ESODO DALLA CULTURA SFRUTTATA
Uno dopo l’altro, restano fuori i soprintendenti e direttori più scomodi, quelli che si sono opposti alla svendita del patrimonio pubblico. Si fanno favori alla destra, come la nuova soprintendenza di Lucca (Pera) e di Lecce (Poli Bortone). Il Museo Egizio di Torino non è più diretto da un egittologo, prevalgono le scelte burocratiche ed economicistiche. La destra non vuol vedere i beni culturali come “patrimonio identitario” e di crescita del paesedi Simona Maggiorelli
Giro di vite nelle soprintendenze. L’allarme che Salvatore Settis lanciò su Europa, all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei beni culturali e ambientali, il maggio scorso, denunciando che le posizioni amministrative e di vertice stavano vertiginosamente aumentando, mentre le soprintendenze territoriali erano sempre più depauperate e sotto organico, è diventato negli ultimi mesi cosa tangibile anche ai non addetti ai lavori.
Ai beni archeologici di Roma, dopo ventotto anni, e altrettante ininterrotte battaglie per la tutela contro i giudizi mutevoli di sindaci e assessori, il museo a cielo aperto della capitale non ha più Adriano La Regina, a farle da leale e autorevole custode.
Così come, dopo trent’anni di servizio - entrò come funzionaria degli Uffizi, quando era giovane laureanda di Roberto Longhi all’Università di Firenze- da fine mese, non ci sarà più Anna Maria Petrioli Tofani, alla guida del maggior museo fiorentino; lei che era stata mentore del progetto Grandi Uffizi; lei che mobilitando associazioni di base, volontariato e competenze scientifiche era riuscita a riaprire appena venti giorni dopo dall’attentato di via dei Georgofili quasi il sessanta per cento delle collezioni. Pare se ne vada alla National Gallery di Washington, dove le hanno prontamente offerto un incarico di dirigenza.
Nel novembre scorso si era vista costretta a gettare la spugna anche Jadranka Bentini, soprintendente di Ferrara, Bologna, Modena, continuatrice della grande lezione di Emiliani e Gnudi, proprio dopo il successo riscosso dalla sua mostra Gli Este a Ferrara.
Tre storie diverse, ma parallele. Non è difficile rintracciare i punti in comune, il valore scientifico e la grave perdita che il sempre più fragile sistema della tutela italiana patisce con loro uscita dai ranghi istituzionali. “ Avevo chiesto di poter prolungare di altri tre anni, come si consente ai magistrati – racconta Petrioli Tofani – ma la risposta è stata no. L’ho saputo per vie ufficiose”. Le ragioni? Del tutto simili a quelle accampate per non rinnovare il contratto a La Regina. Dopo i 67 anni, il prolungamento dell’incarico avrebbe dovuto figurare come nuova assunzione e per questo non ci sono i fondi. Non ci sono i fondi, va detto, dopo una serie di sopraggiunte manovre. C’erano a luglio, quando è stata accolta e accettata la richiesta de La Regina. Non c’erano già più a fine anno, con i tagli della finanziaria, ma soprattutto dopo spese in campagne pubblicitarie che la Corte dei Conti giudica “elastiche” e una fitta serie di assunzioni, fra manager e personale tecnico. Nuove assunzioni annunciate alla vigilia di Natale, quando l’opinione pubblica è solitamente distratta. Del resto è un vizio di questo governo: nello stesso periodo, un anno prima, Tremonti metteva in vendita la Manifattura Tabacchi di Firenze e altri immobili pubblici con un rapido decreto. Così oggi,dopo la manovrina di Natale e le comunicazioni di licenziamento arrivate il 31 dicembre a La Regina e a Ernesto Milano,il direttore della Biblioteca Estense di Modena, sono ottantaquattro i soprintendenti con ruoli centrali, amministrativi, dirigenziali. E cinque i responsabili di poli museali. Venti le new entry, pochissime quelle che vanno a rafforzare il vero corpo della tutela, nelle biblioteche, negli archivi, nelle soprintendenze territoriali. Eccezion fatta per la costituzione della nuova soprintendenza di Lucca, fondata per compiacere il presidente del Senato Marcello Pera e di quella di Lecce, sollecitata dalla Poli Bortone. Non proprio su spinte di sinistra come pretenderebbe la polemica apparsa ieri sul Corriere. Al contrario non è difficile pensare che in questo giro di vite, fra nuove nomine e spostamenti, non sia casuale che a restare fuori siano proprio i soprintendenti più scomodi, quelli che più si sono opposti alla svendita del patrimonio pubblico. Del resto Adriano La Regina lo aveva anche scritto, in un drammatico editoriale su Micromega lo scorso novembre, intitolato “Chi ha paura