domenica 13 giugno 2004

«il sogno di Boris Pasternak»

La Stampa 13.6.04
Un inedito del celebre scrittore russo rivela l’illusione di conciliare l’ispirazione artistica con il potere del regime sovietico
Il sogno di Pasternak, bolscevico immaginario


Quest’anno alla Stanford University, in California, sull’opera di Boris Pasternak si è svolto un convegno organizzato dal più solerte e solido studioso del poeta russo: Lazar Fleishman. Un tema centrale della vita e dell’opera di Pasternak è il suo rapporto con la rivoluzione, tema che collega l’ultima sua opera, il Dottor Zivago , alla prima. Mia sorella la vita , la raccolta di poesie che, scritte nel 1917, nel 1922 quando apparvero a stampa segnarono la nascita di un poeta impareggiabile. Tra queste due opere trascorsero vari decenni, attraverso i quali si è snodato un arduo cammino di ricerca e di formazione, per capire il quale occorre risalire alla visione iniziale che Pasternak ebbe della rivoluzione. Visione alla quale egli poi cercò di restare fedele, ma invano, poiché era il frutto di un equivoco storico, in cui egli come altri era incorso, anche se nel suo caso si trattò di un errore paradossalmente creativo che gli permise di non venir meno alla libertà interiore che pochissimi altri contemporanei e conterranei hanno dimostrato di possedere.
Che cosa fosse per Pasternak la rivoluzione del 1917, nelle sue due tappe del febbraio e dell’ottobre, lo dice splendidamente lo stesso Pasternak in una lettera a Brjusov (del 15 agosto 1922), facendo riferimento proprio a Mia sorella la vita e rendendo esplicito lo spirito che animava quei versi. Pasternak racconta il contenuto di un colloquio che ebbe con Lev Trotzkij per desiderio di quest’ultimo. A Trotzkij che gli domandava perché nelle poesie di Mia sorella la vita egli si fosse astenuto dai temi politici, la risposta di Pasternak, come egli scrive, consistette in «una difesa dell’individualismo vero come nuova cellula sociale del nuovo organismo sociale». Poi egli spiega il senso di queste parole: secondo Pasternak, Mia sorella la vita è «rivoluzionaria nel senso migliore di questa parola» in quanto «lo stadio della rivoluzione più vicina al cuore e alla poesia, il mattino della rivoluzione e la sua esplosione, quando essa restituisce l’uomo alla natura dell’uomo e guarda lo Stato con gli occhi del diritto naturale (la dichiarazione americana e francese dei diritti) sono espressi in questo libro nel suo stesso spirito, dal carattere del suo contenuto, dal ritmo e dalla successione delle parti, eccetera». Pasternak manifesta qui l’idea di una rivoluzionarietà immanente alla sua poesia e non tematicamente ostentata. Ma nello stesso tempo manifesta un’idea della rivoluzione che era agli antipodi della rivoluzione bolscevica. Per Pasternak il modello di rivoluzione era quello americano e quello francese con la proclamazione dei diritti dell’uomo e un russoviano ritorno alla natura dell’uomo. È facile comprendere che questa rivoluzione libertaria e liberale non corrispondeva affatto alla presa del potere da parte dei bolscevichi.
Il fatto è che l’epoca delle rivoluzioni democratiche, come erano state in diverso modo quella americana e la francese, era finita e la stessa rivoluzione democratica di febbraio ne era stata un’effimera e ritardata eco, destinata a essere presto soffocata da una rivoluzione di tipo nuovo, quella d’ottobre, per la quale essa aveva semplicemente preparato il terreno. Le rivoluzioni del XX secolo, inaugurate da quella bolscevica, sono rivoluzioni totalitarie, proprie di ideologie antilibertarie e antiliberali che progettano utopisticamente un mondo e un uomo radicalmente nuovi. Anche l’analogia col periodo giacobino della rivoluzione francese ha un valore assai relativo poiché il nuovo «giacobinismo» bolscevico, leniniano e staliniano, non solo è stato permanente, e non ha costituito un breve episodio, ma è risultato infinitamente più cruento del Terrore robespierriano. Fu in questo tipo di rivoluzione, non in quella della «dichiarazione americana e francese dei diritti», che Pasternak si trovò rinchiuso, a differenza dell’amico Majakovskij, al quale proprio la rivoluzione bolscevica riusciva congeniale, tanto che egli la cantò così com’era, «unico cittadino», dirà Pasternak nel Salvacondotto , del nuovo incredibile Stato, fino a quel suicidio che tutti sconcertò. Si trattò dunque di un equivoco storico, condiviso da altri anche in Occidente, ma che a Pasternak, che lo visse con tanta sincerità, permise più tardi di liberarsi dal mito della rivoluzione.
