giovedì 10 giugno 2004

storia del pensiero:
Antonio Labriola

La Stampa 10.6.04
A CENT’ANNI DALLA MORTE DI UN MAESTRO INASCOLTATO DEL SOCIALISMO
Labriola, la via italiana
per tornare a Marx

Nemico di ogni ortodossia, aderì tardivamente al materialismo storico
ma ne rifiutò sempre una lettura in termini di puro economicismo
di Angelo d’Orsi


SEMBRA che l'ultimo libro tenuto fra la mani, nei giorni antecedenti la morte (5 agosto 1895), da Friedrich Engels, il fedele sodale e collaboratore di Marx, al quale sopravvisse una dozzina d'anni, sia stato un volumetto italiano: In memoria del Manifesto dei Comunisti. Autore, Antonio Labriola: un testo basilare della ricezione del marxismo nella Penisola - anche ai fini dello sviluppo di un movimento socialista - e soprattutto per una sua versione critica e antidogmatica. Fu, quella di Labriola, una mediazione originalissima fra Marx e la «tradizione italiana», specie quella linea dei neohegeliani napoletani, solidi sostenitori dello Stato, anche attraverso l'idea di un Risorgimento che fosse una sorta di nuovo Rinascimento, contro la decadenza dei secoli precedenti.
Marx (e alle sue spalle Hegel, e l'hegelismo, ma soprattutto l'amato teorico del «realismo filosofico», Herbart), piuttosto che il marxismo, fu l'orizzonte principale di Labriola: in una fase storica, negli ultimi decenni dell'800, in cui l'ideologia politica emergente era appunto il marxismo, nelle sue infinite versioni, e il «revisionismo» affilava le armi, per dare base teorica al riformismo socialista, Labriola in sostanza propose una sorta di «ritorno a Marx»; un ritorno non da adoratori dell'idolo, bensì da visitatori critici, pronti a respingere ogni irrigidimento chiesastico, ossia la trasformazione della teoria in dottrina, e ancor più a rifiutare una lettura in chiave di meccanicismo e di economicismo del «materialismo storico». Ebbe ragione Franz Mehring, uno dei primi biografi di Marx ed egli stesso dirigente socialista di primo piano, quando scrisse di lui: «Nel suo spirito, era intimamente affine allo spirito di un Marx e di un Engels. Del tutto indipendente da loro, Labriola aveva avuto lo stesso sviluppo intellettuale. (...) Perfino se esistesse una ortodossia marxista, e non esiste, Labriola non ne sarebbe mai stato un seguace. Questo spirito sottile era uno spirito troppo libero e indipendente per diventarlo».
Mehring piangeva la morte prematura (2 febbraio 1904) di Labriola, il «vero capo spirituale del socialismo italiano». In questo anno centenario numerose sono le celebrazioni. Era ora che, prendendo occasione dalla ricorrenza, si desse infine corpo alle appassionate sollecitazioni di Antonio Gramsci il quale additava appunto in Labriola un punto di riferimento ineludibile tanto per la sua critica alla storia d'Italia, quanto per l'altrettanto necessaria riflessione su una «cultura superiore». Gramsci vedeva giusto: Labriola è degno di stare fra i grandi del pensiero di ogni tempo, e dunque era ora che venisse ricordato con la necessaria forza, e anche, perché no?, con un po' di solennità.
Fra il tardo 800 e la morte, Labriola fu in Italia il più accanito, ma anche il più serio e indipendente frequentatore di testi marx-engelsiani: primo vero traduttore del Manifesto del Partito Comunista, fu in rapporti, oltre che con Engels, con i grandi esponenti del pensiero socialista europeo, da Kautsky a Adler. Di formazione napoletana, dopo aver avviato gli studi all'Abbazia di Montecassino (era nato il 2 luglio 1843 a Sangermano, allora negli Stati Pontifici: l'odierna Cassino), dove ebbe maestri culturalmente aperti, mostrò precoci attitudini filosofiche: dopo un curriculum travagliato, comprendente anche un passaggio nei ranghi della Pubblica Sicurezza, giunse alla cattedra di Filosofia morale e Pedagogia all'Università di Roma, e poi, più congruamente, insegnò anche Filosofia della storia. A Marx era arrivato all'inizio di quei formidabili anni Novanta, quando entrò in corrispondenza con un Engels ormai settantenne.
Fu dunque, il cassinese Labriola, un seguace tardivo del «materialismo storico». I suoi non numerosi scritti di quel decennio sono il maggior contributo della cultura italiana allo sviluppo della concezione materialistica della storia. L'adesione a essa coincise con la scelta politica del socialismo, a cui egli giungeva dal radicalismo e, prima ancora, da posizioni di destra conservatrice, anche a causa dell'influsso esercitato su di lui da due amici di famiglia, i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa, filosofo l'uno, politico e pensatore l'altro. Serie furono le difficoltà che un docente anticonformista come lui, antigovernativo e schierato accanto ai socialisti, incontrò nell'Italia umbertina. Furono gli stessi studenti (borghesi) a contestare Labriola e a disertarne le lezioni, tanto da indurre quell'eccezionale professore a esclamare (in una lettera a Engels): «Il mio numeroso uditorio è scomparso, così come è scomparso il mio dolce sogno di portare la gioventù universitaria a prendere a cuore gli interessi del proletariato».
Non ebbe del resto rapporti facili - per il rigore intellettuale, per la severa moralità, ma anche per la verve polemicissima che non faceva transazioni con i princìpi, e si esprimeva talora in forme al limite dell'eccentricità - con la leadership socialista, di cui respingeva il riformismo moderato, collocato nell'ambito della «revisione» aperta da Eduard Bernstein, ma anche l'inquinamento positivistico, che si traduceva in una tendenza all'inazione, quando non addirittura all'accomodamento opportunistico.
In un mondo che cercava (da Robespierre a Hitler) dei «duci», Labriola fu convinto che «se la democrazia sociale» (scriveva a Turati, con cui ebbe rapporti tempestosi) «esclude i capi, nel senso giacobino della parola, non esclude i maestri. Anzi!». Labriola non fu un capo ma, appunto, un maestro; un maestro che ebbe scarsa fortuna, sia sul piano intellettuale sia su quello politico, nonostante la fascinazione promanante dalla sua personalità, da cui fu colpito il giovane Benedetto Croce, da lui avviato agli studi del marxismo e a un provvisorio avvicinamento al socialismo. Il quale, però, dell'insegnamento di Antonio Labriola, maestro socratico - anche per la sua preferenza per la parola detta sulla parola scritta: fu una tragica ironia della storia la sua morte per un cancro alla gola - non seppe fare tesoro.