giovedì 21 ottobre 2004

dal VI secolo ac?
le basi della storia del pensiero cinese

il manifesto 20.10.04
Il Grande Tutto in cinquemila parole
Un rinnovato confronto con un grande classico del pensiero cinese, uno dei libri più letti e amati nel mondo, Laozi. Genesi del Daodejing, a cura di Attilio Andreini per Einaudi
AMINA CRISMA

«Senza nome (wu ming) è dei Diecimila esseri il cominciamento / Ha nome (you ming) quel che dei Diecimila esseri è la Madre». E' la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di audaci accostamenti di contrari e proteso a misurarsi con l'indicibile, a costituire la cifra stilistica del Laozi, o Daodejing («Classico della Via e della Virtù», o «Classico della Via e della sua Potenza»), e a fare di questo testo del pensiero cinese uno dei libri più letti e amati. Secondo solo alla Bibbia per numero di traduzioni, ha avuto nel corso del tempo versioni nelle lingue più svariate e su di esso si è esercitata un'imponente esegesi; e tuttavia, nonostante la molteplicità di letture e interpretazioni a cui ha dato luogo, sembra resistere alla presa, come se quell'insondabile fondo a cui sovente allude - il «mistero oltre il mistero», «l'arcano degli arcani», segreta unità del Grande Tutto - si irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi una sorta di perdurante inafferrabilità. Non meno enigmatica e fascinosa è la figura dell'autore a cui la tradizione lo attribuisce, Laozi («il Vecchio Maestro»), indicato dalla leggenda come l'iniziatore del taoismo. Di Laozi, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo a.C., in realtà non si sa nulla di certo, neppure se sia veramente esistito. Una favola vuole che abbia composto l'opera prima di sparire misteriosamente, andandosene a Occidente; e questa storia conoscerà una rinnovata fortuna con l'introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell'era volgare, allorché si diffonderà la tendenza a presentare il Buddha come Laozi reincarnato.
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Il Dao (la Via), da cui prende il nome la cosiddetta scuola taoista (daojia), vocabolo chiave del Laozi, è un termine definibile se non in via negationis («Incerta cosa, e vaga, è la Via! ...»). Già presente nella lingua cinese, con il significato di «via», «metodo», «procedimento», «regola di vita», qui invece assume una peculiare accezione che si può delineare ricorrendo alle parole di Isabelle Robinet: il Dao si configura come «'Verità ultima', una, trascendente, invisibile, impercettibile, situata al di là di qualsiasi rapporto di differenziazione, di qualsiasi giudizio e di qualsiasi antagonismo», «fonte di qualsiasi vita, estensiva e universale». Il Dao evoca la totalità come realtà unitaria, come eterna processualità che si dispiega nella dialettica di «non esserci» (wu) ed «esserci» (you), di latente e manifesto - una relazione che sarà al centro, nel III secolo d.C., della riflessione della cosiddetta «scuola del mistero» (xuanxue) e che nel commento al Laozi di Wang Bi (226-249) troverà una delle sue più significative formulazioni. Il suo grembo inesauribilmente fecondo è il vuoto - invisibile fondo d'immanenza da cui promana la molteplicità visibile; la sua potenza («virtù», de) sta nel «non agire» (wu wei), nella sovrana efficacia della spontaneità del divenire: «il Dao ha la sua costanza nel non agire, eppure per suo tramite tutto si compie».
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E' dunque un movimento di ritorno verso l'origine, di ricongiunzione alla fertile sorgente dell'unità del Tutto che il libro configura: un percorso a ritroso, per «succhiare il latte al seno della Madre», che si attua nel polemico capovolgimento di quelli che appaiono come i valori umani a cui s'ispira l'educazione confuciana: «Praticare lo studio è sempre più accrescersi, praticare il Dao è sempre più decrescere». Lasciandosi alle spalle ogni artificiosa imposizione derivante dalla civiltà e dalla cultura, si tratta di far ritorno a una semplicità analoga a quella del legno grezzo, di ritrovare l'intatta energia vitale (qi) che pervade la mollezza del corpo del neonato. E come il ritorno costituisce il movimento stesso del Dao, così la debolezza rappresenta la paradossale modalità in cui si esprime la sua incomprimibile forza - un paradosso che nell'opera è sovente illustrato con l'immagine dell'acqua, della quale «nulla al mondo è più cedevole» e, tuttavia, «niente la supera nell'intaccare ciò che è duro e forte».
