Corriere della Sera 28.2.05
Referendum tra teologia e politica
LA VITA UMANA
di GIOVANNI SARTORI
Fede e ragione. Vi sono questioni che sono materia di fede, e questioni che sono materia di ragione. Se Dio esiste è materia di fede. Se è vero che gli aeroplani volano perché sostenuti da angeli è materia di ragione. L’importante è che le due sfere si rispettino e che non si impasticcino l’una con l’altra. Mentre nei dibattiti in corso sul diritto alla vita e sull’embrione l’impasticciamento è di tutta evidenza. Intanto, vita non è lo stesso che vita umana. Anche le mosche, i pidocchi, le zanzare sono animaletti viventi, sono vita. Ma io li uccido, confesso, con soddisfazione. Anche gli animali e i pesci che io mangio erano, prima, esseri viventi. Eppure li mangio, confesso, senza sentirmi in peccato. Invece la vita umana è inviolabile, è sacra. Perché? Qual è la differenza?
Il problema è questo, ma la Chiesa di Papa Wojtyla lo evade. La sua crociata è per la difesa della «vita nascente». Anche quella delle piante? Anche quella dei tafani? Evidentemente no. E perché no? Torno a chiedere: qual è la differenza tra qualsiasi vita e la vita umana? In passato la risposta era l’anima, che è l’anima che determina l’essere dell’uomo. Ma oggi l’anima viene dimenticata, la Chiesa non ne parla quasi più. L’omissione è stupefacente. Ma tant’è.
Su quando scocca la scintilla della vita nei primati, e specificamente nell’uomo (saltiamo, per brevità, tutte le altre vite), la risposta è oramai sicura: comincia nell’attimo della fecondazione, della congiunzione dello spermatozoo maschile con un gamete femminile. Ma, al solito (la domanda non è evadibile), questa fecondazione è già, a quel momento, vita umana? La fede, se così le viene imposto dalle sue autorità, può rispondere di sì. Ma la ragione, vedremo, deve rispondere di no. Quanto alla scienza, la domanda su quando «un embrione diventa persona e gode dei diritti spettanti a una persona... è domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale» (cito da Edoardo Boncinelli su queste colonne). Proprio così.
Veniamo alla ragione, all’argomento razionale. In quel contesto l’argomento è che la vita umana è diversa dalla vita animale perché l’uomo è un essere capace di riflettere su se stesso, e quindi caratterizzato da autoconsapevolezza. L’animale non sa di dover morire; l’uomo lo sa. L’animale soffre fisicamente perché è dotato di sistema nervoso; ma l’uomo soffre anche psicologicamente, anche spiritualmente. Diciamo, allora, che la vita umana comincia a diventare diversa, radicalmente diversa da quella di ogni altro animale superiore quando comincia a «rendersi conto». Non certo da quando sta ancora nell’utero della madre.
Papa Wojtyla asserisce che «la scienza ha ormai dimostrato che l’embrione è un individuo umano», e come tale non uccidibile. Ma non è così. La scienza è sottoposta, nel suo argomentare, alle regole della logica. E per la logica io uccido esattamente quel che uccido. Non posso uccidere un futuro, qualcosa che ancora non esiste. Se uccido un girino non uccido una rana. Se bevo un uovo di gallina non uccido una gallina. Se mangio una tazza di caviale non mangio cento storioni. E dunque l’asserzione (la terza del quesito referendario sul quale andremo a votare) che i diritti dell’embrione sono equivalenti a quelli delle persone già nate è, per la logica, una assurdità.
Il cattolico alla Tertulliano (credo quia absurdum, credo così proprio perché è assurdo) è liberissimo di sottoscrivere questa assurdità. Ma la Chiesa di Sant’Agostino e di San Tommaso, e anche tutte le persone ragionanti, dovrebbero volere che le cellule staminali da embrioni umani siano utilizzate dalla ricerca scientifica per curare i viventi, i già nati. E dovrebbero anche volere la sopravvivenza della logica.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
lunedì 28 febbraio 2005
embrioni
lo Stato laico deve rispettare tutte le «visioni della vita»
La Stampa 28 Febbraio 2005
IL MANIFESTO DI SCIENZA E VITA
FECONDAZIONE
L’OCCASIONE DELLO STATO LAICO
Gian Enrico Rusconi
IL Manifesto del Comitato Scienza e Vita contro il referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita è assai deludente. Ripete assunti generalissimi sul «primato della vita», sui «diritti del concepito», sulla «deriva scientista» senza confrontarsi minimamente con le tesi di coloro che la pensano diversamente. Anzi, lascia intendere che i sostenitori del referendum (la cui formulazione sarebbe «volutamente equivoca») vanno incontro al «rischio di una società che non si fa scrupolo di manipolare l’uomo».
