tempomedico.it 6 novembre 2004
La chimica che aiuta il cervello
Un nuovo approccio sul cervello: parla il premio Nobel Arvid Carlsson
di Nicola Nosengo - Tempo Medico n. 785
Fino a che punto la chimica consentirà di comprendere il funzionamento del cervello umano e di curarne i disturbi? Difficile trovare una persona più adatta di Arvid Carlsson a cui porre questa domanda. Premio Nobel per la medicina nel 2000, questo ottantunenne scienziato svedese ha avuto un ruolo chiave in tutte le principali tappe della neurofarmacologia dell'ultimo mezzo secolo. Negli anni cinquanta chiarì il ruolo del neurotrasmettitore dopamina nella regolazione delle funzioni motorie, sviluppando in seguito il trattamento con levodopa (un sostituto della dopamina) contro il morbo di Parkinson. In seguito fu il primo a spiegare il meccanismo di azione degli inibitori selettivi della serotonina (SSRI), la classe di antidepressivi cui appartiene il Prozac. Negli ultimi anni ha lavorato soprattutto sulla schizofrenia, contribuendo a sviluppare una nuova classe di antipsicotici, gli stabilizzatori del sistema dopamina-serotonina, che in questi mesi stanno arrivando sul mercato. Tempo Medico lo ha intervistato.
Le sue ricerche sulla dopamina contribuirono a un vero e proprio cambiamento di approccio negli studi sul cervello, dimostrando che a livello neuronale la trasmissione chimica è più importante di quella elettrica. Ma nel suo discorso di accettazione del Nobel, ha detto che è tempo di capire che il cervello è "qualcosa più di uno stabilimento chimico". Cosa intendeva?
Credo che presto assisteremo a un nuovo cambiamento di paradigma in questo campo, e che alcuni aspetti del funzionamento del cervello che finora sono stati trascurati torneranno al centro dell'interesse dei ricercatori. In particolare, lo studio dell'attività elettrica, la neuroanatomia, e la stessa anatomia cerebrale, che era passata di moda all'inizio del secolo scorso. Questo non significa che le scoperte nell'area chimica non saranno ancora fondamentali, ma verranno integrate dalle altre conoscenze che avremo sul cervello, soprattutto grazie alle tecniche di imaging cerebrale come risonanza magnetica e PET.
Le neuroscienze fanno sempre più affidamento sulle tecniche di imaging. Eppure sappiamo che esiste una grande variabilità individuale nelle strutture cerebrali, e questi studi sono spesso condotti su campioni molto ristretti. Non è rischioso usarli per trarre conclusioni generali?
Questo è vero, dobbiamo sempre tenere presente che queste tecnologie sono ancora in una fase iniziale, ed è indubbio che a volte siano usate per trarre conclusioni premature. Ma il loro potenziale futuro è immenso, e sono convinto che nel giro di dieci anni diventeranno realmente affidabili e ci permetteranno di leggere le funzioni cerebrali come non si era mai fatto prima. Credo anche che l'elettroencefalografia diventerà sempre più importante.
Il cambiamento di paradigma di cui parla comprenderà anche un maggiore sviluppo di terapie non farmacologiche, per esempio il trapianto di cellule staminali che si vorrebbe sperimentare per curare il morbo di Parkinson?
La mia opinione è che il cervello non sia adatto a interventi di questo tipo, perché è troppo complicato. Trapiantare nuove cellule nervose in un cervello già formato, e aspettarsi che vengano integrate in una rete così complessa di trasmissione e feedback di segnali senza creare problemi, mi sembra impensabile. È vero, sono stati fatti alcuni tentativi con neuroni dopaminergici che hanno avuto parziali successi. Ma hanno provocato effetti collaterali legati in particolare alla discinesia. Il che è perfettamente prevedibile, quando si va a stimolare la produzione di dopamina in condizioni non controllabili.
Rimaniamo ai farmaci allora. Alle sue ricerche si devono gli antidepressivi attualmente più usati, gli inibitori selettivi della serotonina. Come valuta il dibattito in corso sull'uso troppo disinvolto di questi farmaci, in particolare su bambini e adolescenti?
Il problema è descritto molto bene nel libro Listening to Prozac di Peter Kramer. L'autore racconta di pazienti che non rientrano nei criteri diagnostici della depressione, ma che per qualche motivo assumono antidepressivi e ne ricavano effetti molto positivi. Al tempo stesso, altri pazienti nella stessa zona grigia possono avere effetti collaterali molto pesanti, che superano di gran lunga i benefici. La questione è ancora più grande quando si parla di bambini e adolescenti, il cui umore è naturalmente instabile, esposto al rischio di grandi oscillazioni. Occorre una grande cautela prima di estendere ai minorenni le conclusioni di studi compiuti sugli adulti. Ma questo non cancella il fatto che gli antidepressivi possano rivelarsi molto utili anche per queste categorie di pazienti.
Il suo più recente contributo è legato a una nuova classe di antipsicotici che sta arrivando sul mercato, gli stabilizzatori della dopamina, che derivano dalle sue ricerche sulla schizofrenia.
Perché sono innovativi rispetto ai farmaci attuali?
I farmaci antipsicotici oggi utilizzati, come l'apomorfina o i cosiddetti antipsicotici atipici, bloccano i recettori della dopamina e della serotonina, e in questo modo permettono di controllare le crisi psicotiche acute. Ma tra una crisi e l'altra i pazienti soffrono di carenza di dopamina, che è fondamentale per molte funzioni. Per questo, gli attuali farmaci hanno importanti effetti collaterali, come disturbi del movimento e sessuali, sonnolenza, aumento di peso. Alcuni anni fa, ebbi l'opportunità di formare un gruppo con medici e chimici per sviluppare agonisti della dopamina con migliori proprietà farmacocinetiche rispetto all'apomorfina. Invece trovammo casualmente un agonista parziale che si rivelò essere uno stabilizzatore. Aveva cioè la proprietà di mantenere la dopamina a livelli normali, bloccando i recettori solo quando il livello di dopamina passava una certa soglia. Quella molecola però aveva un'attività intrinseca troppo alta, e l'effetto antipsicotico non durava più di due o tre settimane. Con il mio gruppo prevedemmo che con un'attività intrinseca più bassa l'efficacia antipsicotica sarebbe stata più prolungata. In seguito è stata individuata una molecola, l'aripiprazolo, con un effetto più prolungato nel tempo, che ha confermato le nostre previsioni. Ma questo è solo il primo farmaco di questo tipo a essere immesso sul mercato, molti altri sono in arrivo. E la mia previsione è che avranno anche altre applicazioni oltre a quelle legate alla schizofrenia.
Può fare qualche esempio?
Non faccio che basarmi su principi elementari di neuroanatomia. Gli stessi circuiti di neuroni coinvolti nel controllo della cognizione o dell'ostilità che si trovano nella schizofrenia, hanno un ruolo anche nel controllo dell'umore, o nei disturbi compulsivo-ossessivi. Per questo prevedo che uno stabilizzatore della dopamina o di altri neurotrasmettitori potrebbe essere molto utile anche in questi casi. Inoltre c'è già qualche indizio di un'efficacia di questi farmaci per i disturbi motori. Nei malati di Parkinson, per esempio, che dopo anni di trattamento con levodopa sviluppano problemi di discinesia. Se li trattiamo con uno stabilizzatore della dopamina riusciamo ad alleviare i problemi motori senza interferire con l'effetto della levodopa. Anche nella coréa di Huntington ci sono indizi di miglioramenti sia per i sintomi motori che per quelli cognitivi. Non sono ancora vere e proprie prove, ma aprono grandi prospettive.
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