L'eclisse di Edipo
intervista allo psicoanalista André Green
Non c'è più differenza tra i sessi e neppure tra le generazioni ma il conflitto legato alle origini rimane
Da oggi a domenica un convegno a Roma discute il complesso dei complessi in un'epoca in cui tutto è cambiato
"Più che le persone reali sono le imago dei genitori a contare nella nostra vita"
"Una paziente mi ha detto: tradirei mio marito, ma non posso fare questo a mio figlio
di LUCIANA SICA
ROMA. La centralità del complesso d'Edipo - come anche il primato delle pulsioni o il ruolo prioritario della sessualità - è uno di quei pilastri del pensiero freudiano che da tempo viene più o meno seriamente riformulato o messo un po' sbrigativamente in discussione. Da questa intervista con André Green - che a ogni domanda precisa quasi con pignoleria di parlare "solo a titolo personale"- risulta chiaramente come sia del tutto refrattario al rigetto del modello edipico. Non per questo si percepisce come un esponente dell´ortodossia freudiana, etichetta che non gradisce neanche un po'. Riconosce e in parte accoglie il contributo innovativo di alcuni protagonisti del pensiero psicoanalitico contemporaneo. Quelli che lo infastidiscono, «sono i moderni eternamente impegnati sul fronte del rifiuto».
Uomo d'indiscutibile fascino, più incline al sarcasmo che all'ironia, dallo stile perentorio o per dirla alla francese molto tranchant, non gli piace essere considerato un caposcuola e tanto meno gli va l'appellativo di maestro. Di sé parla poco, butta lì qualche frasetta non esente da una certa civetteria, come: «Non sono né un signore né un vassallo», o anche: «Sono uno dei membri della Società psicoanalitica di Parigi, niente di più...».
Molto di più è André Green, studioso di quelli che non hanno né vogliono avere abilità mediatiche. Secondo un'opinione diffusa, è il più grande analista vivente: in ogni caso è una celebrità nel mondo della psicoanalisi, ormai una figura storica con i suoi 77 anni che - dall'infanzia nell'ambiente cosmopolita del Cairo all'esperienza tra i circoli dell'ospedale Sainte-Anne, dall'incontro con analisti inglesi della statura di Winnicott al rapporto conflittuale con Lacan - hanno attraversato in pieno l'epoca post-freudiana.
Parlando con lui dell'Edipo, l'impressione che prevale è però soprattutto un'altra: Green sembra l'incarnazione della psicoanalisi alla francese, del suo stile inconfondibile che privilegia il culto dell'opera freudiana - secondo lo slogan (lacaniano) del "ritorno a Freud"- , l'attenzione al dibattito filosofico, il gusto delle applicazioni nella letteratura e nel teatro. Non a caso - tra gli scritti di Green - quelli sull´Amleto di Shakespeare, su Proust o anche su Dostoevskij, non sono affatto marginali. Altri suoi titoli sono ormai dei "classici": da Slegare a Narcisismo di vita narcisismo di morte, a Il lavoro del negativo, pubblicati da Borla, o anche Il discorso vivente (Astrolabio). Il saggio sugli stati limite della "follia privata" è uscito invece da Cortina, che ora, a metà giugno, manderà in libreria l'ultimo lavoro dell'autore francese: Idee per una psicoanalisi contemporanea (pagg. 376, euro 29,80).
Dottor Green, che fine ha fatto l'Edipo?
«Non ha fatto nessuna fine, anche se oggi come oggi non è più possibile affermare che esiste una sola concezione dell'Edipo condivisa da tutti gli psicoanalisti: si tratterebbe di un'affermazione falsa. Esiste però anche una sorta di agitazione culturale che, per certi versi, tende a liquidarlo, non vuole neppure sentirne parlare...».
Perché?
«Ma perché l'Edipo è la differenza tra i sessi, e oggi non c'è più differenza tra i sessi. Perché l'Edipo è la differenza tra le generazioni, ed è dunque la necessità del proibito. Oggi nessuno si sente di dire "questo non si fa", e anzi si tende a identificare l'aspirazione a negare i divieti con l'evoluzione stessa della società occidentale - mentre è evidente che la stessa cosa non vale per i papuani, i russi o i vietnamiti... Per quel che mi riguarda, non rinuncio alla base fondamentale dell'Edipo: la doppia differenza dei sessi e delle generazioni che presiede alla nascita. Quali che siano le scelte sessuali di un individuo, non potrà comunque ignorare di essere nato da una relazione sessuale tra due genitori di una generazione precedente: per tutta la vita, è questa origine che dovrà elaborare».
