sabato 6 novembre 2004

Good Bye Kant

il manifesto 5 novembre 2004
Fare i conti con Kant ai confini del reale
Dietro l'ultimo libro di Maurizio Ferraris, titolato per Bompiani Goodbye, Kant! Cosa resta oggi della «Critica della ragion pura», un intento filosofico preciso. Mostrare la necessità di affrancarsi dal soggettivismo secondo cui il mondo e la sua percezione dipendono dalla nostra mente e dalla nostra interpretazione
di VINCENZO COSTA

Una lunga tradizione ha voluto insegnarci come la nostra esperienza sia strutturata dai pensieri che proiettiamo su di essa: vediamo ciò che le nostre categorie concettuali ci consentono di organizzare mentalmente. È una impostazione che può essere declinata nei modi più svariati. Così, se uno storico della scienza come Thomas Kuhn ha sostenuto che con il mutamento di un paradigma scientifico ci troviamo a vivere in un mondo percettivo diverso, un linguista come Benjamin Whorf era convinto che «il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato... in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti». Il mondo che si offre alla nostra sensibilità è dunque una sorta di caos inorganizzato, un teatro di sensazioni prive di nessi, e solo nella misura in cui applichiamo su di esse uno schema concettuale, può emergere qualcosa di definito, un oggetto dai contorni precisi, dotato di una propria identità. Un modo di pensare che coinvolge anche l'ermeneutica, non di rado presentata, per esempio da Josef Bleicher, come una teoria secondo la quale «ogni percezione di ciò che ci circonda è preformata dalla nostra comprensione del mondo».
È un modo di pensare che, a partire da questi motivi, ha potuto elaborare una visione del rapporto tra uomo e mondo saturo di implicazioni di ampia portata. Così, proprio a partire dall'idea secondo la quale senza i nostri schemi concettuali il mondo sarebbe privo di regole e di significati, Nietzsche ha potuto ridurre l'intera conoscenza all'esigenza di ordine e di semplificazione che caratterizza l'animale umano, notando che «noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione come predicati dell'essere in generale». Dicendo questo, Nietzsche non fa altro che sviluppare, da un punto di vista nuovo, una strada aperta dalla filosofia critica di Immanuel Kant, e che si riassume nella nota affermazione secondo cui «le intuizioni senza concetto sono cieche, i concetti senza intuizioni sono vuoti». Prima di essere inserite in una rete categoriale, le intuizioni non mostrano niente. Nel suo ultimo libro (Goodbye, Kant! Cosa resta oggi della «Critica della ragion pura», Bompiani, pp. 153, Euro 6,50), Maurizio Ferraris intende contestare proprio questo assunto, argomentando che l'esperienza si struttura, sulla base di regole interne, prima dell'intervento degli schemi concettuali. E poiché questa idea kantiana non ha cessato di produrre effetti e filiazioni, la sua decostruzione assume il senso di un commiato da tutte quelle impostazioni filosofiche che proprio sull'idea di schema concettuale si sono costruite e sviluppate, e che tendono a dissolvere la nozione stessa di «reale». Assumendo l'idea kantiana secondo cui l'esperienza è messa in forma dagli schemi concettuali, non si può infatti che giungere a una versione più o meno velata di idealismo soggettivo, dato che l'oggetto non ha consistenza propria, e la deve invece interamente alla strutturazione categoriale e soggettiva.
Se da un lato il libro intende introdurre, senza presupporre alcunché, alla lettura di un'opera difficile quale la Critica della ragion pura, dall'altro manifesta un intento filosofico assai preciso: fare i conti con la rivoluzione copernicana operata dal filosofo di Königsberg significa per Ferraris mostrare la necessità di riprendere una concezione realistica, di tornare a interrogarsi sulle strutture intrinseche all'oggetto come tale. E da questo punto di vista, rifiutando il soggettivismo kantiano, Ferraris prende certamente anche le distanze dall'ermeneutica, che pure aveva caratterizzato il suo modo di pensare sino ad alcuni anni fa. Ora, se Ferraris avesse mutato la sua prospettiva sull'onda di fatti biografici, questo percorso non sarebbe granché interessante da un punto di vista filosofico. Diventa invece significativo perché, e questo libro lo articola dispiegatamente, l'autore mostra, sulla base di ragioni, la necessità di abbandonare una prospettiva soggettivista secondo cui il mondo e la maniera in cui esso appare dipendono dalla nostra mente e dalla nostra interpretazione. Di contro a questa prospettiva, Ferraris attira l'attenzione sul fatto che «la maggior parte della nostra esperienza, per sofisticata che possa diventare, poggia su un suolo opaco e inemendabile, in cui gli schemi concettuali contano ben poco».
Il problema che il libro di Ferraris ci pone ha dunque un carattere eminentemente teoretico, che ci riporta non tanto ai problemi di due secoli fa, ma a quelli con cui ci troviamo impegnati oggi: il rapporto tra esperienza e pensiero. Secondo Ferraris, Kant può esasperare l'importanza degli schemi concettuali solo perché confonde sistematicamente una teoria della scienza con una teoria dell'esperienza e, invece di descrivere l'esperienza che abbiamo del mondo, prende a prestito i concetti scientifici della sua epoca, convinto che essi strutturino la nostra stessa esperienza percettiva. E in questo modo dà fiato a quelle commistioni che porteranno Kuhn a sostenere che con il cambiamento di un paradigma scientifico si modifica anche il mondo della nostra percezione.
Quello di Ferraris non è, tuttavia, un Good bye all'intera tradizione degli ultimi due secoli, quanto un tentativo di riallacciarsi all'oggettivismo che si è dispiegato, in funzione antikantiana, in autori come Bolzano, Meinong, Frege, cui spetta il merito di avere indicato la via per costruire un realismo non ingenuo; e soprattutto lo si trova in Husserl, che ha «indicato la strada giusta», distinguendo nettamente tra esperienza e pensiero: così, a suo parere, Einstein modifica il modo in cui pensiamo lo spazio, ma non la nostra esperienza dello spazio. Riprendendo questi temi, Ferraris ci invita allora a riconsiderare una concezione consolidata quasi come un luogo comune: ossia che l'oggettivismo fenomenologico sia una fase superata dagli sviluppi della svolta linguistica. E dunque ci offre molte ragioni per tornare a interrogarci sulla fenomenologia, intesa non tanto come una teoria della soggettività, bensì come una teoria dell'esperienza, delle sue regole e delle tendenze che, passivamente, agiscono in essa.