lunedì 22 novembre 2004

Giulio Giorello
Prometeo, Ulisse, Gilgamesh

Giornale di Brescia 22.11.04
CULTURA
Il filosofo Giorello riflette sulla valenza attuale di Gilgamesh e altre due grandi figure della tradizione
I miti antichi, ombre del futuro
«Prometeo e la manipolazione della vita, Ulisse negli orizzonti della fisica»
di Maria Mataluno

«Coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi (…) su ogni dettaglio, (…) senza uscire dal loro linguaggio di immagini». È con questa frase di Italo Calvino che Giulio Giorello introduce il suo saggio Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito (Raffaello Cortina, 250 pagine, 18.50 euro), nel quale propone un’affascinante interpretazione di tre miti antichi che tuttora, persino in quest’era disincantata, continuano a plasmare la realtà e la nostra percezione di essa. Perché le figure del mito, scrive Giorello, «calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro "discorso". Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi». Al prof. Giorello, che insegna Filosofia della scienza all’Università di Milano, domando cos’abbiano ancora da dire le "figure del mito" all’uomo di oggi.
«La risposta a questa domanda l’ha data uno degli autori di riferimento del mio libro: Percy B. Shelley. L’autore del Prometeo liberato scrisse che le grandi favole antiche non sono semplici voci provenienti dal passato, ma ombre del futuro proiettate sul presente. I miti, insomma, ci aiutano a prevedere come il futuro plasmerà il presente. In un’epoca in cui l’ingegneria genetica ci permette d’intervenire sulla creazione e sulla propagazione della vita, i miti di Prometeo e di Ulisse, ossia del dio che donò agli uomini il fuoco e dell’eroe che superò ogni limite umano per assecondare la sua sete di conoscenza, sono più che mai adatti a simboleggiare la prodigiosa capacità che la scienza ha di trasformare il mondo». «Invitandoci a "non viver come bruti" ma a inseguire "virtute e conoscenza", Prometeo e Ulisse ci spingono a migliorare ciò che nella natura può essere migliorato, ma ci ricordano anche la nostra condizione paradossale, e per certi versi spaventosa, di poter fare quello che sino ad oggi era possibile solo a Dio. C’è qualcosa di prometeico nella nostra capacità di manipolare la vita - e non a caso Mary Shelley pose come sottotitolo al suo Frankenstein "Un Prometeo moderno", - e c’è qualcosa di odissiaco nella fisica contemporanea, che partendo dallo studio delle particelle elementari della materia arriva a indagare le origini e la fine dell’Universo».
Se la fisica contemporanea attinge allo spirito di Ulisse, è a Prometeo che lei riconduce la filosofia della natura seicentesca.
«Già nella tradizione classica di Eschilo e di Esiodo, Prometeo è il dio che insegna all’uomo non solo l’uso del fuoco e delle arti, ma anche come calcolare le orbite dei pianeti. Per questo per Shelley il vero Prometeo è Isaac Newton, colui che svelando l’ordine e il movimento dei corpi celesti ha emancipato l’uomo da secoli di ignoranza e di superstizione. Tuttavia per Newton c’è bisogno di una mente creatrice, una Provvidenza divina in grado di controllare che la macchina della natura funzioni al meglio e di ripararne i "guasti", mentre per Shelley questa è autosufficiente, non ha bisogno di un’intelligenza superiore. Perciò lo spirito prometeico, ossia di colui che si ribellò all’autorità di Giove per conferire all’uomo la più assoluta indipendenza, è incarnato ancor meglio da Erasmus Darwin, il nonno di Charles, il grande naturalista che cantava in versi la molteplicità degli esseri viventi e che tentò di spiegare ogni fenomeno della vita riconducendolo solo alla Natura». «Così nel romanzo di Mary Shelley, moglie di Percy, è una scintilla elettrica ad animare la creatura del dottor Frankenstein, dimostrando come il segreto della vita vada cercato all’interno, e non al di là, della natura. Il vero Prometeo, insomma, è la tecnica, che mette gli uomini di fronte alla responsabilità di divenire padroni della vita e della morte: se saranno deboli nell’assumere questa responsabilità, saranno distrutti; se invece sapranno dominare un simile segreto, inizieranno una nuova, appassionante fase della loro avventura».
È un invito a una consapevolezza dei suoi limiti anche quello che Ulisse fa all’uomo contemporaneo. Ma in che modo l’Ulisse di James Joyce ha contribuito a plasmare questa figura del mito?
«Joyce ha sviluppato un’intuizione che era già presente nell’interpretazione platonica di questo mito. Ulisse è stufo di fare l’eroe: smessi i panni di uomo eccezionale, indossa quelli di un comune agente di commercio nella Dublino del primo Novecento. Un uomo come tanti, dalle origini ebree ma convertitosi al cattolicesimo - e qui Joyce sposa la tesi che il mito di Ulisse non sia nato in Grecia, ma in ambiente mediorientale, forse fenicio, - innamorato della moglie che lo tradisce, un marito che compie un’infinità di adulteri mentali ma poi finisce sempre per ritornare al suo "letto avito". Nell’era del disincanto, dopo il crollo dei grandi ideali, è questo l’unico eroismo possibile: essere un uomo qualunque in una città qualunque, un "inquieto palestinese" che con il coraggio e la prudenza di Ulisse si aggira in un mondo popolato di Polifemo ebbri di whisky e di svariate Circe senza più mistero: un mondo tranquillamente grigio, all’apparenza, ma in realtà animato da quegli eroici furori che non squassano solo l’animo di Bloom, ma anche quello di un Paese che presto sarebbe divenuto teatro di sanguinose ribellioni in nome della libertà».
Veniamo infine al terzo dei grandi miti che lei prende in esame, quello di Gilgamesh.
«È uno dei miti più antichi, ma soprattutto è quello che più di ogni altro rivela il legame profondo che esiste tra mito e poesia, dimostrando la capacità di quest’ultima di incidere sulla realtà e sulla storia, trasformandole. Per due terzi dio e per un terzo fin troppo umano, il sumerico Gilgamesh soffre vedendo gli uomini alle prese con la sofferenza e con la morte, e ingaggia una disperata battaglia contro il dolore. Questo suo generoso sforzo non potrà andare a buon fine, e Gilgamesh dovrà arrendersi alla necessità del male. Gilgamesh però mette la sua storia per iscritto, tramutando il suo dramma in poesia; e dimostra come la poesia sia l’unica via di fuga dall’inferno quotidiano». «Un concetto che è stato espresso nel modo più efficace da Ezra Pound, che proprio a Gilgamesh s’ispirò:
"Ho perso il mio centro
a combattere il mondo
scrisse mentre era rinchiuso in carcere a Pisa
I sogni cozzano
e si frantumano. (…)
Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
Lascia parlare il vento
Così è il paradiso"».