lunedì 28 giugno 2004

la santa Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti

Corriere della Sera 28.6.04
AUTORI
Il saggio di Peter Godman basato sugli archivi dell’Inquisizione
di ARMANDO TORNO


Correva il 1996. Lo storico ateo neozelandese Peter Godman, professore a Tubinga, riusciva ad accedere agli archivi segreti dell’Inquisizione e dell’Indice dei libri proibiti. Due anni più tardi sarebbero stati ufficialmente aperti, ma allora molti documenti erano ancora inaccessibili. Cominciò così un viaggio tra quelle carte che contenevano quattro secoli di storia europea. Nel 2001 Godman pubblicava in tedesco I segreti dell’inquisizione , ovvero il resoconto di quell’odissea: era il suo primo libro rivolto al grande pubblico. Ora sta uscendo la traduzione italiana. Va detto che anche se sono passati soltanto pochi anni, l’impatto dell’argomento si è attenuato. L’attuale pontefice ha chiesto scusa a nome della Chiesa di quegli antichi errori e proprio in questi giorni il «Comitato del grande Giubileo dell’anno 2000» ha pubblicato gli atti del simposio internazionale dedicato, appunto, a L’inquisizione : un tomo di quasi 800 pagine, curato da Agostino Borromeo, in cui si offre una lettura cattolica e critica del fenomeno (è edito dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, costa euro 60). Di più: le Edizioni dell’Università di Sherbrooke e la Librairie Droz hanno ormai messo a disposizione, sotto la direzione di De Bujanda, gli 11 ponderosi volumi dell’ Index des livres interdits , vale a dire il repertorio completo di quanto è stato proibito dalle varie università rinascimentali sino al 1966.
Ma torniamo a Godman. Il suo libro è scritto con spirito e sagacia, offre pagine non scontate, soprattutto mostra come il meccanismo inquisitoriale fu sovente un’arma a doppio taglio capace anche di ricadere sull’infimo censore ma anche sul papa stesso. Sceglieremo da quelle infinite storie qualcosa legato all’editoria, anche se tutte narrano una tragedia dell’intelligenza. In ogni caso, un giorno qualcuno non ispirato credette che avesse ragione l’imperatore Giustiniano (e il diritto penale associato al suo nome) nel decretare che fossero mozzate le dita a chi era sospettato di aver preso in mano libri proibiti.
Le vicende di Giordano Bruno, l’«inveterato eretico» che meritò il rogo per aver misconosciuto l’autorità del Sant’Uffizio più che per le sue teorie, o di Galileo Galilei, che peccò di «maldestra cortigianeria» suscitando le ire di Urbano VIII e la inevitabile condanna, sono soltanto le conseguenze più note del funzionamento di una macchina burocratica che non rispondeva sempre alla fede. Gli incartamenti visionati da Godman sono popolati da illustri dimenticati, come il consultore Francisco Peña (1540-1612), noto tra l’altro per un suo commento al processo del filosofo bruciato in Campo dei Fiori a Roma, in cui scriveva: «Nessun uomo è padrone della sua vita e del suo corpo, se non per quanto lo consente la legge». E il tutto va unito a pareri, opinioni, forse battute. C’è quella di papa Paolo IV, il fondatore del ricordato Sant’Uffizio regnante tra il 1555 e il 1559, che assicurò all’ambasciatore di Venezia di essere pronto - se necessario - a mandare al rogo anche il proprio padre. Godman coglie molteplici aspetti, soprattutto la messa al bando di celebri autori. È innegabile che ci furono decenni di confusione, o quanto meno di giudizi arbitrari. Si pensi che non mancò nemmeno chi era preposto a «purificare» la prima tradizione cristiana, intervenendo sui testi dei Padri della Chiesa. Sant’Agostino, ad esempio, ebbe alcuni suoi scritti considerati «cripto-luterani» e di Tommaso d’Aquino non poche pagine apprezzate dai calvinisti furono giudicate «spurie». Finì all’Indice Erasmo da Rotterdam con motivazioni che restano poco chiare; più