GLI ANNI DURI DI SCHOPENHAUER
Escono oggi i "Manoscritti Berlinesi"
di FRANCO MARCOALDI
Sono novecento pagine di appunti e aforismi per lo più inediti in italiano e fanno parte degli scritti postumi la cui edizione è diretta da Franco VolpiÈ un dato di fatto, sotto gli occhi di tutti. Il vero motore del mondo è «la volontà di vita», quell'impulso ostinato che ci sospinge continuamente in avanti, anche quando non ce ne sarebbe più motivo, a dispetto di ogni ragionevolezza: «Non di rado vediamo uomini che, malgrado patiscano tutte le pene dell'età, della miseria e della malattia messe insieme, e conducano quindi un'esistenza continuamente tribolata, stanno tuttavia in forte apprensione per la loro vita e pregano che venga prolungata. Come potrebbe accadere ciò, se l'essenza interna dell'uomo non fosse volontà di vita, cieco impulso all'esistenza?».
La filosofia deve essere intesa alla fine anche come saggezza del vivere
Questa pagina viene scritta otto anni dopo che Arthur Schopenhauer ha dato alle stampe Il mondo come volontà e rappresentazione, un completo fallimento editoriale: poche recensioni distratte e negative, gran parte dei volumi destinati al macero, totale indifferenza della comunità accademica. Altri sono i filosofi che in quel momento tengono il proscenio: i «fanfaroni» Fichte e Schelling e prima ancora quel «ciarlatano» di Hegel, per sbeffeggiare il quale il filosofo di Danzica avrà la malaugurata idea di tenere in contemporanea le proprie lezioni universitarie, che andranno immancabilmente deserte.
Come se non bastasse, ai disastri accademici ed editoriali si aggiungono le sventure private: mentre il processo «per lesioni» intentatogli dalla vicina di casa Caroline lo vede sconfitto, la relazione con un'altra Caroline, ballerina e corista, si conclude malamente. Senza contare le disavventure finanziarie, la gotta, e ricorrenti stati depressivi.
Quelli berlinesi, decisamente, non sono anni felici per Schopenhauer. Ma l'uomo è coriaceo. È consapevole del proprio talento, anzi del proprio genio; il che gli consente di andare dritto per la sua strada «senza timore del vuoto che diventa sempre più vasto». Così procede nella sua ricerca: prende appunti, scrive aforismi, ritorna sul suo sistema filosofico, lo chiarisce e lo espande con abbozzi di nuovi progetti. E il risultato sono i Manoscritti berlinesi (1818-1830), oltre novecento pagine per lo più inedite in italiano con cui la casa editrice Adelphi, sotto la direzione di Franco Volpi e grazie all'esemplare cura di Giovanni Gurisatti, prosegue la pubblicazione degli Scritti postumi.
La chiarezza è sempre stata una dichiarata ambizione di Schopenahuer, profondamente infastidito dalle oscurità gergali di tanti suoi colleghi. Ma la natura privata di queste pagine accentua il tratto di spontaneità e schiettezza del suo pensiero, senza andare a discapito di uno stile sempre superbo, che avrebbe affascinato tanti scrittori: da Tolstoj a Mann a Svevo. Dunque non è soltanto lo studioso a beneficiare di un testo evidentemente irrinunciabile per lo specialista, ma anche il lettore comune, che può divagare con diletto in un labirinto intellettuale che, al di là dell'ambito strettamente disciplinare, spazia dalla musica alla zoologia, dalla poesia alla pittura.
Certo, alle spalle c'è il massimo caposaldo della filosofia schopenahueriana e dunque in qualche modo tutto da lì si diparte.
Ma come bene scrive Franco Volpi, proprio «negli inediti di questo terzo volume si notano i punti di sutura con i quali Schopenhauer ricompone la filosofia teoretica con quella pratica, la dimensione speculativa con quella popolare del sistema. Si consolida inoltre l'idea che la filosofia vada intesa - oltre che come costruzione dell'edificio teorico della metafisica del pessimismo, che insegna che la vita non è bella - anche come saggezza del vivere».
