lunedì 31 gennaio 2005

Cina

La Stampa 31.1.05
L’UNICO PAESE A DAVOS AD AVERE SCRUTATO NEL FUTURO
La Cina vola verso il 2020
Alexander Weber


FORSE molti partecipanti al Forum di Davos vi diranno che sono rimasti impressionati da Chirac e da Clinton che hanno invitato il mondo sviluppato a lottare contro la povertà del mondo. Altri vi diranno che sono rimasti commossi dal premier tanzanese o di aver cercato con gli occhi Sharon Stone. Ma da economista che dimentica di avere un cuore, sono costretto a limitarmi a una cosa: ricorderò Davos di quest'anno per aver sentito le parole di Huang Chu, il vicepremier cinese.
Non è la prima volta che assisto a performance della nuova leadership cinese tra i monti del Fluela o sotto lo Schatzalp, ma Huang è circondato da un alone diverso: prima di accompagnare Hu a Pechino era già stato sindaco di Shangai quando la metropoli meridionale è diventata l'area di massimo sviluppo del mondo. Ha ogni credenziale per essere creduto quando parla di un nuovo mondo ancora sconosciuto. Infatti, molti manager e analisti a Davos hanno inghiottito le cifre che il politico cinese ha sottoposto sabato: entro il 2020 il Pil della Cina arriverà a 4 mila miliardi di dollari e il reddito pro capite salirà a 3 mila dollari l'anno.
Huang ha riconosciuto che si tratterà di un decennio di profondo cambiamento strutturale socio-economico con rischi di polarizzazione ricco-povero. Eppure, a Davos nessun politico oltre a lui ha parlato di prospettive fino al 2020 e ha semplicemente «saltato» gli anni tra il 2005 e il 2010, come se la storia vicina fosse già scritta e come se i veri obiettivi di interesse politico fossero quelli di lungo termine. Solo adesso posso ammettere di aver capito perché definiamo «epocale» l'arrivo della Cina nel mercato e perché essa modificherà radicalmente anche le prospettive politiche, forse trasformando alla fine anche le democrazie occidentali che fermano il loro orizzonte a scadenze elettorali che non superano appunto i 5 anni. C'è da chiedersi se il mondo dovrà cambiare per assecondare il respiro lungo di politica ed economia cinese.
Ora l'elefante sta crescendo un po' troppo in fretta per restare dentro a un negozio di animali e infatti sta strappando le catene. Per il secondo anno di fila il Pil cinese è cresciuto di oltre il 9%. Chiunque abbia rapporti commerciali con Pechino, a cominciare da Tokyo, dovrebbe rallegrarsi. Ma la dimensione dei fenomeni economici cinesi è sostanzialmente fuori controllo e garantisce la stabilità di un razzo spaziale: la Banca centrale compra dollari al ritmo di 30 miliardi al mese, che poi sterilizza all'interno, le banche cercano di selezionare il credito ai produttori, ma finanziamenti sono ormai disponibili al di fuori di ogni circuito, compreso attraverso gli investitori stranieri vogliosi di sfruttare subito l'attesa di rivalutazione del renminbi. I tassi d'interesse sono destinati a salire, mentre Pechino cerca di ristrutturare le grandi banche.
Quanto al consumo è vero che ha un po' riequilibrato l'eccesso di investimento, ma in nessun modo si può prevedere che cosa succederà nei prossimi anni. Su questo quadro, Huang ha gettato il suo sguardo da astronauta esperto, parlando di scienza e di tecnologia, pur con un occhio allo sviluppo sostenibile dell'ambiente e delle fonti energetiche. Ascoltando Huang parlare del mondo nel 2020 ho pensato in quel momento a Schroeder, Berlusconi, Chirac e agli altri e mi sono sembrati dei vecchi soprammobili.

