mercoledì 14 luglio 2004

il poeta
Mario Luzi compie novant'anni

La Gazzetta del Mezzogiorno 14.7.04
Incontro con Mario Luzi, decano dei letterati italiani, che quest'anno compie novant'anni
La realtà è nella parola dei poeti
Se sa guardare nel cuore delle cose, ha valore assoluto anche oggi
di Giusi Verbaro


A guardarsi attorno, col rispetto che è dovuto ai paesaggi dell'anima, ci si accorge che sullo sfondo si erge maestosa la cupola di Santa Maria del Fiore e che ai tre lati fanno corona le dolci colline di Firenze: Arcetri, Fiesole e Settignano, con la bellezza dei luoghi senza tempo. Qui abita, in via di Bellariva sul Lungarno, Mario Luzi, il maggiore poeta italiano vivente, che nel prossimo ottobre compirà novant'anni. Lei, artefice e testimone della grande poesia del Novecento, può preconizzare dove va la poesia all'inizio del nuovo millennio. «Non so dare risposte consolanti perché non sono particolarmente ottimista. Anzi, se devo dire la mia con sincerità, mi pare che il secolo, soprattutto nelle sue ultime appendici o pagine poetiche, si presenti non esaltante. Non parlo di momenti alti di poesia che pure ci sono stati, ma parlo dell'andamento di quest'ultima parte del Novecento. Il secolo si è concluso. Numericamente sì, ma noi sappiamo che il passaggio tra un secolo e l'altro è sempre molto graduale. È stato così anche nel passaggio tra il primo e il secondo Novecento, con una graduale, anche se sostanziale differenziazione di impostazione e ideazione del testo letterario». Certo, la definizione o la chiusura di un periodo letterario non è mai un fatto cronologico. Il secolo appena trascorso, poeticamente parlando, mantiene ancora le sue propaggini e il suo orientamento. Ma qual è dunque questo orientamento? «L'orientamento che io rinnego e condanno, perché nemico di quelle esperienze in cui viene messo in primo piano lo spirito, è il minimalismo. Si chiami così o no, si riconosca per questo o no. E questo ripiegare della poesia su piccole constatazioni esistenziali, rimandando tutto. Una specie di deriva nichilista che tende a rimuovere o evitare grandi progetti sull'uomo, le grandi domande capitali, quelle che danno senso alla vita dell'uomo, al suo futuro e al suo stesso esistere e che la poesia, assumendo a proprie ragioni, riconosce prioritarie per il suo stesso esistere». Ritiene, dunque, che la poesia italiana nell'ultima parte del secolo abbia perduto la sua funzione «ontologica» e quei valori che lei hai sempre rivendicato come capacità di riconoscimento e ricostruzione dell'uomo e dei suoi equilibri? «In buona parte sì: naturalmente tali valori, tali tensioni, possono in qualcuno essere ancora sottintesi, ma in altri sono, diciamo, del tutto accantonati o messi in discussione, assieme a quella che è la cifra sacrale della poesia. D'altronde, è tutta l'umanità che oggi sta precipitando nella sua autodenigrazione». È dunque l'interesse ai grandi temi dell'esistenza che manca alla poesia oppure manca la forza per esprimerli? «L'una e l'altra cosa. L'orizzonte ristretto tende al minimo e si fa forte della sua minimanza. Per me questo clima è un epilogo. Non ha nessun carattere di inizio o di promessa». A nostro parziale conforto non vorrebbe fare un nome di poeta che faccia eccezione al clima «minimalista» e rinunciatario e che si apra ad orizzonti diversi? «Certo, potrei farne più di uno. Ma cito Cesare Viviani che stimo molto. Viviani mi pare abbia in sé qualcosa di diverso. Non a caso pone nella sua poesia i grandi problemi con rara forza testimoniale. È tutto in chiave laica e religiosa assieme. Ecco un poeta che vive la poesia e la vive non in astratto. Ciò non vuol dire che in questo fine di secolo non ci siano poeti di piacevole lettura. Guardo soprattutto ai giovani perché è a quella generazione che bisogna fare riferimento. Guardare con speranza al futuro. È questo il quadro. Ma bisogna aggiungere che momenti come questo che noi stiamo vivendo si ripetono spesso nella