appannaggio delle donne. La vis imaginativa rinascimentale operò, tra l'altro, la trasformazione delle grandi malattie epidemiche in entità malvagie (tale era la peste che si immaginava come uno scheletro armato di falce e sempre sul punto di correre di landa in landa) che bastava evocare perché irrompessero in una comunità disseminando la morte. Così, per esempio, Paracelso racconta, nel De vita longa, il caso di due fratelli, l'uno residente in Italia, l'altro in Francia, il primo morto di peste, il secondo colpito e deceduto per il medesimo morbo solo per averne appreso, con sbigottimento, la notizia. Come dire che per lui pensare la peste, evocarla e renderla operante fu tutt'uno.
Se non ci lasciamo prendere la mano dallo scientismo, che è altra cosa dall'autentico spirito scientifico, e non liquidiamo con un'alzata di spalle il racconto di Paracelso, forse arriviamo a disporre degli elementi per rispondere al secondo interrogativo. La lezione che Paracelso, suo malgrado, ci dà è la seguente: l'immaginazione produce immagini e queste, corpi non meno intensi e vividi degli oggetti reali, producono concetti che guidano a farsi un quadro complessivo della realtà. Il processo di produzione dei concetti, in questo caso, non differisce affatto da quello che ci conduce a formarci il concetto di casa o quello di albero. Con una sola differenza, che è però determinante: il quadro, con le sue immagini, mentre ritrae un soggetto spaventato davanti a qualcosa di nuovo è falso o meglio scorretto, perché manca degli elementi di criticità e di pazienza che sono associati a un corretto sentire le cose. E' in altre parole un pregiudizio. Claude Bernard, invocato solitamente come il campione della razionalità scientifica in medicina, sosteneva che il corretto ragionamento medico ha luogo unicamente quando «si sente giustamente» e affermava: «i pazzi ragionano perfettamente, ma non sentono giustamente». L'immaginazione resta la base di ogni ragionamento, scientifico, o più o meno assennato; e ciò che segna lo spartiacque tra la ragionevolezza e il suo contrario è l'assenza di criticità, la cui origine è, generalmente, la paura, fonte di ogni nevrosi, la quale conduce ad allucinare le immagini produttive di scenari deformati del reale. E' quanto, a nostro parere, è accaduto e continua ad accadere con i «virus».
Scomodando Jung - autore, tra l'altro, di uno straordinario saggio, Paracelso come fenomeno spirituale (1942) - rammentiamo che non vi è essere umano che non disponga, oltre alla propria immaginazione con la quale elabora un corredo di immagini che lo guidano a formarsi un pensiero, giusto o sbagliato che sia, su quanto accade, anche di un bagaglio di immagini che gli vengono tanto dalla cultura di appartenenza, quanto, forse soprattutto, dal retaggio della specie. Queste figure - essenziali per la costruzione delle stesse idee scientifiche -comprendono tuttavia anche vere e proprie visioni, quasi idee «fossili», che sono autentici veicoli di paura e disagio collettivi. Tra queste ci sono le figure evocate dalle parole «malattia» ed «epidemia», voci il cui uso in medicina contrassegna, rispettivamente, una qualsiasi individualità clinica e un morbo che colpisce una popolazione (per solito, come si teorizza dal tempo di Ippocrate, in coincidenza con l'evenienza di stress ambientali, soprattutto climatici); ma che, nell'immaginario collettivo, hanno un ben diverso significato: «malattia» è l'opera di un «malo», uno spirito malvagio che si diverte a tormentare il nostro corpo; «epidemia» è la «visita» che un'entità soprannaturale fa a una popolazione per punirla di una qualche sua colpa (e del resto l'originario termine greco, epidemía, significava letteralmente «visita a un demo»). L'occorrenza di un'epidemia scatena di conseguenza, in quanti ne sono colpiti, un generale senso di colpa.
In generale, va detto, il senso di colpa è sempre colpevole. Lo è in più di un senso: perché individui e comunità hanno sempre, comunque, uno scheletro nell'armadio di cui farsi perdonare; lo è, soprattutto, perché il senso di colpa è talmente angoscioso da spingere chi lo prova ad assolversi, a declinare ogni responsabilità, e, infine, a scaricare la colpa sugli altri. Come sempre accade con i meccanismi nevrotici, si tratta di processi che, dall'alba della specie in poi, si ripetono invariabilmente, ma, ovviamente, l'untore, di volta in volta imputato, cambia con il variare del contesto storico complessivo. L'Occidente, preso nel suo complesso, sembra aver trovato il suo untore nella Cina e ha razionalizzato l'individuazione del presunto colpevole denunciando i disastri ambientali provocati dalla Repubblica Popolare Cinese, e la mancata accortezza mostrata dalle locali autorità sanitarie prima di fronte all'epidemia di Sars, ora di fronte alla «influenza dei polli». Al di là del fatto che pionieri nella devastazione ecologica sono stati (e continuano a essere) i grandi Paesi dell'Occidente, i quali parlatro non brillano certo per accortezza sanitaria, c'è da chiedersi se queste accuse non nascondano per avventura qualche altra cosa. Qualcosa di antico e qualcosa di nuovo.
Tenuto conto del fatto che l'immaginario collettivo è sì un insieme di contenuti prevalentemente (ma non del tutto) inconsci, ma è, tuttavia, diversamente modulato dalla storia specifica delle grandi comunità, può essere utile rammentare che per l'occidentale medio «Oriente» continua a essere sinonimo di qualcosa di misterioso e sconcertante, addirittura il «buio dello spirito» - è così che lo vedeva Hegel nella sua filosofia della storia - un'abissale tenebra in cui non alberga né la coscienza, né, di conseguenza, il senso di responsabilità attiva. A questa superstizione antichissima si associa però un nuovo timore. L'Oriente si identifica, per tanti, con la Cina, il paese continente che, al tempo della «rivoluzione culturale», alimentava speranze e paure (forse qualcuno dei lettori ricorderà un vecchio film di Marco Bellocchio, La Cina è vicina) e che oltre trent'anni fa, nelle sue corrispondenze dall'estero, Alberto Moravia assimilava alla figura del «convitato di pietra». Se l'Occidente resta, come nella metafora di Moravia, il protagonista di un continuo libertinaggio ai danni della natura e del proletariato, il gigante asiatico è ora però espressione di una colossale potenza destinata a trasformarsi nel terzo polo dell'economia mondiale, un polo che, coalizzando le risorse economiche e umane dell'intera Asia, può imporre muove regole e forse, chissà, annullare le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. E' il caso di stupirsi, allora, se nell'immaginario collettivo occidentale alla rassicurante e pacifica immagine di milioni di contadini cinesi armati di cucchiaini da te per dragare i loro grandi fiumi si è ora sostituita quella di folle di untori «gialli» che aggrediscono l'Occidente portando con sé innumerevoli virus?
Nessuno può ovviamente pretendere che autorità pubbliche impartiscano lezioni di filosofia a un pubblico spaventato, tanto meno in Italia. Non lo saprebbero fare ed è bene che non lo facciano perché, se si attentassero a farlo, sarebbero capaci di ben altro, come, ad esempio, adottare la sciagurata strategia dei moniti e divieti quali quelli riprodotti sui pacchetti di sigarette, che lungi dallo scoraggiare il «vizio» del fumo, hanno sinora semplicemente umiliato ed emarginato milioni di infelici cittadini. Ad accogliere il nostro sommesso invito dovrebbero essere semmai i maîtres à penser, che qui si vuole stimolare a scorgere nel problema una delle chiavi di decifrazione di quella «modernità» che tanto li intriga.