lunedì 10 maggio 2004

El Greco a Londra

Ha successo a Londra la rassegna dell'Artista cinquecentesco
Quando Cézanne copiava El Greco
Tra Ottocento e Novecento la sua opera fu al centro di accanite discussioni tra critici
di ANTONIO PINELLI

Londra. El Greco è uno dei pochi maestri del passato che possa vantare una fama davvero universale, come dimostrano le strabocchevoli folle di visitatori che lo scorso inverno si accalcavano nelle sale del Metropolitan di New York e oggi accorrono alla National Gallery londinese, rischiando estenuanti file pur di non perdere la seconda ed ultima tappa di questa magnifica mostra monografica (El Greco, a cura di D. Davies, fino al 23 maggio). Non tutti sanno, però, che l´enorme popolarità di cui oggi gode questo pittore è un fatto relativamente recente, che ha scarso riscontro nella fama tardiva da lui conseguita in vita. Fama limitata e, in apparenza, effimera, tanto da scolorire rapidamente dopo la sua morte, condannando il suo nome ad oltre due secoli di perfetto oblio.
El Greco nacque a Creta nel 1541 e si formò nella sua isola, che allora era un possedimento veneziano, divenendo un tipico "madonnero" di scuola neo-bizantina. Sui 25 anni, spinto dalla voglia di ampliare i propri orizzonti, si spostò in Italia, dove trascorse quasi un decennio tra Venezia e Roma, entrando in contatto con Tiziano, Tintoretto, Michelangelo e la raffinata cerchia culturale della potente famiglia Farnese, senza però ottenere il pieno successo professionale cui aspirava. Approdato in Spagna nel 1576, la sua speranza di divenire pittore di corte andò presto delusa, tanto che dovette ripiegare su Toledo, città prospera ma esclusa dal grande circuito delle committenze regie. Vi si stabilì definitivamente, facendone la propria base operativa per il mezzo secolo scarso che ancora gli restava da vivere, e fu qui che poté gustare i frutti di una reputazione ormai consolidata, ma che sembrava destinata a relegarlo nel modesto Pantheon delle glorie locali. Finché nella seconda metà dell´800, proprio come accadde a Piero della Francesca e a Botticelli, un animoso manipolo di critici e di collezionisti lo riportò clamorosamente alla ribalta individuando in lui una sorta di prototipo dell´artista moderno. Maestri sulla cresta dell´onda, come Delacroix o Sargent, si fecero un vanto di possedere copie o repliche autografe di suoi capolavori, mentre il giovane Cézanne manifestò tutta la sua ammirazione per lui, copiando con grande applicazione uno dei suoi ritratti più famosi, la Dama con il mantello di pelliccia.
Questa riabilitazione, tuttavia, fu a lungo contestata negli ambienti più conservatori, perché nei decenni a cavallo tra '800 e '900 l´essere pro o contro El Greco era divenuto una discriminante tra chi era a favore e chi avversava l´arte contemporanea. A critici di punta come Fry o Dvoràk si contrapposero studiosi di bieco stampo positivista, che non esitarono a spiegare il febbrile cromatismo, le forzature prospettiche e le contorsioni delle sue figure esageratamente allampanate come il frutto di anomalie percettive di un soggetto afflitto da grave astigmatismo.
Tutto risulterà più chiaro, se si tiene presente che dietro a questa disputa su di un pittore vissuto ben tre secoli prima infuriava la ben più attuale battaglia a favore o contro la verosimiglianza nelle arti figurative. Dal canto loro, Fry e i suoi sodali non esitavano ad additare nella programmatica distorsione ottica cui El Greco sottoponeva le sue figure l´origine della scomposizione dei piani operata da Cézanne e portata ad estreme conseguenze dal Cubismo.
Oggi l´eco di questa battaglia, persa dagli antimodernisti, si è ormai affievolita. Resta comunque istruttivo constatare retrospettivamente quante tappe cruciali della battaglia in favore del "moderno" abbiano visto la questione di El Greco in prima linea. Come quando Franz Marc, impegnato a stendere con Kandinsky il manifesto del Cavaliere Azzurro, esaltava il pittore per l´arroventato misticismo dei suoi quadri. O come quando Picasso, proprio nell´impostare le sue rivoluzionarie Demoiselles d´Avignon, aggiungeva alla già deflagrante miscela composta dalla scheggiatura dei piani appresa da Cézanne e dal brutale sintetismo della scultura africana, la polvere pirica dei più arditi contorcimenti anatomici immaginati da El Greco in un quadro - L´apertura del quinto sigillo - che oggi figura tra gli oltre 80 capolavori presenti in mostra.
Non si può nascondere, tuttavia, che tuttora proprio la polvere sollevata da questa "battaglia per la modernità" offuschi alquanto l´esatta percezione di cosa davvero si celi dietro lo stile sfoggiato da El Greco. Uno stile che trae spiegazione dalla temperatura altissima con cui il fiammeggiante talento del pittore ha saputo portare al punto di fusione la singolarissima miscela composta dai fulgidi ed astratti stilemi bizantini, profondamente assorbiti durante il suo apprendistato di "madonnero" cretese, e dalle sconvolgenti novità apprese in Italia - l´acceso colorismo e il concitato luminismo dei Veneti, le torsioni e gli avvitamenti del manierismo michelangiolista.
Il paradosso è che tutto ciò sia sostanzialmente giunto a piena maturazione soltanto in Spagna. Quella Spagna in cui El Greco si trapiantò, ma senza integrarvisi completamente, tanto che continuò imperterrito a firmare le sue tele con il proprio nome greco - Doménikos Theotokópoulos. Dal canto suo, la Spagna ricambiò questa riluttante integrazione con un soprannome - El Greco, si badi bene, non El Griego - che a ben guardare riassume perfettamente la duplice identità, sia nazionale che culturale, del pittore: quella cretese e quella italiana. E ciò a dispetto del fatto che oggi gli spagnoli, grazie alla potenza persuasiva dell´arte, credano di veder riflesso nella sua pittura, corrusca e ardente, un frammento della propria identità più profonda.