Le cose, del resto, vanno naturalmente insieme. Il nostro io - scrive il filosofo - è composto da due orologi quasi mai sincronizzati tra loro: uno è la volontà, l'insaziabile appetito foriero di illusioni e sofferenza; l'altro la conoscenza, che sola può contenere i guasti di un ottenebrato egoismo a vantaggio della pura contemplazione e dell'esercizio della compassione verso tutte le altre creature viventi. Insegnandoci, da ultimo, come l'unico fine possibile dell'esistenza non sia il raggiungimento della felicità, ma il contenimento del dolore: «Da giovane, ogni volta che udivo suonare o battere alla porta ero felice perché pensavo: "Chissà, forse ci siamo!". Adesso quando battono alla porta mi spavento perché penso: "Stavolta ci siamo!". La ragione della differenza è che quando abbiamo raggiunto la seconda metà della vita l'esperienza ci ha insegnato che ogni felicità è chimerica, mentre l'infelicità è reale».
Purtroppo lo si impara sempre troppo tardi - continua il Nostro - schiavi come siamo per un lungo tratto di vita della nostra irrefrenabile pulsione sessuale, ragione prima di una brama insaziabile e ottusa.
Al contrario di quanto pensava Cartesio, infatti, l'essenza dell'anima non è la conoscenza, ma la volontà. La conoscenza sopravviene, quando sopravviene, soltanto dopo: illuminando ciò che ciascuno è; assunto questo che modifica lo stesso concetto di libertà, perché non è vero che ci è consentito di diventare a piacimento questo o quel tipo d'uomo: la nostra natura è data una volta per tutte. In breve, per gli altri filosofi l'uomo «vuole ciò che conosce, per me conosce ciò che vuole».
Noto, scrive ancora Schopenhauer a mo' di chiusa ideale, che molti deplorano il carattere «melanconico e sconsolato» di questa mia filosofia. La verità è che io, invece di favoleggiare di un inferno futuro a saldo degli umani peccati, mostro l'inferno presente già nella nostra vita terrena: «il mondo stesso è il giudizio universale».
«Per tenere a freno gli animi rozzi e per distoglierli dall'ingiustizia e dalla crudeltà non serve la verità, poiché essi non sono in grado di comprenderla. C'è bisogno dell'errore, di una favola, di una parabola. Da ciò la necessità delle dottrine religiose positive».
* * *«Il filosofo deve avere di mira la natura, il mondo, e solo in via accessoria i libri, poiché ciò che essi offrono è sempre solo di seconda mano e per lo più già falsato, trattandosi sempre di un'immagine riflessa, imitazione di quell'originale che è il mondo - e di rado lo specchio era pulito».
* * *«Se un Dio ha fatto questo mondo, allora non voglio essere quel Dio: il suo strazio mi spezzerebbe il cuore».
* * *«La vita dell'individuo è un continuo trotterellare, necessario e semincoscente, al seguito delle sempre rinnovate aspirazioni della volontà».
* * *«Se vita ed esistenza fossero uno stato piacevole, andremmo incontro malvolentieri allo stato incosciente del sonno e, alzandoci, ce ne allontaneremmo volentieri. Ma accade esattamente il contrario: andiamo molto volentieri a dormire e ci alziamo malvolentieri».
* * *«La vita del bel mondo aristocratico non è in verità che un'incessante e disperata lotta contro la noia. La vita del popolino è una lotta continua contro la miseria. L'aureo ceto medio!»
* * *«La religione cattolica è un prontuario per ottenere in elemosina quel cielo che sarebbe troppo scomodo guadagnarsi. I preti sono gli intermediari di tale accattonaggio».
* * *«A torto si compatisce l'infelicità della vecchiaia e si lamenta che certi piaceri le siano negati. Ogni piacere è relativo, è un mero soddisfare e placare il bisogno; il fatto che con l'eliminazione del bisogno il piacere si esaurisca è tanto poco deplorevole quanto il fatto che, dopo pranzo, non si possa mangiare, o dopo una notte di sonno non si possa dormire. Molto più giustamente Platone («Repubblica», I) reputa felice la vecchiaia perché finalmente si placa la brama di femmine. I bisogni principali della vecchiaia sono la comodità e la sicurezza: per questo in tarda età si ama soprattutto il denaro, come sostituto delle energie mancanti. Inoltre i piaceri della tavola sostituiscono quelli dell'amore. Al bisogno di vedere, di viaggiare e di imparare si sostituisce quello di insegnare e di parlare. Ma è una fortuna se al vecchio è rimasto l'amore per lo studio, per la musica, e perfino per il teatro».