il manifesto - 28 Ottobre 2004 CULTURA
IL RITMO DEI SENSI/INTERVISTA
Ogni poesia sta alla lingua come l'onda al mare
I suoni di Adonis
INCONTRO CON IL POETA SIRIANO.
«Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, acqua. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre di più della complessa forza della lingua araba, e mi chiedo se ne siamo degni»
WASIM DAHMASH
A volte, quando le parole si affiancano le une alle altre in modo che i significati, seppure parzialmente, si sovrappongono, si determina un passaggio di senso fino a stabilire una relazione d'identità nel punto estremo in cui quei significati arrivano a convergere. In questi casi le parole si sfiorano, e in qualche modo si costituscono in un rapporto sinonimico tale da evocare quel fenomeno chiamato «coscienza mitologica», una logica preesistente a quella razionale e vigente ancora oggi se tra l'oggetto e il suo nome si stabilisce un legame così stretto da renderli non più scindibili: succede, per esempio, quando abbiamo paura di evocare una malattia pronunciandone il nome e, evitando di nominarla, la esorcizziamo. Così, gli oggetti verbali sarebbero legati strettamente alla realtà, resa concreta attraverso la parola. Chi, come noi al giorno d'oggi, non possiede la logica intrinseca al mito, è indotto a tradurre quegli «oggetti verbali» in immagini metaforiche e simboliche invece di imboccare le strade che ci permettono di recuperare quell'antica unità, facendone riemergere il retaggio di sensi. In una forma moderna, anche se non raggiunge l'asciuttezza che esigerebbero questi tempi in cui vige l'estetica della «postmoderità», le parole che formano i versi di Adonis, immerse come sono in una antica cultura, araba e non solo, vorrebbero essere legate strettamente alla realtà, come al tempo in cui le «parole» ancora non erano separate dalle «cose». Così recita, nell'ottima traduzione di Fawzi AL Delmi, una poesia di Adonis titolata
Albero d'Oriente e inclusa nella raccolta appena uscita da Mondadori,
Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte:
«Divenni lo specchio
riflettei ogni cosa
mutai nel tuo fuoco il rito dell'acqua e delle piante
mutai forma alla voce e al richiamo.
Cominciai a vederti duplice:
tu e queste perle che nuotano nei miei occhi.
Io e l'acqua diventammo amanti:
nasco in nome dell'acqua
e in me si genera l'acqua.
Io e l'acqua diventammo gemelli».
Lo sdoppiamento, lo specchio, gli occhi che si riflettono nell'acqua dove si rifrange anche l'io lirico in dialogo con la sua complementarietà, sono ricorrenti nella poesia mistica araba: quella dei sufi, di Hallag, di Ibn Arabi e Ibn al-Farid. È la tensione verso l'unità il tema dominante, dove lo specchio ha le stesse capacità riflettenti dell'acqua. Gli occhi, in uno dei loro significati, alludono alla profondità che risiede nella stessa lingua araba. In arabo
'ayn è il nome della lettera dal suono più profondo, posteriore, faringale, dell'alfabeto;
'ayn significa nello stesso tempo «occhio», «fonte, sorgente» , «sostanza, essenza» e ancora, «stesso, medesimo». Lo specchio ricrea e riflette la stessa immagine. Le molteplici associazioni stabilite dai mistici musulmani a partire da «occhio», «fonte», «essenza», risiedono in questo semplice dato linguistico. «Occhio» e «fonte», in arabo si trovano associati dal momento che entrambi i rispettivi referenti sono situati al limite tra l'interno e l'esterno del corpo e della terra, con una connotazione di tramite verso la profondità.
'Ayn al-haqiqa, per il mistico è «la verita assoluta» e
'ayn al-yaqin è «la certezza assoluta». Da qui, forse, e sulla linea di una eredità culturale difficile da dipanare, gli «occhi» e l'«acqua» sono accostati anche da Adonis; e più in generale, i rapporti che stabilisce tra le parole dei suo versi richiamano, in una veste rinnovata, quelle associazioni.
Nella lirica di Adonis l'eredità culturale agisce in un dinamismo continuo: non è qualcosa che si trova in un certo punto del passato, piuttosto è il tempo che si condensa, pensato come un'unità. E nel rivisitare la storia, Adonis concilia l'esigenza di riprendere possesso di quel patrimonio delineandolo con i mezzi che la modernità ha impresso, livellandolo, alle forme della poesia. Come il mistico sufi nel suo cammino verso l'«unione», il poeta è in viaggio, in scoperta continua: di sé, dell'altro, della realtà, dell'ignoto, di un altrove che riecheggia, inaspettatamente, con la voce di una memoria viva, che è al tempo stesso irrinunciabile frammento d'identità. Piuttosto che un obiettivo da raggiungere, è il cammino da seguire che si rinnova perennemente, sintomo di un'aspirazione inestinguibile, come avviene a uno degli
alter ego di Adonis, Mihyar, personaggio di un lungo componimento ormai lontano nel tempo (Agani Mihyar al-dimashqi «I canti di Mihyar il damasceno», Beirut 1961).