La Stampa 31.1.05
A SETTEMBRE 2004 LA BANCA POPOLARE AVEVA PIU’ DI 500 MILIARDI DI DOLLARI
È a Pechino la cassaforte dell’economia americana
di
Andrea Gavosto
Da fine 2001 il dollaro ha perso il 40% del valore nei confronti dell’euro mentre le monete asiatiche, renmimbi in testa, tengono fisso il cambio.
Sono sempre più gravi i rischi di una crisi valutaria della banconota verde
LE prospettive dell'economia europea nel 2005 ruotano intorno all'evoluzione del cambio fra euro e dollaro. Rispetto alla fine del 2001, il dollaro ha perso ben il 40% del proprio valore nei confronti dell’euro, di cui il 10% nell'ultimo anno: un’ulteriore svalutazione creerebbe notevoli problemi di competitività alle esportazioni europee e rischierebbe di compromettere quel poco di ripresa cui stiamo assistendo.
Fare previsioni sui tassi di cambio è sempre impresa arrischiata. Tuttavia, la maggior parte degli economisti è concorde nel ritenere che la debolezza del dollaro sia destinata ad accentuarsi nel 2005. Quest'anno, infatti, il disavanzo nei conti con l'estero dell’America supererà il 6% del Pil: si tratta di un livello che, per qualsiasi altro paese, condurrebbe a una crisi valutaria. A differenza di quanto accadeva durante il periodo della «bolla Internet», quando il deficit Usa era largamente finanziato da acquisizioni di imprese statunitensi da parte di Europei e Asiatici, oggi lo squilibrio nei conti con l'estero viene prevalentemente coperto dall'acquisto di titoli di Stato, soprattutto da parte delle Banche centrali asiatiche. Si stima che la sola Banca Popolare della Cina detenesse a settembre scorso ben 514 miliardi di dollari di riserve. La possibilità che le banche centrali cessino di accumulare riserve in dollari e che i risparmiatori stranieri decidano, ai primi segni di un'ulteriore flessione della valuta americana, di disfarsi rapidamente dei titoli rende la posizione del dollaro estremamente precaria.
Per ricondurre il deficit in prossimità dell'equilibrio, la strada maestra è quella di una massiccia svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute, che ridarebbe fiato all'export netto degli Stati Uniti. Secondo le simulazioni di molti economisti, compresi quelli del Fmi, la flessione richiesta del dollaro nei confronti delle maggiori valute è di almeno il 40% rispetto ai valori attuali. Un deprezzamento che comporterebbe un cambio dollaro/euro oltre 1,80, ampiamente superiore alla capacità di sopportazione del nostro sistema produttivo, almeno nel breve periodo.
Esiste una via di uscita dagli squilibri americani meno indolore per l'Europa? Molto dipende dalle decisioni che prenderanno le autorità del Sud est asiatico, in primo luogo della Cina. Come è noto, la maggior parte delle valute dell'area, a cominciare dal renmimbi cinese, mantiene un cambio fisso con il dollaro. Di conseguenza, queste monete hanno accompagnato la svalutazione del dollaro rispetto all'euro, guadagnando competitività nei confronti dell'Europa. Il cambio fisso non risponde però ai fondamentali economici, ma solo al desiderio di mantenere le divise a livelli estremamente competitivi e, per questa via, continuare a incrementare il proprio export. I paesi dell'area detengono ormai avanzi commerciali da record nei confronti degli Usa: la sola Cina ha avuto nel 2004 un surplus commerciale di 160 miliardi di dollari, mentre il rapidissimo sviluppo della produttività in quest'area spingerebbe a un forte apprezzamento nei confronti del dollaro.
Anche dal punto di vista finanziario, la strategia dei paesi asiatici è poco comprensibile. Al fine di mantenere le valute a un livello artificiosamente basso, le Banche centrali asiatiche continuano ad accumulare riserve sotto forma di titoli del Tesoro americano: titoli che garantiscono rendimenti modesti e che, soprattutto, nel momento in cui venissero effettivamente incassati genererebbero significative perdite in conto capitale. La politica del cambio fisso rischia quindi di dissipare quote consistenti della ricchezza nazionale.
Per contro, una rivalutazione del renmimbi e delle altre valute dell'area (baht tailandese, dollaro di Singapore, ringgit malese, dollaro di Taiwan ecc.) rispetto al dollaro ridurrebbe l'enorme disavanzo degli Usa verso questi paesi. Il 40% di svalutazione del dollaro previsto dagli economisti avverrebbe quindi in prevalenza nei confronti delle valute asiatiche, preservando l'Europa dal trauma di un'ulteriore perdita di competitività. La Cina e gli altri paesi dell'area genererebbero sì minor crescita dalle esportazioni, ma, attraverso il meccanismo delle ragioni di cambio, vedrebbero aumentare la capacità di spesa dei loro cittadini, con un aumento dell'import da Europa e Usa, che taciterebbe le accuse di protezionismo dell’Occidente.
Se la rivalutazione fosse troppo violenta e repentina, il rischio per la Cina e gli altri paesi sarebbe quello di entrare in una fase di recessione. D'altro canto, più a lungo si evita di intraprendere quella che appare la via maestra per rimediare agli squilibri economici mondiali, più elevato sarà il prezzo da pagare poi.

Repubblica Affari e Finanza 31.1.05
Ormai la Cina ci batte anche nella burocrazia
di GIUSEPPE TURANI


Italia/Cina due mondi distanti. Gli imprenditori italiani partono per missioni "esplorative" a Shangai, Pechino Hong Kong e tornano affranti "non ce la faremo mai.".
Chissà. Intanto, tutti si raccontano aneddoti. Un'azienda che produce mobili di prestigio alle porte di Milano diciotto anni fa aveva chiesto al Comune il permesso per costruire un secondo capannone, gli affari andavano a gonfie vele. Il permesso è arrivato la settimana scorsa ma ormai è troppo tardi. La produzione andrà forse in Cina, o in India, dove questi permessi vengono concessi nel giro di una settimana, due al massimo. Circa un mese fa un professore italiano, che si era recato in visita all'Università di Pechino, aveva trovato lavori di interramento cavi nel cortile, con operai, buche, mezzi meccanici e tutto il pandemonio possibile. La mattina successiva, però, ha trovato un bel prato verde con alberi, panchine e studenti, il tutto in 24 ore tonde. Non male. Vinceranno loro?