Il Manifesto insomma è un testo militante, non un serrato confronto di idee - come mi sarei aspettato dalle stimatissime personalità firmatarie. Peccato.
Evitando di entrare nel merito dei singoli difetti della legge (cui riconoscono semplicemente che «non è perfetta»), confermano che la loro preoccupazione non è una legislazione ragionevole, ma fare quadrato attorno ad un principio tanto evidente quanto problematico nella sua concreta realizzazione: il «primato della vita».
No, le cose non sono così semplici. La filosofia della legge 40 e le sue norme eludono la questione cruciale che lo sviluppo delle bioscienze ci fornisce una conoscenza più appropriata del processo della «vita», in tutte le sue diverse fasi. E quindi offre una dimensione più complessa all'intera questione morale.
Tutte le fasi genetiche sono da collocare sotto la tutela etica della vita, ma in modo articolato. Occorre tener conto di molti criteri, primo fra tutti quello terapeutico. E' sorprendente che i firmatari del Manifesto (specialmente i biologi) non abbiano preso conoscenza delle tesi scientifiche e delle preoccupazioni etiche, espresse non già in un fantomatico «Far West procreativo», ma dalla commissione Warnock nella civilissima Inghilterra. Essa consente una rigorosa controllata sperimentazione delle cellule embrionali a fini terapeutici. Sulla stessa strada si muove con più cautela la Germania.
Prendiamo il problema dell’utilizzo sperimentale degli embrioni soprannumerari in prospettiva terapeutica (è il primo quesito del referendum), o il problema della liceità di alcune riprogrammazioni delle cellule embrionali della primissima fase (ootidi). La legge 40 proibisce tutto questo a priori, in modo categorico in nome della difesa della «vita umana», perché in qualunque stadio biologico sarebbe già virtualmente presente la persona umana («il concepito») con i suoi diritti inalienabili.
Chi sostiene il referendum abrogativo parte invece dalla constatazione che lo sviluppo genetico si articola, in particolare nei primissimi stadi, con continuità e discontinuità che legittimano una tutela differenziata e ragionata della vita stessa. Qui si entra in un’ottica dell'etica della cura di carattere universalistico. Si aprono nuove dimensioni per una possibile variante dell'etica del dono.
Naturalmente la questione è delicata. Ma è inaccettabile che si denigri l’impostazione, ora delineata, come un’ipocrita relativizzazione del principio etico e si liquidino come pseudo-scientifiche le distinzioni introdotte. Se si respinge come non scientifica la denominazione di «pre-embrione», talvolta usata per segnalare la fase di sviluppo genetico che precede l'annidamento, si può replicare che non è scientifica neppure l'espressione di «concepito» che è il pilastro della filosofia della legge 40.
Trovo semplicistico qualificare tale legge come una «legge cattolica», ma non c’è dubbio che è un'occasione mancata per una prova di laicità della nostra democrazia. Questa infatti deve rispettare tutte le «visioni della vita», nel momento in cui definisce vincoli di legge per tutti i cittadini. Lo Stato laico parte dal presupposto che esiste un ethos diviso e divisivo dei suoi cittadini, che va regolato in modo ragionevolmente consensuale. Soprattutto quando fa serio riferimento al dato scientifico. L’attuale legge sulla fecondazione assistita manca questi obiettivi.
IL MANIFESTO DI SCIENZA E VITA
FECONDAZIONE
L’OCCASIONE DELLO STATO LAICO
Gian Enrico Rusconi
IL Manifesto del Comitato Scienza e Vita contro il referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita è assai deludente. Ripete assunti generalissimi sul «primato della vita», sui «diritti del concepito», sulla «deriva scientista» senza confrontarsi minimamente con le tesi di coloro che la pensano diversamente. Anzi, lascia intendere che i sostenitori del referendum (la cui formulazione sarebbe «volutamente equivoca») vanno incontro al «rischio di una società che non si fa scrupolo di manipolare l’uomo».
Il Manifesto insomma è un testo militante, non un serrato confronto di idee - come mi sarei aspettato dalle stimatissime personalità firmatarie. Peccato.
Evitando di entrare nel merito dei singoli difetti della legge (cui riconoscono semplicemente che «non è perfetta»), confermano che la loro preoccupazione non è una legislazione ragionevole, ma fare quadrato attorno ad un principio tanto evidente quanto problematico nella sua concreta realizzazione: il «primato della vita».