Non crede che la difficoltà a reperire norme etiche che orientino i comportamenti derivi proprio dal "cedimento" della norma per eccellenza, quella edipica?
«Credo piuttosto che la società non stia lì per garantire la realizzazione delle fantasie di chiunque, anche se naturalmente non vogliamo essere turbati, imporci - direbbe Bion - il dolore di pensare... Qualche anno fa in Francia c'è stata una donna, avrà avuto 65 anni, che voleva assolutamente un figlio e per giustificare questa richiesta, andava dicendo che lei aveva tanto amore da dare. Ma questa non è una ragione sufficiente! E la funzione di una società è quella di ricordare che, malgrado tutto, esiste la razionalità... A me tutta questa agitazione attuale - la voglia iconoclasta di demolire ogni divieto - non interessa poi molto».
Il complesso d'Edipo non è cambiato dalla formulazione freudiana ad oggi?
«Non c'è dubbio, e certamente la psicoanalisi è da tempo obbligata a ripensare l'Edipo: quello che invece non andrebbe fatto è rimodellarlo a seconda dei gusti del momento».
Ma è ancora possibile identificare nella struttura edipica il fondamento dell'organizzazione psichica, delle relazioni familiari e sociali?
«Sì, tenendo conto che Freud non ha mai parlato del mito, ma della tragedia, e ha "costruito" un complesso o anche un micro-sistema che riguarda l'insieme dei rapporti di un bambino con i propri genitori, dalla nascita alla morte. Più che le persone reali, sono soprattutto le imago genitoriali a contare nella nostra vita, mentre l'uscita dal cerchio edipico avviene grazie all'identificazione con il rivale, alla desessualizzazione dei desideri verso l'oggetto d´amore, all'inibizione dell'aggressività. Parliamo naturalmente di un processo inconscio a causa delle proibizioni che riguardano l´incesto e il parricidio».
Parliamo anche del conflitto tra natura e cultura, non è così?
«È il conflitto centrale: natura e cultura sono in conflitto all'interno dell'individuo come in seno a un gruppo culturale, e implica che vengano trovate delle soluzioni di compromesso come altrettanti sistemi mediatori. Il sogno è una delle soluzioni individuali, il mito una delle soluzioni collettive... In ogni caso il conflitto ha una sua funzione strutturante, il che non esclude che rimanga sempre un resto mai completamente elaborato. E il risultato del conflitto, presente fin dall'origine, è la produzione dell'altro sistema psichico: il sistema inconscio».
Scrivendo a più riprese dell'Edipo, ha tenuto a dire come Freud abbia impiegato moltissimi anni - dal 1897 al 1923 - per elaborarne la teoria... Perché gli è stato necessario tanto tempo? Lei che idea se n'è fatta?
«Credo che Freud fosse convinto dell'impossibilità di dare una spiegazione esclusivamente clinica del complesso di Edipo, di racchiuderlo nei limiti d'una fase della sessualità infantile per quanto importante, e che fosse necessario interpretarlo come una struttura antropologica più generale. Non a caso, in Totem e tabù Freud indicherà il ruolo del padre morto, molto più importante del padre vivo rappresentato come castratore, autoritario, normativo...».
Per lei significa qualcosa l'eclisse del Padre?
«È dagli anni Sessanta che si parla di eclisse del Padre, ma questi sono soprattutto sociologismi: se oggi la struttura edipica non è più immediatamente visibile, non vuol dire che non sia comunque attiva... Tornando a Freud, il padre morto va ben oltre la figura del padre, a lui non si smette mai di chiedere perdono, rappresenta l'ascendenza, la stirpe degli avi... Sono insomma gli antenati che perseguitano i vivi».
Più volte ha fatto notare che, nella triangolazione edipica, la madre è la sola ad avere una relazione erotica - per quanto differente nella sua espressione - con gli altri due, con il padre e il bambino... Con quali complicazioni?