In un suo libro titolato «Sufismo e surrealismo» (
al-Sufiyya wa l-suriyaliyya, Beirut 1992) poi ripreso in un breve saggio tradotto all'interno della raccolta
La preghiera e la spada (Guanda, Parma 2002) Adonis riconosce ai surrealisti una linea di pensiero comune a quella seguita dai mistici musulmani. Tra demolizione e ricostruzione, atti di libertà e di purificazione del pensiero e della lingua, nel suo ruolo di poeta si prefigge lo scopo di raggiungere la conoscenza dell'«io» e dell'ignoto, la sua unità nascosta, con la coscienza sia di doversi liberare totalmente delle «dimore» poetiche istituite socialmente, sia di dovere perseguire la purezza nell'ignoto della lingua e del mondo.
In questo senso, il poeta è un visionario, mistico, sufi, ma soprattutto è un rivoluzionario: «Ogni poeta è un rivoluzionario e un gran demolitore di ciò che è noto, perché è un grande creatore di ciò che noto non è» (
Zaman al-shi'r , «Il tempo della poesia», Beirut 1978).
Con Adonis, più che mai si ripropone quindi l'interrogativo sull'enigma dello scaturire del pensiero dall'ascolto, o dalla lettura, delle parole. Nel leggere la sua poesia, ci avviciniamo a quella tensione massima che si risolve nella significazione della parola. Le radici nel passato, nella sua poetica, sono ancorate al presente, come lo stesso Adonis mi diceva in una conversazione che ha preceduto il nostro incontro recente, dato che la cultura è «un patrimonio vivo in noi, la cui comunicabilità è continua: ciò che ha la capacità di continuare, è parte di noi».
Quale nesso le sembra di potere stabilire tra la formazione della sua infanzia, in un ambiente contadino, e la mediazione fortemente intellettuale che emerge dai suoi versi?
Non è facile per un poeta essere il critico di se stesso. La sua domanda merita un chiarimento: nell'ambiente in cui sono cresciuto prevaleva una cultura che operava una cesura tra Dio e il mondo, tra Dio, l'uomo e la natura. In questa cultura, Dio è un'astrazione. Ma fin dall'infanzia avevo la tendenza a umanizzarlo, a vederlo espresso in tutte le cose e quindi nella natura. Avvertivo che l'esistenza, e ciò che c'è oltre, è un'unità. È subentrata poi la conoscenza del sufismo. Se nella mia poesia sono presenti gli elementi della natura, questo si deve non solo a quella prima spinta a contraddire l'insegnamento religioso, ma anche al fatto di essere nato nel grembo della natura. Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, come acqua, parte di un'onda. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva.
Vorrei ci fermassimo, un momento, sulla percezione degli elementi naturali, non mediati da concetti che intervengono a posteriori. Intanto, la percezione dell'ambiente circostante passa attraverso i propri genitori...
Mio padre leggeva e scriveva poesia: è stato lui, che faceva il contadino e lavorava la terra, a insegnarmela e a insegnarmi a leggere e scrivere. Nel nostro villaggio non c'era una scuola come la intendiamo oggi. Si imparava dovunque: le lezioni, il «kuttab», si svolgevano sotto un albero. E sotto quell'albero io studiavo insieme agli altri bambini. Mio padre è stato il mediatore, per così dire, dell'aspetto intellettuale; da lui ho appreso i grandi autori arabi della classicità e della poesia sufica. A mia madre, che non sapeva né leggere né scrivere, devo il rapporto con la natura, anche lei ne faceva parte. Ma, per la verità, entrambi i miei genitori hanno contribuito a dare forza alla mia percezione dei fenomeni naturali. Fin da piccolo mi ritrovai a seminare, piantare, mietere e vivere nella terra. Prima dei tredici anni, quando andai in città, non avevo mai visto un cinema, né una radio o una macchina. Da noi non c'era nemmeno la corrente elettrica.
Nei suoi versi funziona una sorta di «surrealismo»: è un argomento su cui lei ha indagato a lungo dedicandogli anche un saggio titolato «al-Sufiyya wa l-surialiyya» (Sufismo e surrealismo). Ce ne vuole parlare?