No, le cose non sono così semplici. La filosofia della legge 40 e le sue norme eludono la questione cruciale che lo sviluppo delle bioscienze ci fornisce una conoscenza più appropriata del processo della «vita», in tutte le sue diverse fasi. E quindi offre una dimensione più complessa all'intera questione morale.
Tutte le fasi genetiche sono da collocare sotto la tutela etica della vita, ma in modo articolato. Occorre tener conto di molti criteri, primo fra tutti quello terapeutico. E' sorprendente che i firmatari del Manifesto (specialmente i biologi) non abbiano preso conoscenza delle tesi scientifiche e delle preoccupazioni etiche, espresse non già in un fantomatico «Far West procreativo», ma dalla commissione Warnock nella civilissima Inghilterra. Essa consente una rigorosa controllata sperimentazione delle cellule embrionali a fini terapeutici. Sulla stessa strada si muove con più cautela la Germania.
Prendiamo il problema dell’utilizzo sperimentale degli embrioni soprannumerari in prospettiva terapeutica (è il primo quesito del referendum), o il problema della liceità di alcune riprogrammazioni delle cellule embrionali della primissima fase (ootidi). La legge 40 proibisce tutto questo a priori, in modo categorico in nome della difesa della «vita umana», perché in qualunque stadio biologico sarebbe già virtualmente presente la persona umana («il concepito») con i suoi diritti inalienabili.
Chi sostiene il referendum abrogativo parte invece dalla constatazione che lo sviluppo genetico si articola, in particolare nei primissimi stadi, con continuità e discontinuità che legittimano una tutela differenziata e ragionata della vita stessa. Qui si entra in un’ottica dell'etica della cura di carattere universalistico. Si aprono nuove dimensioni per una possibile variante dell'etica del dono.
Naturalmente la questione è delicata. Ma è inaccettabile che si denigri l’impostazione, ora delineata, come un’ipocrita relativizzazione del principio etico e si liquidino come pseudo-scientifiche le distinzioni introdotte. Se si respinge come non scientifica la denominazione di «pre-embrione», talvolta usata per segnalare la fase di sviluppo genetico che precede l'annidamento, si può replicare che non è scientifica neppure l'espressione di «concepito» che è il pilastro della filosofia della legge 40.
Trovo semplicistico qualificare tale legge come una «legge cattolica», ma non c’è dubbio che è un'occasione mancata per una prova di laicità della nostra democrazia. Questa infatti deve rispettare tutte le «visioni della vita», nel momento in cui definisce vincoli di legge per tutti i cittadini. Lo Stato laico parte dal presupposto che esiste un ethos diviso e divisivo dei suoi cittadini, che va regolato in modo ragionevolmente consensuale. Soprattutto quando fa serio riferimento al dato scientifico. L’attuale legge sulla fecondazione assistita manca questi obiettivi.
embrioni
da Valverde alla «libertà della coscienza critica»
L'Unità 28 Febbraio 2005
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima). In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano a morire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell'Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch'esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome. Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell'ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile. Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
Federico La Sala
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioché non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l'eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l'humus fa crescere il seme» (Françoise D'Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell'embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un'improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima). In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano a morire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell'Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch'esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome. Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell'ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile. Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
anniversari
la scoperta della struttura del Dna
La Provincia 28.2.04
DNA Quel 28 febbraio che aprì le porte della vita
Il biologo americano che ne scoprì la struttura, James Watson, in un libro ci racconta come, da quel giorno del 1953, molte cose sono cambiate
James Watson durante una recente conferenza nella quale ha illustrato il «Progetto Genoma»: nel 1953 il biologo americano rivelò la struttura del Dna con il collega Francis Crick
Marco Cambiaghi
