venerdì 25 giugno 2004

un caso:
l’ultimo «matto» di Collegno

LA STAMPA 25 Giugno 2004
GENOVESE, LAUREATO IN FILOSOFIA, QUANDO LA LEGGE CANCELLÒ GLI OSPEDALI PSICHIATRICI RIFIUTÒ UNA CASA ALLOGGIO
Addio all’ultimo «matto» di Collegno
Morto a 69 anni: non ha mai voluto lasciare il manicomio
di Marco Neirotti


Io me ne andrò di qui soltanto quando mi avrete restituito i vent’anni di vita che mi avete preso». Insieme con la sofferenza c’è una cascata di dignità nella disfida di C.R. Viveva da vent’anni nel manicomio di Collegno quando - 1994 - si arrivò alle ultime dimissioni dei malati psichiatrici, verso casa, verso parenti, verso comunità e case famiglia. Lui li guardava partire, come si sconta un addio e si augura una speranza. E, intanto, si aggrappava al suo nido: «Non ho chiesto io di venirci, mi ci avete portato e adesso voglio rimanerci. Cambiare idea e metterci fuori è troppo comodo».
Se n’è andato tre giorni fa. Sdraiato in una bara, distrutto dalle 80 sigarette al giorno che gli hanno fatto compagnia di giorno e di notte. L’ultimo superstite di una stagione finita da tempo, da quando la legge 180 promossa da Franco Basaglia trovò applicazione definitiva: signori, si chiude. C.R. - forte e debole - quel «si chiude» non lo voleva sentire. Gli fecero vedere un minialloggio curato e pulito in Grugliasco. Rispose no. La soluzione trovata da uno psicologo che gli voleva bene fu un angolo dell’appartamento che un tempo occupava il prete dell’ospedale. Si rintanò lì con i suoi libri: da San Tommaso a Kant, da Shopenhauer agli utopisti (Campanella, Moro, Bacone), da Freud a Jung. E poi poesia, narrativa, storia.
Questo paladino - suo malgrado - della vecchia istituzione manicomiale nasce nel 1935 a Genova, ultimo di cinque figli. A sei anni assiste ai lamenti dell’agonia della madre. Affronta crisi di panico e poi, perso in sue nebbie, forse per esorcizzare quel dolore, decide che sua madre a tutti gli effetti è la sorella quindicenne. Frequenta il liceo classico, si laurea in filosofia, è un ottimo insegnante. Ha una cattedra in un liceo. Ma all’inizio degli anni ‘70 accade qualcosa.
Si parla di bombe atomiche, fine del mondo. Lui si rifugia in una casa di campagna, si nasconde tra il materasso e la rete per evitare le radiazioni. Rimane lì immobile per giorni, senza mangiare e bere, in attesa dell’Evento. Finché non lo trovano. E’ il primo ricovero coatto. In ospedale incontra il dottor Annibale Crosignani. Insieme discutono del concetto di tempo, che lui filtra attraverso Bergson, Claudel. E’ una bella sfida fra persone di cultura. Tanto da far sì che possa tornare a casa. Si circonda di libri. Un altro delirio lo assale: l’avvelenemanto. E’ il tormento che lo assilla giorno dopo giorno. «Arrivammo a nutrirlo per flebo, perché era ossessionato dal veleno».
A Collegno ci sono in quel periodo duemila malati e lui va e viene per i reparti, incontra i parenti dei ricoverati, dà consigli, scrive lettere a casa per conto terzi, «addirittura faceva i compiti per i figli degli infermieri», ricorda Crosignani. Quest’uomo gentile, in alternanza fra delirio e realtà, sfida l’istituzione: «Voglio vedere la mia cartella clinica, è mio diritto». Trent’anni prima del consenso informato. Perché? «Perché voi medici scrivete solo antitifo, quattro vaccini e via. La voglio completa per quando la troveranno, così come forse si troverà quella di Nietzsche». Controlla ed è rasserenato. Ha voglia di fare. Gli affidano la biblioteca dell’ospedale: «Fu straordinario - dice Crosignani - ci ritrovammo con tutto catalogato, ordinato. Ci telefonava a casa: lei, dottore, ha preso un dizionario di psicologia che appartiene all’istituzione». C.R. è uguale e opposto al Frank Drummer dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che all’ingorgo di sentimenti che non riesce a esprimere reagisce studiando a memoria l’Enciclopedia Britannica. Per lui, invece, il libro viene prima, viene prima della schizofrenia paranoide.
«Di qui me ne vado quando mi restituite quegli anni». L’altro matto, più «matto» di lui, cioé il professor Crosignani, ha una bella pensata: deve tenere un corso agli infermieri sugli effetti collaterali degli psicofarmaci e presenta il professor C.R., gli lascia la parola. Ascoltano, prendono appunti, lui è preciso, dettagliato, quasi commosso. Nessuno specialista in neuropsicofarmacologia può dissertare con tanta dovizia di particolari. Tanto che quando il malato chiede un certificato per la pensione, lo psichiatra replica: «Scrivilo tu. Se è corretto lo firmo». Firma arrivata. «Mi obbligava a ragionare», dice oggi Crosignani.
Ci crederanno in pochi che era un paziente a parlare agli studenti. Ma quel paziente teme la solitudine, guarda l’enorme Certosa svuotarsi. Quando la legge 180 apre i cancelli, Crosignani va sul territorio, fino al primariato alle Molinette. Lui, il filosofo dolce e disponibile che ha paura di essere avvelenato, si sente tradito: «Lei se n’è andato, mi ha lasciato solo». E’ il lavoro, gli spiega, è la legge. «Non ho chiesto io di venire qui. Per vent’anni mi avete cercato i segreti, mi avete scavato le perle nel cuore e poi addio».
E rimane lì, con la sua tenacia, con lo sguardo cupo verso il cibo. Finché un male del corpo e non della mente se lo porta via, il tenente Drogo che vola dal Deserto dei tartari di Buzzati alle «antiche scale» di Tobino, guardiano paziente, memoria di una rivoluzione psichiatrica.
Al camposanto erano pochi: lo psichiatra Crosignasni e un altro specialista, uno psicologo, la sorella, due infermiere, un altro malato, forse lo stesso che gli teneva in ordine la stanza. Uscendo, Crosignani ha detto: «A volte gli domandavo: secondo te che dovrei fare? Ci aiutava a sfuggire alla logica dello specialista, del tapis roulant delle cure. Per noi lui è stato un paziente, un amico, un maestro».