«Intanto le complicazioni della sessualità femminile dipendono in buona parte da questa doppia relazione carnale. Del resto, dire che è più difficile essere madre e sposa piuttosto che padre e sposo non brilla certo per originalità. Una paziente mi ha confessato una volta, in uno stato di ansia: "Avrei tanta voglia di tradire mio marito, ma non potrei fare una cosa del genere a mio figlio?". A me è sembrata una cosa piuttosto interessante».
Repubblica 24.5.04
Perché vado in analisi
Il processo psicoanalitico: intervista a Jorge Canestri
"Quel che determina il trattamento non è l´obiettivo, impossibile da stabilire, ma il punto di partenza"
Cosa vuol dire "lavoro di trasformazione e qual è lo scopo della terapia analitica? La relazione dello studioso argentino
Non ci sono i pazienti, ma il paziente, lo stesso vale per l'analista. La nostra è la scienza del particolare
Soltanto un ciarlatano può promettere una guarigione. Noi possiamo solo dare la possibilità di cambiare
di LUCIANA SICA
MILANO. Cos'è il processo psicoanalitico? Che vuol dire lavoro di trasformazione? Qual è la finalità della cura analitica? Lo chiediamo a un allievo di Willy e Madeleine Baranger, a uno studioso decisamente versato per le più sottili disquisizioni di natura teorica: è Jorge Canestri, psicoanalista argentino di sessantun anni, in Italia dal '76, l'anno del golpe militare nel suo Paese. Con Jacqueline Amati Mehler e Simona Argentieri, ha scritto La Babele dell´inconscio, un saggio di un certo successo ristampato di recente da Cortina. Il concetto di processo e il lavoro di trasformazione era il titolo della sua relazione al congresso milanese.
Un tema nevralgico per la psicoanalisi, su cui la letteratura è ampia, e i modelli teorici anche molto diversi. Lei lo definisce un "progresso attraverso il cambiamento", e però - quasi paradossalmente - non verso qualcosa ma da qualcosa? Da cosa, dottor Canestri?
«Dal punto in cui si trova il paziente quando chiede una consultazione e comincia un'analisi, vivendo una condizione più o meno acuta di sofferenza. Lo stato iniziale possiamo immaginarlo come uno stato primitivo, e in ogni caso il processo ha inizio da lì, da quel punto in poi: sappiamo da dove si parte, ma la direzione della cura - pensata, è ovvio, in termini di miglioramento - non ha né può avere un obiettivo prestabilito una volta per tutte. Di fatto è "qualcosa" che probabilmente si determinerà strada facendo, secondo quello che i francesi chiamano l'après coup, e cioè la risignificazione - ma solo a posteriori - di quanto è accaduto durante il percorso analitico».
Non a caso lei cita Machado, i due famosi versi dei Cantares: «Caminante no hay camino,/se hace camino al andar»... Ma può davvero bastare l'idea - per quanto suggestiva - del "fare strada", senza nessun riferimento più preciso a un obiettivo finale?
«Si potrebbe dire genericamente che l'obiettivo finale è il raggiungimento di uno stato di salute, ma a quel punto bisognerà almeno chiedersi cosa s'intende per salute, nozione non proprio facilissima da definire. In che consiste, infatti, la salute? Può bastare forse la scomparsa dei sintomi per "star bene"? La stessa ambizione di eliminare radicalmente i tratti psicopatologici è a volte del tutto irrealistica. Pensi ai pazienti gravi, gente che magari a diciassette anni è stata ricoverata in manicomio e ora ne ha cinquanta: in questi casi è molto improbabile, se non impossibile, l'uscita definitiva da uno stato patologico».
In certi casi, è vero, è forse già tanto evitare il suicidio, ma - mi permetta d´insistere - rimane l'impressione che, in analisi, l'obiettivo della cura è da sempre troppo indefinito. Un certo rifiuto del concetto di "malattia" porta anche a respingere la nozione di "guarigione", che pure non andrebbe sbrigativamente liquidata? È un'impressione che a lei sembra totalmente sbagliata?
«In parte sì, perché già Freud si prefissava di trovare una cura utile a certe patologie come l'isteria, "malattie" che non avevano una base organica ma procuravano comunque una grande sofferenza, e che la psichiatria tradizionale non era in grado di affrontare... Il punto è che, strada facendo, Freud capì che la scomparsa isolata del sintomo non implicava una condizione di benessere mentale e che quindi il concetto stesso di guarigione andava profondamente ripensato».