Il 28 febbraio di 52 anni fa era un sabato: quel giorno James Watson e Francis Crick scoprivano la struttura della sostanza organica che sta alla base della vita. A richiamare l'importante evento è l'uscita in Italia del libro Dna. Il segreto della vita, scritto proprio da James Watson ed edito da Adelphi. Quel 28 febbraio 1953 Watson, biologo americano ventitreenne, si recò nel suo laboratorio e lì ebbe l'illuminazione della vita: aveva intuito, dopo lunghe ricerche, la struttura del Dna, la sostanza chimica che funge da messaggero della trasmissione genetica. Poco dopo lo raggiunse il suo collega Crick, fisico di 35 anni (dedicatosi alla ricerca biomolecolare dopo aver progettato mine magnetiche durante la guerra), comprendendo immediatamente l'importanza della scoperta. Insieme costituiscono il modello definitivo della molecola: il Dna ha una struttura a doppia elica, dove la 4 basi combaciano a coppie ben precise: A-T e C-G. Entrando per il pranzo nel loro solito pub, l'Eagle Pub di Cambridge, fu proprio Crick ad annunciare che, modestamente, avevano appena scoperto il «segreto della vita». Il Dna era stato scoperto quasi un secolo prima, nel 1869 da Friedrich Miecher, ma solo negli anni '50 si cominciò a studiarne meglio la struttura: Rosalind Franklin e Maurice Wilkins negli stessi anni dei due giovani ricercatori stavano infatti studiando il Dna attraverso analisi ai raggi X. Crick, Watson e Wilkins vinsero il premio Nobel nel 1962, mentre la Franklin non ebbe questa riconoscenza (il 16 aprile del 1958 all'età di 37 anni muore di cancro alle ovaie a causa della sua esposizione prolungata ai raggi X). Le scoperte e lo studio del genoma di molti organismi si moltiplicarono negli anni a venire. Nel 1959 venne identificata la prima anormalità cromosomica umana: la sindrome di Down, o trisomia del cromosoma 21. Nel 1967 Allan Wilson e Vincent Sarich dichiarano che la specie umana e i primati hanno iniziato a divergere evolutivamente intorno a 5 milioni di anni fa e non 25 come molti antropologi credevano. Nel 1973, nel primo esperimento di successo di manipolazione genetica, Stanley Cohen e Herbert Boyer inseriscono un gene di rospo in un Dna batterico, e nel 1980 Martin Cline e i suoi collaboratori creano il primo topo transgenico. Nel 1984 Alec Jeffreys e i suoi colleghi elaborano la «prova Dna», un metodo di identificazione inconfutabile, tuttora ampiamente utilizzato nelle indagini legali. Fino ad arrivare al 1990, quando ha inizio il «Progetto Genoma», un impegno internazionale per sequenziare e mappare il genoma dell'uomo, dapprima diretto dallo stesso Watson. È Bill Clinton il 26 giugno 2000 ad annunciare il completamento della prima bozza del genoma umano: abbiamo circa 30.000 geni, non molti più del piccolo verme C.Elegans che, seppur non più grande di una virgola, ne ha ben 19.000! L'aver codificato ed in parte compreso il nostro genoma e quello di molti animali ha ovviamente portato la mentalità scientifica a spingersi oltre, cercando di risolvere le sue disfunzioni o studiarne le modifiche. Il naturale susseguirsi degli eventi ha perciò portato alla creazione dei primi mutanti, come i moscerini con 4 ali o le zampe al posto delle antenne create da Ed Lewis (Nobel nel 1995), che hanno così tanto scandalizzato i tradizionalisti. Potendo togliere geni da un organismo ed inserirli in un altro, negli anni '70 si iniziò seriamente a pensare alla terapia genica: inserire in un virus capace di infettare un organismo un gene funzionale che ne sostituisca uno difettoso. I primi esperimenti su animali effettuati da Paul Berger nel 1971 scatenarono un putiferio, così da vietare successive sperimentazioni. Le scelte scientifiche e politiche furono rimesse in seguito in discussione negli anni a seguire e la terapia genica è oggi stata sperimentata anche sull'uomo. Di questi tempi, invece, le polemiche più focose sono rivolte agli Ogm, gli organismi geneticamente modificati che fanno così tanta paura. Si sente sempre più parlare di coltivazioni biologiche, Ogm-free, senza ricordare che proprio grazie agli Ogm l'uso dei pesticidi per le piante è significativamente diminuito. Inoltre, probabilmente molti non sanno che farmaci oggi ampiamente utilizzati, come l'insulina (fino al 1982 si usava quella bovina, che non è esattamente uguale all'umana, così da provocare spesso reazioni allergiche) o l'ormone della crescita, derivano da batteri Ogm. Un altro motivo per cui il Dna guadagna spesso le prime pagine dei giornali riguarda la clonazione e l'uso di embrioni a scopi scientifici. Tutti ricorderanno gli scandali provocati dalla nascita di Dolly, la pecora clonata nel 1997 da Ian Wilmut. È dell'8 febbraio la notizia che, in Gran Bretagna, il professor Wilmut ha avuto la licenza di clonare embrioni umani a scopo terapeutico. Ma il Dna è andato oltre, permettendoci di assemblare con esattezza alcuni tasselli che riguardano la storia della nostra specie. Che gli Ebrei sono indistinguibili dal resto delle popolazioni del Medio Oriente, compresi i palestinesi, in quanto tutti comuni discendenti di Abramo. O la scoperta dei nostri antenati comuni, una donna da cui derivano tutti i nostri mitocondri e un uomo, portatore del primo cromosoma Y: entrambi erano originari dell'Africa e di carnagione nera. Un'unica razza, come sostenne Einstein: la razza umana.