Il legame con la natura mi ha insegnato a ricercare l'«oltre» e a interrogarmi continuamente. È un atteggiamento che è stato rafforzato, in me, dal sufismo, inteso come dottrina mistica islamica. La realtà, nella concezione sufica del mondo, non è solo quella percepita attraverso i sensi, ma consiste in ciò che c'è oltre. Questa idea, che è sempre presente nel mio pensiero, si è riproposta quando ho conosciuto l'opera dei surrealisti. Qui ho ritrovato il sufismo, privo dell'aspetto religioso e al di fuori dell'ambito della fede: l'ho ritrovato nella forma di una particolare concezione del mondo. Il sufismo, anche se spesso viene interpretato come rinuncia dei sensi, è invece un'esperienza sensoriale con cui si percepiscono, nella mente, l'universo, l'uomo, i fiori, i fiumi. Mette in opera una «naturalizzazione» di Dio, lo vede non al di fuori del mondo, ma in ogni cosa. Corrisponde a ciò che Ibn Arabi chiamava «wahdat al-wugud» (l'unità dell'essere). Coincide con quanto Hallag - il grande poeta sufi di Baghdad che fu ucciso per le sue idee - nominava come «al-hulul» (incarnazione) nel senso che Dio prende dimora, sia nell'uomo, sia nella natura. Il sufismo ricerca l'ignoto a partire dalla natura stessa, cioè a partire da ciò che è noto, contrariamente a quanto vorrebbe la lettura più comune, che è quella della tradizione religiosa, la più superficiale. Nel corso del tempo i giurisperiti musulmani hanno mutilato il sufismo, accusandolo di miscredenza e di eresia. Invece di discuterne per conoscerlo, l'hanno posto fuori della religione e dunque eliminato. Nel mio libro discuto quindi del rapporto tra sufismo e surrealismo, dandone una lettura che si può definire, semplificandola molto, una sorta di «surrealismo naturale», di contro all'aspetto intellettuale che prevale nel surrealismo. Un surrealista, arabo, non può non essere sufi.
Secondo questa lettura, come descriverebbe i tratti del sufismo presenti nella sua poesia?
Sono essenzialmente cinque: l'universo è un'unità indivisibile che comprende il noto e l'ignoto. Quest'ultima è la parte più importante, ma bisogna comprenderle entrambe. La conoscenza nasce dall'ignoto ed è ricerca continua e interrogazione infinita. La verità, inoltre, è una scoperta e non discende per insegnamento come indica invece la religione: non è nascosta all'uomo, gli sta davanti. E ancora, l'identità non è data a priori e definitivamente: tocca a ognuno di noi inventare la propria. Per finire, l'universo è un infinito che si crea continuamente e non è creato una volta per tutte e per sempre.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti della poesia classica, per esempio in rapporto al ritmo?
Un poeta deve conoscere la storia estetica della propria lingua, perciò il poeta arabo deve conoscere a fondo la lingua araba. Il mio rapporto con la classicità araba si delinea da una parte in una rilettura del passato e dall'altra nella ricerca di ciò che non si conosce, nel tentativo di aggiungere qualcosa: è forse il contrario dell'imitazione. La mia poesia è araba, lo è in ogni suo granello, ma non vuole essere paragonata a quella di nessun altro poeta arabo. L'acqua nel mare crea le onde. La lingua araba è il mare, la produzione poetica è l'ondeggiare dell'acqua nel mare. Non è dato al poeta ripetere nessuna onda precedente. Il rapporto del poeta è con l'acqua e non col movimento delle onde. Con quell'acqua deve creare nuove onde, tutte sue. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre meglio di quanto sia complessa la forza della mia lingua e se penso alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi, mi chiedo se siamo degni di un tale strumento. La poesia è un linguaggio dei sensi, dunque il mio rapporto con il ritmo è essenziale. Non quello prodotto dalla rima o dalla metrica, ma quello che si genera dalle relazioni tra un vocabolo e l'altro, tra una lettera e l'altra, tra un suono e l'altro. Queste relazioni producono frasi diverse, lontane dall'ordinamento classico.
Sono relazioni che si possono ricreare in un testo tradotto?
Cercherò di rispondere evitando di restare intrappolato nella «impasse» secondo la quale la traduzione poetica è «impossibile». Parliamo, piuttosto, di acquisti e di perdite. Se non è possibile trasportare una lingua, con le proprie strutture e le proprie particolarità in un'altra lingua, la traduzione non può che essere una «destrutturazione» del testo che va «ristrutturato» nella lingua d'arrivo. Facendo questo, il testo poetico perde necessariamente l'elemento linguistico del ritmo originale. Il traduttore quindi deve trovare un ritmo equivalente nella lingua d'arrivo, ma per quanto bravo possa essere, qualcosa va sempre perduto.
Lei accennava prima alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi...
La cultura, e quindi la letteratura, nelle società arabe non fa parte organica della vita sociale. Non è il pane quotidiano. La cultura è spesso ornamento della politica. Esiste però in molti la volontà di trasformarla in ricerca, non dipendente dal potere politico e religioso.