martedì 2 novembre 2004

sinistra
il punto sulla nuova costruzione

Liberazione 2.11.04
Agilulfo, Gurdulù e la sinistra d'alternativa
di Rina Gagliardi

In uno dei più celebri romanzi brevi di Italo Calvino, il protagonista - il Cavaliere Agilulfo - in realtà non esisteva, ma riusciva ad esistere grazie ad un immane sforzo di volontà. Era il «Cavaliere inesistente», uno dei maggiori tributi letterari al ruolo, se vogliamo dirla così, della soggettività nella storia - il suo "antagonista", Gurdulù, a sua volta esisteva sì, ma non sapeva di esistere e quindi tendeva a confondere se stesso con ogni cosa in cui si imbatteva. Ecco, il parallelo non è del tutto proprio. Ma è quello che mi viene in mente a proposito di un tema centrale nel nostro dibattito: la sinistra alternativa. Essa, in un senso preciso, esiste: è un concreto arcipelago politico e sociale (partiti, movimento, sindacati, associazioni, giornali, culture critiche e così via) che non solo converge su alcune discriminanti generali, come il no alla guerra e al neoliberismo, ma che spesso si ritrova insieme su battaglie comuni, nelle piazze, nel parlamento, in alcuni luoghi significativi del conflitto sociale. In un altro e ancor più preciso senso, essa non esiste: ovvero, è divisa, frammentata, autoconcorrenziale al proprio interno, priva di ogni solida fisionomia organizzativa, esposta ai venti delle contingenze e delle "fasi". Questa soggettività diffusa e articolata dovrebbe oggi compiere un salto di qualità nella sua esistenza: vorrebbe superare in avanti, vale a dire, il duplice paradosso di Agilulfo e Gurdulù.
Del resto, non si tratta soltanto di un pio desiderio: a volerlo e a proporlo sono in molti, in "alto e in basso", nel popolo come nei vertici. Il suo leader politico più autorevole, Fausto Bertinotti, non ha escluso la disponibilità di Rifondazione comunista a lavorare per costruire un nuovo contenitore dove le disiecta membra dell'arcipelago alternativo possano "confluire" senza rinunce identitarie e senza spiriti annessionistici. Il suo leader storico più prestigioso, Pietro Ingrao, ha significativamente aggiunto: è tempo di unirsi davvero, evitando ammucchiate "balorde", ma anche facendo presto, perchè i progetti, anzi i buoni propositi politici rischiano di consumarsi o di arrotolarsi su se stessi, se non si realizzano in tempi "giusti".
Un concetto condiviso, pur sulla base di un diverso impianto analitico, da Alberto Asor Rosa, un altro degli intellettuali che godono a sinistra di grande autorevolezza e che ha prospettato una prossima assemblea generale per cominciare a passare dal pensiero all'azione. A sua volta, Aldo Tortorella, sul manifesto di domenica, ha rilancia l'idea di una «costituente di idee e di pratiche», in una discussione che parta anche «dai molti vizi comuni».
Sorge allora la domanda, anzi sorgono tre domande: perchè, a tutt'oggi, questa proposta, così "logica", così necessaria e in fondo così condivisa, marcia nella realtà a ritmi così lenti? Quali sono gli ostacoli effettivi che essa ha incontrato e continua a incontrare sulla sua strada? E che cosa si potrebbe fare per superarli davvero?
Al primo quesito, la risposta è tanto ovvia da apparire banale: la costruzione di un nuovo soggetto politico, per quanto matura, auspicata e perfino desiderata, è un processo di straordinaria complessità. Un processo doloroso, si potrebbe dire, perchè comunque implica una vera pars destruens, la volontà cioè di mettersi in gioco, a rischio, a repentaglio. Anche la più piccola delle aggregazioni attuali, dunque, resiste nella pratica, se non nella teoria, a disporsi su di un cammino dall'esito non chiaro, che potrebbe essere fatto più di rinunce che di "guadagni". Questa resistenza dei corpi a scomporsi e a ricomporsi in una nuova avventura "biologico-politica", potremmo dire, ha un concreto fondamento materialistico: non è determinata soltanto da fattori, pur presentissimi, quali conservatorismo, inerzia, gelosia di gruppo, indisponibilità dei gruppi dirigenti (comunque definiti) a lasciarsi mettere da parte. Le identità diverse e distinte - partitiche, comunitarie, locali, "lobbystiche" - sono insomma a loro volta il risultato di storie complesse, spesso ricche e gloriose: ogni sintesi, ogni pretesa sintetica, rischia di venir percepita come un "taglio", quantomeno di una parte di sè, e come una privazione di autonomia. Tutte queste singolarità possono unirsi, come abbiamo visto, nel «movimento dei movimenti», soprattutto al momento del suo stato nascente, perchè si tratta, appunto, di un movimento - sede multidimensionale per definizione e natura profonda, al contrario della più piccola "istituzione".
E qui veniamo al primo, al più grande degli ostacoli posti sul futuro della sinistra alternativa così come alla nostra ricerca: la crisi della politica tradizionale. Essa è così profonda che avvolge l'intero sistema politico: anche la sinistra di governo ne soffre le conseguenze, come si capisce dall'accidentato cammino del progetto di partito riformista. Nel nostro caso, però, il problema è ancor meno rinviabile: una nuova sinistra, che assuma il tema della trasformazione sociale come proprio tratto costitutivo, che scelga un pacifismo radicale e non banalmente "neocampista", che si dia alla fin fine la prospettiva di un'alternativa di società, non può nascere al di fuori di una capacità collettiva di rifondazione della politica e dell'agire politico.
Per questa ragione di fondo alcuni dei percorsi finora tratteggiati non funzionano. Non bastano le convergenze, pur reali, di contenuto e di proposta generale. Nè servono le fusioni dei gruppi dirigenti, le fughe organizzativistiche, o astratte proposizioni di "regole". Quel che serve (come ha detto più volte il segretario di Rifondazione comunista) è l'avvio di una vera e propria rifondazione della politica: se si vuol salvare il meglio del '900, cioè l'idea del partito di massa, della politica diffusa, della partecipazione, non si può prescindere da un impegno che metta al primo posto, insieme al progetto trasformativo, la lotta alla degenerazione burocratica, routiniera, personalistica della politica stessa. Compresa la ricostruzione di una dimensione etica, distinta ma connessa con la "grande riforma" del mondo. E quel che forse è essenziale (come ha detto e scritto varie volte Lidia Menapace) è la volontà e la capacità di praticare un nuovo sistema di relazioni politiche tra eguali e diversi. Un sistema complesso come il corpo umano, capace di tenere insieme l'unità e la singolarità "assoluta" delle sue componenti.
Infine, ma non ultimo, l'ostacolo da superare, nel senso di metterlo anzitutto a fuoco, è il rapporto tra la sinistra alternativa e e la dimensione del governo. Tema non strategicamente centrale, ma politicamente imprescindibile: si tratta di definire (se possibile in termini non solo contingenti) la concretezza di una prassi di trasformazione che accetti di misurarsi fino in fondo con la grande scala, oltre che con la piccola scala, nell'era della crisi strategica del "riformismo debole". E che si costituisca in principio attivo contro il pericolo (a mio parere incombente) della "definitiva" 'americanizzazione" della politica - quella per cui, come accade non da oggi negli Usa, tra sinistra e politica, tra politiche alternative e istituzioni è (inter) rotto ogni canale di comunicazione, ogni reciproca permeabilità. Temi, a loro volta, che qui ci limitiamo ad enunciare, ma che non possono in alcun modo essere esorcizzati. Nè da Agilulfo nè da Gurdulù