James Watson, «Dna. Il segreto della vita», Adelphi. 462 pagine, 39,50 euro
DNA Quel 28 febbraio che aprì le porte della vita
Il biologo americano che ne scoprì la struttura, James Watson, in un libro ci racconta come, da quel giorno del 1953, molte cose sono cambiate
James Watson durante una recente conferenza nella quale ha illustrato il «Progetto Genoma»: nel 1953 il biologo americano rivelò la struttura del Dna con il collega Francis Crick
Marco Cambiaghi
Il 28 febbraio di 52 anni fa era un sabato: quel giorno James Watson e Francis Crick scoprivano la struttura della sostanza organica che sta alla base della vita. A richiamare l'importante evento è l'uscita in Italia del libro Dna. Il segreto della vita, scritto proprio da James Watson ed edito da Adelphi. Quel 28 febbraio 1953 Watson, biologo americano ventitreenne, si recò nel suo laboratorio e lì ebbe l'illuminazione della vita: aveva intuito, dopo lunghe ricerche, la struttura del Dna, la sostanza chimica che funge da messaggero della trasmissione genetica. Poco dopo lo raggiunse il suo collega Crick, fisico di 35 anni (dedicatosi alla ricerca biomolecolare dopo aver progettato mine magnetiche durante la guerra), comprendendo immediatamente l'importanza della scoperta. Insieme costituiscono il modello definitivo della molecola: il Dna ha una struttura a doppia elica, dove la 4 basi combaciano a coppie ben precise: A-T e C-G. Entrando per il pranzo nel loro solito pub, l'Eagle Pub di Cambridge, fu proprio Crick ad annunciare che, modestamente, avevano appena scoperto il «segreto della vita». Il Dna era stato scoperto quasi un secolo prima, nel 1869 da Friedrich Miecher, ma solo negli anni '50 si cominciò a studiarne meglio la struttura: Rosalind Franklin e Maurice Wilkins negli stessi anni dei due giovani ricercatori stavano infatti studiando il Dna attraverso analisi ai raggi X. Crick, Watson e Wilkins vinsero il premio Nobel nel 1962, mentre la Franklin non ebbe questa riconoscenza (il 16 aprile del 1958 all'età di 37 anni muore di cancro alle ovaie a causa della sua esposizione prolungata ai raggi X). Le scoperte e lo studio del genoma di molti organismi si moltiplicarono negli anni a venire. Nel 1959 venne identificata la prima anormalità cromosomica umana: la sindrome di Down, o trisomia del cromosoma 21. Nel 1967 Allan Wilson e Vincent Sarich dichiarano che la specie umana e i primati hanno iniziato a divergere evolutivamente intorno a 5 milioni di anni fa e non 25 come molti antropologi credevano. Nel 1973, nel primo esperimento di successo di manipolazione genetica, Stanley Cohen e Herbert Boyer inseriscono un gene di rospo in un Dna batterico, e nel 1980 Martin Cline e i suoi collaboratori creano il primo topo transgenico. Nel 1984 Alec Jeffreys e i suoi colleghi elaborano la «prova Dna», un metodo di identificazione inconfutabile, tuttora ampiamente utilizzato nelle indagini legali. Fino ad arrivare al 1990, quando ha inizio il «Progetto Genoma», un impegno internazionale per sequenziare e mappare il genoma dell'uomo, dapprima diretto dallo stesso Watson. È Bill Clinton il 26 giugno 2000 ad annunciare il completamento della prima bozza del genoma umano: abbiamo circa 30.000 geni, non molti più del piccolo verme C.Elegans che, seppur non più grande di una virgola, ne ha ben 19.000! L'aver codificato ed in parte compreso il nostro genoma e quello di molti animali ha ovviamente portato la mentalità scientifica a spingersi oltre, cercando di risolvere le sue disfunzioni o studiarne le modifiche. Il naturale susseguirsi degli eventi ha perciò portato alla creazione dei primi mutanti, come i moscerini con 4 ali o le zampe al posto delle antenne create da Ed Lewis (Nobel nel 1995), che hanno così tanto scandalizzato i tradizionalisti. Potendo togliere geni da un organismo ed inserirli in un altro, negli anni '70 si iniziò seriamente a pensare alla terapia genica: inserire in un virus capace di infettare un organismo un gene funzionale che ne sostituisca uno difettoso. I primi esperimenti su animali effettuati da Paul Berger nel 1971 scatenarono un putiferio, così da vietare successive sperimentazioni. Le scelte scientifiche e politiche furono rimesse in seguito in discussione negli anni a