Ci sono autori, come Meltzer, che pensano al trattamento analitico privilegiando l'idea di una riorganizzazione complessiva della personalità. A lei non sembra un'idea, anche questa molto suggestiva, ma in fondo del tutto sfuggente?
«Dipende: è sempre il punto di partenza del singolo paziente a determinare il percorso di un trattamento, o in altre parole l'incidenza che ha sul processo psicoanalitico la patologia che l'analista prende in considerazione. Vede, non ci sono i pazienti, ma il paziente, non esistono gli analisti, ma l'analista, questo è il punto. Le generalizzazioni non stanno in piedi, non reggono proprio, ed è questa la ragione di fondo per cui, da Popper a Grunbaum, la "scientificità" della psicoanalisi è stata messa duramente sotto accusa: perché appunto non si tratta di una scienza del generale, ma dello squisito particolare. Noi possiamo tentare delle nosografie, e infatti distinguiamo tra depressi, nevrotici ossessivi, isterici, psicotici... ma sappiamo anche che queste elencazioni un po' astratte sono molto relative».
Perché?
«Perché non ci sono mai due casi uguali, perché ogni essere umano è un sistema complesso, molto sui generis, e guarda caso sono proprio le neuroscienze a esserci di grande supporto quando descrivono il cervello di ogni soggetto, anche dal punto di vista dei collegamenti nervosi, come qualcosa in tutto simile all´impronta digitale: e cioè qualcosa di unico e irripetibile. Oggi sappiamo anche che il cervello comincia a organizzarsi prestissimo, già in fase prenatale...».
Se questo è vero, si può dire che i fattori ambientali agiscano sull´organizzazione del cervello, e dunque della mente, sin dall´inizio della vita?
«Sì, e purtroppo con una buona dose di casualità. Voglio dire che se si è fortunati, si potrà fare un certo percorso più o meno armonico, ma se invece si è sfortunati quel percorso sarà distorto sin dall'inizio, e nessuno potrà restituire quello che disgraziatamente non si è avuto... Era una pura fantasia della guarigione quella che gli antichi chiamavano la restitutio ad integrum, il ritorno a una sorta di ideale stato originario. Questo purtroppo non è possibile, solo un ciarlatano potrebbe garantire un risultato finale di questo genere...».
Più realisticamente, cos'è che voi analisti potete garantire?
«Più realisticamente, ed è quello che facciamo, possiamo migliorare le condizioni complessive del soggetto, concedergli la possibilità di non ripetere gli stessi meccanismi sbagliati, e dunque di cambiare, ma sempre tenendo conto di come quel soggetto stava prima dell'analisi».
Il problema è che a volte i vostri pazienti non sembrano cambiare affatto. A lei non capita mai di sentire frasette del tipo "Quello sta in analisi da una vita e sta peggio di prima"?
«Mi è capitato molte volte. È così: in analisi si può anche non cambiare, a volte si può addirittura peggiorare, senza dubbio registriamo dei fallimenti terapeutici...».
Ci sarà almeno un modo per scongiurarli, tenendo conto di quello che significa impegnarsi in una cura, tra l'altro molto costosa, come l'analisi?
«Innanzitutto l'indicazione deve essere giusta, nel senso che ci sono pazienti per i quali l'indicazione dell'analisi non è quella corretta. L'analista dovrebbe essere sempre una persona esperta, ma in ogni caso ci sono incontri che funzionano e altri che non funzionano. Capita che il lavoro di un analista - anche molto brillante - con quel particolare paziente non ottenga risultati, questo è possibile, e allora l'analista dovrebbe avere la correttezza di dire: mi dispiace, ma questo lavoro non sta procedendo nel verso giusto, cercherò di orientarla verso un altro collega, o anche verso un'altra terapia...».
Dovrebbe dirlo, ma lo fa davvero? Non è contemplata l'ipotesi dell'analista che s'intestardisce anche quando non vede nessun miglioramento del suo paziente?
«Ammetto che non sia un'ipotesi del tutto astratta. Ma c'è anche il chirurgo estetico che insiste con una serie di lifting che comunque vengono malissimo: cioè pazzi ce ne sono dappertutto, anche nella psicoanalisi».