Non seguiremo il lungo periodo che va dall’inizio degli anni Venti alla metà degli anni Trenta, periodo assai complesso caratterizzato anche per Pasternak da quello che chiamerei il «complesso di inferiorità» dell’intellettuale di fronte alla realtà rivoluzionaria. Si tratta di un «complesso» che costringe non a piegarsi conformisticamente a tale realtà, come fa la massa servile degli intellettuali del regime, ma a cercare di comprendere le ragioni storiche pseudoumanistiche di essa, adeguandosi alle tendenze e alle esigenze dell’epoca. Questo processo portò molti a quello che un critico, Arkadij Belinkov, ha chiamato «resa e rovina dell’intellettuale sovietico», come suona il titolo di un suo libro. Per Pasternak, però, come per altri poeti della sua generazione, da Anna Achmatova a Osip Mandelstam a Marina Cvetaeva, non si può parlare di «resa», bensì di indipendenza e poi di resistenza. Ma non si può negare che egli abbia sentito se non il fascino, la suggestione della rivoluzione, come si vede anche dai suoi atteggiamenti verso Stalin, nell’illusione che il regime comunista, dopo tanta violenza, si sarebbe «ammorbidito».
Qui ci interessa come, quando e perché Pasternak sia sfuggito all’ipnosi rivoluzionaria e, invece della «rovina», abbia conseguito il trionfo. In breve è lo stesso Pasternak a dire come e quando avvenne la rottura di quel paradosso della sua biografia che possiamo esprimere così: egli, per nobili motivi di fedeltà a certi ideali di giustizia e felicità generali proclamati dalla rivoluzione nella sua ideologia, cercò di diventare sovietico, ma fortunatamente non ci riuscì, e non poteva riuscirci perché tra lui e la sovieticità c’era un abisso. In un appunto scritto di suo pugno in calce al dattiloscritto di alcune poesie e dato a Olga Ivinskaja il 17 novembre 1956 dichiara: «Io non sono sempre stato così come adesso, al tempo delle stesura del secondo libro del dottor Zivago. Proprio nel ’36, quando cominciarono quei terribili processi (in luogo della cessazione del tempo della ferocia, come nel ’35 mi era parso) tutto si spezzò dentro di me e l’unità col tempo si trasformò in una resistenza ad esso che io non nascondevo».
Ma anche prima una «resistenza» agiva nel profondo di Pasternak, radicato nella grande cultura russa ed europea cristiana, il che rendeva la sua creazione sempre così libera e viva nella sua ricerca di verità. Gli eventi del 1936 non furono che l’ultima goccia che spezzò il fragile strato delle illusioni e delle speranze, portando Pasternak al suo Dottor Zivago . Era lo stesso marxismo che adesso veniva visto nella sua nudità di ideologia di un potere totale, come dice lo stesso Zivago, quando dichiara che «il marxismo è troppo poco padrone di sé stesso per essere una scienza (...). Non conosco corrente che sia più chiusa in se stessa e più lontana dai fatti del marxismo». Lo stesso meccanismo della rivoluzione d’ottobre è ora denunciato con fermezza: «I bolscevichi hanno preso il sopravvento sugli altri grazie alla disonestà dei loro principi, che si adattano alle mutevoli circostanze».
Al di là di queste parole, è l’intero romanzo, nelle sue parti in prosa e in versi, a essere l’affermazione di una libertà che Pasternak possedeva fin dall’inizio e ha portato attraverso prove e difficoltà della sua ricerca poetica e spirituale, una libertà che possiamo dire cristiana, come cristiano era il suo «socialismo», nel senso che Pasternak attribuiva liberamente al cristianesimo.