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Propone un rinnovato confronto con questo grande classico, impervio quanto seducente, l'edizione del Laozi a cura di Attilio Andreini che appare ora da Einaudi (Laozi. Genesi del Daodejing, pp. XLII-253, € 22,50) -, e che si connota innanzitutto per una precisa scelta stilistica, volta a restituire l'intensa qualità poetica del testo e la forza espressiva del suo arduo linguaggio. Questa non è peraltro l'unica sorpresa per il lettore che abbia familiarità con le traduzioni correnti, poiché quest'edizione non si attiene all'ordinamento convenzionale del testo, ma a quello della più antica redazione completa del Laozi finora in nostro possesso, il manoscritto su seta rinvenuto a Mawangdui nel 1973, e risalente circa al 200 a.C., nel quale le due sezioni del libro (Daojing, Classico della Via, e Dejing, Classico della Virtù) sono invertite rispetto al textus receptus. Essa assume inoltre a riferimento un'ancor più antica stesura parziale dell'opera, il cosiddetto Laozi di Guodian, manoscritto su bambù scoperto nel `93 e risalente al 350-300 a.C. - e nell'imponente apparato critico di corredo, assumono un ruolo di rilievo gli ultimi sviluppi della cospicua esegesi - cinese e occidentale - su questo importante ritrovamento.
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In questa prospettiva, che mette a frutto le acquisizioni più recenti dell'indagine filologica, si viene radicalmente a riformulare la percezione stessa del testo: si ha a che fare qui con il processo del suo farsi, con quella fluida gestazione che lo configurava come opera aperta, circolante in più redazioni e varianti, ben prima che il filtro delle biblioteche imperiali e la codificazione del II e III secolo d.C. intervenissero a fissarne la versione canonica, tramandata dalla tradizione successiva.
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Come ricorda il saggio introduttivo di Maurizio Scarpari, il problema della formazione del Laozi si inscrive nella più ampia questione dello e concerne lo statuto della testualità nella Cina pre-imperiale, ossia in quella fertile epoca di libero dibattito, dal V al III secolo a.C., che costituì l'autentica età assiale del Paese di Mezzo, e alla quale pose fine la fondazione (221 a.C.) dell'impero centralizzato. Rispetto alla cultura dell'epoca aspramente conflittuale quanto creativa che l'aveva preceduto, l'impero degli Han (206 a.C.-220 d.C.) si rappresentò come erede, ma in un certo senso ne fu anche l'esecutore testamentario. Si raccolse e si organizzò entro il nuovo quadro istituzionale il lascito intellettuale del passato: collazionando sparsi e disparati insiemi di listarelle di bambù legate da fragili lacci di corda si costruirono i libri in quanto texti recepti, e, parallelamente, si procedette anche a costruire la classificazione delle «scuole filosofiche». Pressoché esclusivamente attraverso tale mediazione, fino a poco tempo fa, potevamo metterci in contatto con il pensiero antico, e che cosa tale mediazione avesse comportato - che cosa in essa fosse andato rimaneggiato, perduto o dimenticato - poteva essere solo argomento di congettura.
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Ma il coperchio apposto in età imperiale al retaggio dell'epoca degli Stati Combattenti si va ora sollevando, per effetto delle scoperte, di dirompente portata, degli ultimi anni, e delle quali si è ancora lontani dall'aver tratto tutte le implicazioni. Dai manoscritti su seta emersi negli anni `70 dalle tombe di Mawangdui nello Hunan alle centinaia di listarelle di bambù dissepolte a Guodian nello Hubei nel '93 e sulle quali ancora si sta lavorando - e già molto si va disputando -, i reperti ci restituiscono un universo di scritti magmatico e in larga misura sconosciuto, in cui compaiono, insieme a sorprendenti versioni di testi già noti, opere di cui s'era persa ogni traccia e memoria, come inedite cosmogonie - Taiyi sheng shui, «Il Supremo Uno genera l'acqua» - e stupendi frammenti. Quest'universo è ancora in buona parte da decifrare e interpretare, ma una cosa risulta già chiara: esso appare ben poco corrispondente alle ordinate tassonomie in cui l'hanno tradotto e ridotto i solerti letterati dell'età imperiale. Fra le classificazioni da loro operate e la proteiforme congerie di scritti che gli ultimi ritrovamenti ci rivelano si disegna uno iato cospicuo, che induce a revocare in dubbio molte delle consolidate certezze su cui riposavano finora le interpretazioni invalse del pensiero antico.
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Sono le nozioni stesse di «libro» e di «scuola» a divenire ora oggetto di una radicale problematizzazione: i «libri» appaiono fluidi aggregati dai labili confini, le «scuole» appaiono etichette appiccicate a posteriori a realtà non univoche né chiaramente delimitabili, ma plurali, multiformi, intrecciate. E' probabile che dovremo presto disfarci di molti degli schemi che ci sono consueti, di molte convenzionali etichettature. Una prospettiva che potrà apparire iconoclasta a chi è affezionato alle abituali catalogazioni, ma se si provasse a farne a meno, si potrebbe anche scoprire che la sua aura solenne non ne risulterebbe affatto intaccata, e forse anzi un diverso ascolto si offrirebbe al suo imponente, suggestivo, maestoso proferire.