giovedì 20 maggio 2004

Emanuele Severino:
«utopia ed eresia»

Corriere della Sera 20.5.04
ELZEVIRO
Da Moro a Campanella
Utopia ed eresia
di EMANUELE SEVERINO


Come titolo del convegno di Cosenza il teatro «Franco Parenti» di Andrée Ruth Shammah ha giustamente proposto «Utopia ed Eresia». Vengono evocati Telesio, Bruno, Campanella e, ancor prima, Gioacchino da Fiore. L’intreccio delle due parole è però ancora più profondo (e più ambiguo) di quello, già grandioso, che nel Rinascimento le ha unite. Già la parola «eresia» sorprende. Usata nella cultura cristiana per indicare una dottrina che si allontana dalla predicazione apostolica, «eresia» ( hàiresis ) è parola costruita sul verbo hairèin, che nell’antica lingua greca significa «prendere una cosa trattenendola nel proprio ambito e, quindi, togliendola via dal luogo in cui si trovava, sì che questo prendere è uno scegliere , avendo la forza di mandare a effetto ciò che è scelto». Per il cristianesimo l’«eresia» è la scelta con cui si toglie via, alterandola, una cosa che appartiene al messaggio autentico di Gesù. Ma, già prima di questo messaggio, gli uomini vivono per millenni nel mondo del mito, che domina e regola la loro esistenza. E sei secoli prima di Cristo il popolo greco, per la prima volta, prende le cose del mondo, togliendole via dal loro essere interpretate dal mito e le trattiene all’interno di una «sapienza» che non intende imporsi come abitudine sociale e istinto, ma per la sua «verità», cioè per l’impossibilità di essere negata dalla mente dell’uomo. La «scelta» di questa sapienza, che è libera da tutto ciò che non sia la verità, è l’«eresia» da cui nasce la civiltà occidentale e che ben presto prende il nome di «filosofia». La verità si impadronisce delle cose .
La filosofia è l’eresia originaria. Il Rinascimento ripropone, rispetto al mito cristiano, l’atteggiamento originario della filosofia. Telesio, Bruno, Campanella sono appunto accusati di «eresia» e la società cristiana prende posizione rispetto a essi in modo analogo a quello in cui la democrazia ateniese, ancora avvolta dal mito, condanna Socrate. Muoiono, Socrate e Bruno, per aver «scelto» di farsi guidare non dal mito, ma dalla verità.
Anche Tommaso Moro viene ucciso per lo stesso motivo. Egli è un santo della Chiesa cattolica. Ma la sua opera più celebre è intitolata Utopia - una parola da lui coniata per indicare che gli Stati esistenti, in particolare quello inglese, non sono ancora guidati dalla verità quale appare all’interno della sapienza filosofica. Solo se le leggi che guidano lo Stato sono leggi della verità, lo Stato può esistere realmente e non in apparenza. Stati apparenti quelli che appaiono nella storia. Non Stati, ma instabilità . Come stabilità resa possibile dalla verità, lo Stato, ancora, non esiste, non ha ancora luogo, è ancora «senza luogo». Tommaso Moro vuole esprimere in greco questo concetto e conia la parola «utopia», che egli ottiene unendo due parole dell’antica lingua greca: ou («non») e tòpos («luogo»). «Utopia» è il non aver ancora luogo, da parte della stabilità del vero Stato.
Anche Campanella e lo stesso Bruno procedono nella direzione di Tommaso Moro. Ma tutti insieme guardano e ripropongono il modo in cui il pensiero greco - sin dal suo inizio, e, nelle forme più splendenti e potenti, con Platone - intende il rapporto tra la verità e lo Stato. La vera potenza e stabilità dello Stato richiedono che esso - la pòlis - sia guidato dalla verità, non dai miti e dalle fedi, come invece di fatto accade, e che dunque l’essenziale «eresia» della filosofia, in cui la verità si manifesta, sia insieme la sua essenziale «utopia». Questo, l’intreccio profondo di eresia, utopia, filosofia. Scegliendo la verità come luce delle cose , ci si propone di dare un luogo, cioè di realizzare le cose della verità .
In questo intreccio, l’utopia non ha nulla a che vedere con la fantasia irrealizzabile. Si può dire che le stelle non si trovano in mezzo alle onde e alla sabbia - che tra le onde e la sabbia non c’è un luogo per le stelle - e che, tuttavia, la loro luce guida naviganti e carovane. Si può dirlo. Ma in questo modo si perde di vista che la «Repubblica» di Platone - la res publica, la «cosa pubblica» -, lungi dall’esser rimasta «senza luogo», semplice fantasia irrealizzabile di un «filosofo», è divenuta invece la grande Pòlis in cui l’Occidente, e ormai l’intero Pianeta, consiste. Nell’eresia-utopia della filosofia viene alla luce, una volta per tutte, il senso della parola più semplice ed essenziale - e più terribile - il senso presente in ogni luogo, il luogo di ogni luogo, il tòpos più decisivo per ogni pensiero e per ogni agire dell’Occidente: il senso della «cosa». La «cosa» è ciò di cui ci si impadronisce per dominarla. Non dunque «la guerra è madre di tutte le cose» come dice Eraclito, ma «la cosa è la madre di tutte le guerre».