seguire e la terapia genica è oggi stata sperimentata anche sull'uomo. Di questi tempi, invece, le polemiche più focose sono rivolte agli Ogm, gli organismi geneticamente modificati che fanno così tanta paura. Si sente sempre più parlare di coltivazioni biologiche, Ogm-free, senza ricordare che proprio grazie agli Ogm l'uso dei pesticidi per le piante è significativamente diminuito. Inoltre, probabilmente molti non sanno che farmaci oggi ampiamente utilizzati, come l'insulina (fino al 1982 si usava quella bovina, che non è esattamente uguale all'umana, così da provocare spesso reazioni allergiche) o l'ormone della crescita, derivano da batteri Ogm. Un altro motivo per cui il Dna guadagna spesso le prime pagine dei giornali riguarda la clonazione e l'uso di embrioni a scopi scientifici. Tutti ricorderanno gli scandali provocati dalla nascita di Dolly, la pecora clonata nel 1997 da Ian Wilmut. È dell'8 febbraio la notizia che, in Gran Bretagna, il professor Wilmut ha avuto la licenza di clonare embrioni umani a scopo terapeutico. Ma il Dna è andato oltre, permettendoci di assemblare con esattezza alcuni tasselli che riguardano la storia della nostra specie. Che gli Ebrei sono indistinguibili dal resto delle popolazioni del Medio Oriente, compresi i palestinesi, in quanto tutti comuni discendenti di Abramo. O la scoperta dei nostri antenati comuni, una donna da cui derivano tutti i nostri mitocondri e un uomo, portatore del primo cromosoma Y: entrambi erano originari dell'Africa e di carnagione nera. Un'unica razza, come sostenne Einstein: la razza umana.
James Watson, «Dna. Il segreto della vita», Adelphi. 462 pagine, 39,50 euro
archeologia
il tesoro di Priamo conteso
Corriere della Sera 28.2.05
Il «tesoro di Priamo» resta (per ora) all’ombra del Cremlino
La disputa tra Germania e Russia per il «tesoro di Priamo» si arricchisce di un nuovo capitolo. L’oro di Troia - scoperto dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel 1873 sotto le rovine dell’antica città turca e trafugato dal Museo nazionale di Berlino nel 1945 dalle truppe sovietiche - resterà proprietà del governo di Mosca come parte del risarcimento per i danni di guerra. Ad affermarlo in un’intervista al Moskovsky Komsomolets è Anatoly Vilkov, vicedirettore dell’agenzia culturale russa. Il «tesoro di Priamo» è stato abbandonato per circa mezzo secolo in un deposito sotterraneo segreto del Museo Puskin ed esposto al pubblico per la prima volta solo nell’aprile del 1996, con una mostra parziale della collezione. Proprio da metà degli anni Novanta va avanti la contesa tra il Cremlino e Berlino per il possesso del tesoro: la controversia tra i due Paesi sembra però in stallo. Infatti, anche la Russia ha delle pretese sui bottini di guerra tedeschi risalenti al secondo conflitto mondiale. In ogni caso, parlare di «tesoro di Priamo» è storicamente scorretto: l’oro non apparteneva al leggendario re di Troia, ma è di un’epoca anteriore ai fatti narrati da Omero.
Il «tesoro di Priamo» resta (per ora) all’ombra del Cremlino
La disputa tra Germania e Russia per il «tesoro di Priamo» si arricchisce di un nuovo capitolo. L’oro di Troia - scoperto dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel 1873 sotto le rovine dell’antica città turca e trafugato dal Museo nazionale di Berlino nel 1945 dalle truppe sovietiche - resterà proprietà del governo di Mosca come parte del risarcimento per i danni di guerra. Ad affermarlo in un’intervista al Moskovsky Komsomolets è Anatoly Vilkov, vicedirettore dell’agenzia culturale russa. Il «tesoro di Priamo» è stato abbandonato per circa mezzo secolo in un deposito sotterraneo segreto del Museo Puskin ed esposto al pubblico per la prima volta solo nell’aprile del 1996, con una mostra parziale della collezione. Proprio da metà degli anni Novanta va avanti la contesa tra il Cremlino e Berlino per il possesso del tesoro: la controversia tra i due Paesi sembra però in stallo. Infatti, anche la Russia ha delle pretese sui bottini di guerra tedeschi risalenti al secondo conflitto mondiale. In ogni caso, parlare di «tesoro di Priamo» è storicamente scorretto: l’oro non apparteneva al leggendario re di Troia, ma è di un’epoca anteriore ai fatti narrati da Omero.