comprensibile è il pollice verso per «l'abominevole eretico» Machiavelli, le cui opere si condannarono insieme con il suo nome nel 1559 e nel 1564 (furono incluse le Istorie fiorentine , che gli erano state commissionate da Clemente VII). Ma non si creda che i papi ne uscissero immuni. Pio II, Enea Silvio Piccolomini, ebbe i suoi Commentarii (di cui c’è un’eccellente edizione Adelphi) espurgati un secolo dopo la sua morte. Del resto, parlando della propria elezione, al capitolo 36 del I libro, Pio II racconta di cardinali corrotti, arroganti, stupidi e di un complotto dei suoi avversari riunitosi nelle latrine del conclave.
Ma quel che più sorprende è a volte il meccanismo incontrollato e bolso che colpiva. Ad esempio Descartes (1596-1650), il nostro Cartesio, fu condannato in blocco. Sia gli scritti latini che quelli francesi furono posti all’Indice «finché non saranno corretti». Eppure le sue Meditationes de prima philosophia si ispiravano agli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, il fondatore dei gesuiti, di cui il filosofo era stato allievo e poi corrispondente. C’è il sospetto che le sue opere furono vietate senza essere state lette, anche perché nel 1664 - 14 anni dopo la sua morte - non si aveva ancora l’idea su come intervenire e nel 1671 furono di nuovo richieste da Roma a Parigi perché pressioni esterne domandavano continuamente di liberare con gli opportuni accorgimenti gli scritti di un pensatore di primo piano.
Leibniz finì anch’egli in questo olimpo nero: ciò non impedì a molti di supporre che durante il suo soggiorno romano gli fosse stata offerta la porpora cardinalizia; Hobbes vi fu messo dal censore Giacomo Caracciolo, che quando lo inserì era ancora un giovanotto di primo pelo e sbagliò il suo nome, confondendolo con il cognome, consigliando infine i lettori di star lontano da tale «Thomas Gobes». Ci finirono gli illuministi, gli enciclopedisti, ci finì Kant con la sua Critica della Ragion pura . L’onore di questo inserimento si deve ad Albertino Bellenghi, che giudicò l’opera «tenebrosa». Questo non impedì qualche anno prima a Voltaire di essere posto all’Indice ma di avere un ammiratore in papa Benedetto XIV: gli inviò due onorificenze pontificie, una benedizione apostolica e una lettera di ringraziamento per il suo Mahommet . Anzi, in Vaticano anche il cardinal Querini lo stimava, tanto che ne tradusse l’ Henriade e il Poème de Fontenoy .
Tra gli infiniti altri esempi, ci soffermiamo brevemente sulla letteratura italiana. Tre autori come Fogazzaro, D’Annunzio e Moravia li ritroviamo puntualmente messi all’Indice, che è in sostanza l’unica cosa che li unisce. D’Annunzio e Moravia fanno già parte di un’epoca che usò questa condanna come la miglior recensione per diffondere le proprie opere. C’è poi chi ci scherzò, da buon cattolico. È il caso di Graham Greene (1904-1991) che si vide condannato dal Sant’Uffizio (era questa istituzione a esercitare la censura, perché nel 1917 l’Indice fu soppresso). Qualcuno aveva persino proposto di riscrivere il finale del suo celebre Il potere e la gloria . Nell’introduzione all’edizione 1971, notava: «Mi chiedo se un qualsiasi stato totalitario mi avrebbe trattato con altrettanta comprensione quando ho rifiutato di rivedere il libro, accampando il pretesto che erano i miei editori ad avere i diritti d’autore. Non c’è stata nessuna condanna pubblica, e la questione è sprofondata in quel pacifico oblio che la Chiesa saggiamente riserva ai problemi importanti». Sei anni prima, incontrando Paolo VI, Greene gli aveva ricordato la condanna. Il papa rispose: «Signor Greene, è indubbio che qualche passo del suo libro possa offendere alcuni cattolici, ma lei non deve farci caso».

Il libro di Peter Godman, «I segreti dell’Inquisizione», è edito da Baldini Castoldi Dalai, pagine 360, 16