storia. Sono momenti di interlocuzione. Poi succede che qualcuno arriva e sconvolge tutto il clima. E riapre prospettive. Così come, a inizio Novecento, fecero D'Annunzio e Pascoli». Ma c'è qualcosa, un barlume, un indizio, che oggi vede e che le pare foriero di aperture, di novità? «Mi pare, intanto, che da un po' di tempo si assista a un nuovo desiderio di comunicabilità tra gli artisti. Quasi un tentativo a uscire dagli isolamenti, dalle specificità che il Novecento ha creato: notiamo musicisti, pittori che si accostano ai poeti. E viceversa, quasi a cercare un'intesa, un linguaggio comune». Il linguaggio, appunto. Pensa che al passaggio del millennio qualcosa vada mutando nel rapporto tra la parola e la «cosa»? Quale ritiene possa essere il dinamismo tra la realtà oggettiva e la realtà mutuata dalla poesia? «Riguardo al linguaggio, io vedo una tendenza possibile alla semplificazione. Non alla semplificazione nel senso di riduzione del contenuto, ma come abbandonare quel più di ornamentale, retorico, decorativo che la poesia si è trascinata dietro per tutto il secolo. È stato un po' un carattere, mi pare, del Novecento. In pochi hanno sacrificato tutto il resto, ma non il nucleo per agganciare un volo alto sulle cose del mondo. Aspetto qualcuno che dia un colpo d'ala. Ma, per farlo, bisogna che ci sia una motivazione forte. Per ora non trovo motivazioni forti. Non ne avverto il presagio. Quel che comincio a notare e con vero piacere è, come dicevo, la tendenza alla semplicità». Può essere questa tendenza alla semplicità anche la cifra che può restituire vitalità alla poesia e capacità di ricostruire innanzitutto lo spirito dell'uomo? «Sì, in parte. Ma qui ci vuole appunto l'uomo. Per ora, l'unico segno di riconciliazione tra la parola e l'esistere che io vedo è appunto la tendenza all'abbandono delle circonlocuzioni. È un elemento, ma non può essere il solo». Da quanto mi dice è chiaro che tutto parte e procede dagli eccessi di certe avanguardie, i cui epigoni hanno a lungo rappresentato, e ancora oggi rappresentano, un certo modo di fare poesia. Ed è altrettanto chiaro che si può venire fuori da ciò proprio cercando le ragioni stesse del poetare. Ovvero rinnegando i laboratori, gli alambicchi semiotici di una poesia «linguistica» e modernista che si nega alla trasparenza della lingua. «Sì, rifiutando il puro verbalismo. Il verbalismo superfluo che si realizza in un clima spesso ideologico e che rischia di rendere infecondo il terreno della poesia». In questa sua ottica delle cose, mi permetto di chiederle come va considerato il valore precipuo che oggi si dà ad alcune linee regionali enfatizzate fino a essere elette ad altezza di «canone del Novecento»? «Tutto può essere dichiarato e tutto può essere opinabile. Per intanto, però, lascerei in alto nella sua nicchia di valore Vittorio Sereni, che niente ha da spartire con gli epigonismi in suo nome. Sereni è stato un innovatore del linguaggio con una sua grande forza espressiva e una grande carica morale. Non la stessa cosa si può dire di coloro che si sono chiusi nei loro minimalismi». Ma perdoni la provocazione: non è possibile che sia l'ironia oggi il mezzo più sicuro, e meno dolorosamente personalizzato, per rappresentare le cose e il loro difficile svolgersi? «La poesia deve trovare una liturgia, una salvezza, un'etica. Certo, anche l'ironia può essere etica del vivere e dello scrivere, se l'ironia sa diventare linguaggio mimetico e rappresentativo. Ma la realtà, per i poeti, non è quella che viene indicata già come tale. La realtà la scopre proprio il poeta. E in generale la sua realtà non coincide affatto con ciò che viene considerato reale. Il reale della definizione sociologica o comune, insomma. Cosa è reale lo dice il poeta. Che cosa è stato reale nel Novecento non lo ha detto la filosofia che era allo sbando. L'ha detto Rebora. L'ha detto Eliot. La parola dei poeti ha valore assoluto anche oggi, se sa guardare nel cuore delle cose».