fecondazione assistita
Corriere della Sera 28.2.05
«Quella foto e la mia vita tra le provette»
La biologa dell’immagine-simbolo del dibattito sulla fecondazione assistita
Enzo d’Errico
NAPOLI - Nessun figlio. Almeno finora. E, comunque, per scelta. Quella scelta che, invece, il destino ha negato alle centinaia e centinaia di donne che, in questi anni, sono venute a cercare l’ultima briciola di speranza nelle stanze del Centro Mediterraneo per la fecondazione assistita, dove Mirella Iaccarino lavora accanto al padre, Mariano, che dirige la struttura. D’accordo, vi starete chiedendo: ma chi è Mirella Iaccarino? E, soprattutto, perché dobbiamo ascoltare la sua storia? Il motivo è semplice: questa trentaduenne biologa napoletana, figlia di uno dei più noti ginecologi della città, è diventata suo malgrado il simbolo iconografico del dibattito etico-scientifico che sta lacerando il Paese e gli stessi schieramenti politici.
La sua immagine, scattata dal fotografo vesuviano Ciro Fusco, accompagna da settimane nelle pagine di tutti i giornali italiani le cronache sulla fecondazione assistita. E’ ritratta mentre lavora in sala operatoria ad un impianto di embrioni. I capelli sono raccolti in una piccola cuffia, ma il volto è in primo piano. Ecco perché tanti amici e colleghi l’hanno riconosciuta subito. «E ogni volta che quella foto viene pubblicata - aggiunge -, mi bersagliano di telefonate, dicendomi che sono diventata il simbolo di questa vicenda. All’inizio, pensavo che scherzassero, poi col passare del tempo mi sono accorta che facevano sul serio. Grazie al cielo, però, nessuno mi ha riconosciuta, a parte loro. Altrimenti... Beh, posso dirlo? Sono mostruosa in quello scatto... Non certo per colpa del fotografo: diciamo che la situazione non era fra le più indicate per un ritratto».
E giù un sorriso che mescola un pizzico di vanità femminile a una buona dose d’ironia, perché Mirella Iaccarino in questi otto anni spesi fra provette e congelatori ha imparato cos’è il tormento d’una donna che vuole diventare madre e non ci riesce, le sue angosce e le sue illusioni. E sa attutire col sorriso i piccoli inciampi della vita quotidiana.
«Ci sono stati dei momenti in cui avrei fatto volentieri a meno di vedere, sui giornali, la mia immagine associata a questioni come la clonazione e gli scambi di provetta, cose lontane anni luce dalla fecondazione assistita - spiega -. Io credo in questo lavoro, anche se non nascondo d’averlo scelto perché mio padre mi dava l’opportunità di farlo al meglio. Adesso, tuttavia, è una vera e propria passione: ho appena terminato all’università di Leeds il master di embriologia clinica. E lì nessuno sapeva chi fossi...».
Sta di fatto che fra pochi mesi anche Mirella Iaccarino, al pari degli altri italiani, dovrà decidere come rispondere ai quesiti referendari sulla legge che regolamenta le nascite in provetta. E sarebbe davvero singolare se lei, che bene o male è diventata il simbolo iconografico di questa discussione, si ritrovasse a difendere... «Difendere cosa? - sbotta -. Per me, già i referendum rappresentano un compromesso, figuriamoci se potrei sposare una sola delle tesi contenute dentro quella normativa. Anzi, lo dico chiaro e tondo: ero e rimango per l’abrogazione totale. Sia chiaro: una regolamentazione è necessaria, se vogliamo evitare che le donne cadano nelle mani d’imbroglioni e speculatori. Ma il punto è che una legge dovrebbe garantire standard di qualità ed efficienza nelle strutture sanitarie del settore, non imporre vincoli legati esclusivamente alla morale cattolica».
