venerdì 8 ottobre 2004

La fabbrica dei bisogni

segnalazione di Roberto Altamura

La fabbrica dei bisogni
Intervista a Pietro Barcellona, filosofo del diritto e ospite del seminario di "Alternative"(rivista bimestrale PRC )
di TONINO BUCCI

«Non possiamo nemmeno immaginare un diverso modello di produzione se non mettiamo in discussione le "necessità" indotte dalla società capitalistica»

Un'idea molto diffusa è che l'economia sia una scienza autosufficiente, fondata su se stessa e in grado di generare autonomamente l'intera formazione sociale. Che l'economico decida di tutto è un pregiudizio duro da smontare, lo dimostrano anni di studi e di pubblicazioni di Pietro Barcellona, filosofo del diritto e tra gli ospiti del seminario "La critica della politica oggi". Non tutta la società - si potrebbe sintetizzare - può essere ridotta a economia, a "ragione strumentale", a calcolo di mezzi: C'è un residuo di attività simbolica, culturale, politica che sfugge al "funzionalismo", al criterio dell'utile, alla volontà di dominio totale della natura, alla producibilità e manipolabilità di ogni cosa. E' un agire non-economico che istituisce valori e finalità, ciò che gli individui di una società possono o non possono fare.

Come può la politica riguadagnare terreno rispetto al primato dell'economia? Si è rovesciato il rapporto tra economia e società. La nostra formazione sociale si è spappolata in individui atomizzati. E' un sistema-mondo che ha abolito le mediazioni sociali, le culture, i radicamenti territoriali: l'economia ha prodotto una forma di società a propria immagine e somiglianza, abitata da individui che si autorappresentano come produttori e consumatori. La critica all'economia quindi oggi dovrebbe essere una critica antropologica, magari recuperando la riflessione del primo Marx. Il neoliberismo, oggi, ha prodotto un immaginario in cui ciascuno di noi si pensa, in fondo, come autarchico. La stessa, tanto celebrata, società della conoscenza e della globalizzazione, nella quale tutti dovrebbero connettersi con tutti attraverso Internet, è una società dove le relazioni sono precipitate. E se non c'è uno spazio sociale non ci può essere uno spazio politico. Il luogo dove si produce il "determinante" del sociale è ormai l'economico. Ma la critica dell'economia non si può fare più. Dovremmo avere almeno un'altra idea di economia, ma non possiamo averla se non abbiamo, a sua volta, un'idea di società.

Ma lo spazio simbolico in cui possiamo immaginarci una società diversa ha una sua autonomia dai processi economici? Non credo che regga più la vecchia idea della divisione tra struttura e sovrastruttura. Ho una visione più gramsciana: nella formazione sociale c'è sì una struttura materiale, ma questa compenetra anche la cultura e l'immaginario. Ridurre la materia vivente a fatto economico è stata un'operazione politica e culturale che da sempre ha bloccato qualsiasi progetto di cambiamento. Questo non significa ricadere nel vecchio spiritualismo, al contrario si tratta di riconoscere la rilevanza materiale della vita.

Come la mettiamo con la teoria secondo cui dalla società capitalistica si esce con una trasformazione nell'economico e nei rapporti sociali di produzione? E' un vecchio tema di discussione tra me e Riccardo Bellofiore. Ritengo quella teoria un residuo del determinismo, dell'evoluzionismo, in sintonia con la visione tecnico-produttiva dell'economia: Ma le cose non vanno così. Come diceva il vecchio Franco Rodano, troppo presto dimenticato, le transizioni storiche non sono evoluzioni, sono piuttosto dei salti, delle discontinuità. Avvengono quando le motivazioni - «causazioni ideali», le chiamava Rodano - che rendono possibile l'abitare in un certo mondo, non funzionano più. In questi vuoti di motivazioni non è inscritta alcuna necessità di transizione. Non era scritto da nessuna parte che dal feudalesimo si dovesse passare al capitalismo. Come non è scritto che dal capitalismo si passi necessariamente a un mondo migliore. Non possiamo sapere quello che verrà dopo.

Possiamo immaginare una prassi di diversa natura, un «fare creativo». E come può la politica entrare in rapporto con un agire "inutile"? Il fare creativo non è determinato dall'utile, ma è istitutivo del proprio sguardo sul mondo, del proprio modo di rappresentarsi la realtà. Amare, coltivare fiori, studiare musica sono esempi da fare creativo, persino un lavoro d'impresa può esserlo se sottratto alla logica quantitativa. Se io mi rappresento sempre in un certo modo, impedisco a me stesso di poter diventare altro, di cambiare attività, ruoli, destinazione. Bisognerebbe fare una fenomenologia della vita quotidiana, dovremmo criticare il modo di ascoltare la televisione, di usare il cellulare, come si va al cinema o al mare, come si gode del tempo libero. Se non si fa una critica del quotidiano per produrre nuovi significati, si entra in un circolo vizioso. Anche un partito come Rifondazione rischia di incappare nella contraddizione di tutelare, da un lato, il lavoro e di criticare, dall'altro, la politica economica del governo perché non produce abbastanza crescita. Ma se favoriamo l'economia, aumenta la produttività e quindi c'è meno lavoro. Bisogna avere il coraggio di affermare che il proprio modello di sviluppo non è l'industrialismo, la crescita quantitativa, la competizione. Non ostinarsi, per esempio a mantenere in vita un cadavere come la Fiat.

Sta dicendo che per costruire un diverso modo di produrre dobbiamo anzitutto criticare quelli che noi ci rappresentiamo come "bisogni" quotidiani? E magari dimostrare che sono bisogni indotti? Non ci sono bisogni umani naturali - contrariamente a quanto sostiene l'allieva di Lukacs, Agnes Heller. I bisogni sono sempre socialmente costruiti e dovrebbero perciò essere nelle mani della stessa società. Persino i bisogni una volta considerati essenziali, come il mangiare, hanno contorni variabili dipendentemente dalla cornice di società. E' essenziale, chiedo, che un americano mangi dieci volte di più di quanto occorra? Bulimia e anoressia si spiegano con la ricchezza e la povertà? E pensiamo che non si possa vivere senza cellulare? Il telefonino è uno strumento reazionario che realizza l'uomo flessibile in connessione con tutte le reti nelle quali vive. Così cade la barriera tra tempo di lavoro e tempo libero. Perciò sono convinto che ogni bisogno sia intessuto di significato culturale e sociale complesso.