dei soprintendenti”. La Regina rispondeva alle accuse di Urbani che aveva pubblicamente parlato di potere monocratico e di satrapie. Gli rispondeva, accusando il nuovo Codice dei beni culturali e ambientali di inserire vincoli che “rendono ancora più difficile la tutela del territorio”, di rendere ancora più defatigante il lavoro, rallentando gli uffici con un carico di pratiche sempre più burocratiche. L’introduzione del silenzio-assenso nella vendita del patrimonio pubblico ha avuto in primis proprio questo effetto: di riempire le scrivanie di richieste di valutazione che le sguarnite soprintendente territoriali non riescono a smaltire. “La burocratizzazione e la riorganizzazione delle soprintendenze in senso verticistico sta rendendo un bellissimo lavoro come quello della tutela, praticamente impossibile”, denuncia Jadranka Bentini che, dopo una vita di lavoro in soprintendenza, da qualche mese, si dedica alla direzione del Museo internazionale della Ceramica di Faenza e soprattutto allo studio. “Negli ultimi cinque anni eravamo subissati a tal punto che passavamo la maggior parte del nostro tempo a compilare tabelle. Una cosa assolutamente stupida”. Una situazione, quella delle soprintendenze territoriali, senza ricambio. “Sono anni che non si fanno concorsi – denuncia Bentini – i funzionari più giovani hanno almeno cinquant’anni. Non funziona più il rapporto con le università, ma soprattutto si è scelto di mortificare le discipline classiche della tutela, la storia dell’arte,l’archeologia, a favore di un rapporto più stretto con l’economia e competenze manageriali”. “L’errore più grave – aggiunge – è che negli ultimi dieci anni il patrimonio italiano è stato letto sempre più come volano di tipo economicistico, non come patrimonio identitario e culturale da far fruttare, ma da sfruttare”. Le magnifiche sorti e progressive di questo tipo di pensiero che ha aperto falle nella tradizione alta e secolare della tutela italiana cominciarono quando l’allora ministro Gianni De Michelis lanciò il fatidico slogan “L’arte è il petrolio d’Italia”. “Una vera sciagura – ribadisce Bentini – è entrato talmente nell’uso che ancora oggi c’è chi lo ripete. Non capendo che con il patrimonio non si può instaurare un rapporto di spoliazione così meccanicistica, banalizzante. Semmai è un’opportunità culturale,da studiare e valorizzare, un’opportunità da trasmettere ai giovani”. Burocrazia, scelte economicistiche e clientelari (basta pensare al caso del Museo Egizio di Torino, che, trasformato in fondazione, non ha più un egittologo alla direzione) ma anche mancanza di autonomia nelle decisioni a livello locale sono i tarli che stanno rosicchiando il sistema della tutela italiana,rischiando di mandarlo in malora. “Il problema della mancanza di autonomia decisionale da parte di chi si occupa davvero di tutela sul territorio è grosso ostacolo”,commenta Anna Maria Petrioli Tofani. Il caso degli Uffizi è emblematico. “Se avessimo avuto l’autonomia che hanno tutti i grossi musei al mondo, ora i Nuovi Uffizi sarebbero già pronti. E’ la stessa struttura del polo a rendere i singoli musei incapaci di funzionare”, dice la ex direttrice in polemica con il polo museale fiorentino guidato Antonio Paolucci (ex ministro del governo Dini e di cui si parlava come possibile candidato del centrodestra alle amministrative fiorentine), di recente promosso dal ministro Urbani a capo dell’intero polo toscano. Gli effetti sono su piazza. O meglio sulla piazzetta del Grano a Firenze. Dove ancora si discute dell’annosa pensilina progettata da Isozaki per la nuova uscita degli Uffizi. Un concorso regolarmente vinto dall’architetto giapponese e che è stato bloccato dal Ministero per la supposta presenza di reperti archeologici nel sottosuolo, per cui si continua a scavare, nonostante eminenti archeologi abbiano definito il sito di scarsa importanza e dopo mesi di lavori siano emerse dagli scavi solo una manciata di cocci di ceramica di valore minimale. Oriana Fallaci e Vittorio Sgarbi, si sa, si erano scagliati contro il valore estetico del progetto. Il ministro ora prende le distanze,ma dopo aver convocato a Roma il sindaco Leonardo Domenici e il presidente della Regione Toscana Claudio Martini, ora medita di chiedere a Isozaki se intenda rinunciare al suo disegno. Così dalle esternazioni estive in cui minacciava di chiudere gli Uffizi per mancanza di soldi si passa a recidere contratti già firmati. Inanellando una serie di encomiabili figure anche sulla scena internazionale.