Mica vorrà liquidare così i dubbi della Chiesa e di chi s’appella alla sacralità dell’embrione come primo germoglio della vita. «I dati scientifici dimostrano che non c’è corrispondenza fra embrione e persona - ribatte Mirella Iaccarino -. Se è vero, infatti, che ogni persona era un embrione, non è vero che ogni embrione diventa una persona. Soltanto il venti per cento di essi attecchisce nell’utero, dunque di cosa parliamo? Lo ripeto: al punto in cui siamo, ben vengano i referendum, così almeno potremo cancellare i quattro punti fondamentali di questa orrenda legge. Per quanto mi riguarda, farò il possibile affinché la gente vada alle urne e vincano i sì. Dite che la mia foto sui giornali è il simbolo di questa contesa? Allora spero che serva a qualcosa e sono pronta a fare la campagna referendaria in prima fila. Già adesso, quando è possibile, ne parlo con le mie pazienti, cercando di spiegare quante informazioni sbagliate vengono contrabbandate come autentiche pur d’impedire che la scienza vada avanti e aiuti a risolvere piccole e grandi tragedie familiari».
Del resto, secondo la biologa napoletana, la nuova legge sta già producendo i suoi effetti. «Abbiamo una drastica riduzione del tasso di gravidanza assistita nelle pazienti oltre i trentacinque anni - racconta -. Al contrario, aumenta notevolmente il numero delle gestazioni gemellari nelle più giovani. Io sono sposata e finora non ho voluto figli. La mia, però, è stata una scelta. Per queste donne, invece no. E nessuno può togliere loro il diritto di provare a diventare madri. Come hanno sempre sognato».
«Quella foto e la mia vita tra le provette»
La biologa dell’immagine-simbolo del dibattito sulla fecondazione assistita
Enzo d’Errico
NAPOLI - Nessun figlio. Almeno finora. E, comunque, per scelta. Quella scelta che, invece, il destino ha negato alle centinaia e centinaia di donne che, in questi anni, sono venute a cercare l’ultima briciola di speranza nelle stanze del Centro Mediterraneo per la fecondazione assistita, dove Mirella Iaccarino lavora accanto al padre, Mariano, che dirige la struttura. D’accordo, vi starete chiedendo: ma chi è Mirella Iaccarino? E, soprattutto, perché dobbiamo ascoltare la sua storia? Il motivo è semplice: questa trentaduenne biologa napoletana, figlia di uno dei più noti ginecologi della città, è diventata suo malgrado il simbolo iconografico del dibattito etico-scientifico che sta lacerando il Paese e gli stessi schieramenti politici.
La sua immagine, scattata dal fotografo vesuviano Ciro Fusco, accompagna da settimane nelle pagine di tutti i giornali italiani le cronache sulla fecondazione assistita. E’ ritratta mentre lavora in sala operatoria ad un impianto di embrioni. I capelli sono raccolti in una piccola cuffia, ma il volto è in primo piano. Ecco perché tanti amici e colleghi l’hanno riconosciuta subito. «E ogni volta che quella foto viene pubblicata - aggiunge -, mi bersagliano di telefonate, dicendomi che sono diventata il simbolo di questa vicenda. All’inizio, pensavo che scherzassero, poi col passare del tempo mi sono accorta che facevano sul serio. Grazie al cielo, però, nessuno mi ha riconosciuta, a parte loro. Altrimenti... Beh, posso dirlo? Sono mostruosa in quello scatto... Non certo per colpa del fotografo: diciamo che la situazione non era fra le più indicate per un ritratto».
E giù un sorriso che mescola un pizzico di vanità femminile a una buona dose d’ironia, perché Mirella Iaccarino in questi otto anni spesi fra provette e congelatori ha imparato cos’è il tormento d’una donna che vuole diventare madre e non ci riesce, le sue angosce e le sue illusioni. E sa attutire col sorriso i piccoli inciampi della vita quotidiana.
«Ci sono stati dei momenti in cui avrei fatto volentieri a meno di vedere, sui giornali, la mia immagine associata a questioni come la clonazione e gli scambi di provetta, cose lontane anni luce dalla fecondazione assistita - spiega -. Io credo in questo lavoro, anche se non nascondo d’averlo scelto perché mio padre mi dava l’opportunità di farlo al meglio. Adesso, tuttavia, è una vera e propria passione: ho appena terminato all’università di Leeds il master di embriologia clinica. E lì nessuno sapeva chi fossi...».
Sta di fatto che fra pochi mesi anche Mirella Iaccarino, al pari degli altri italiani, dovrà decidere come rispondere ai quesiti referendari sulla legge che regolamenta le nascite in provetta. E sarebbe davvero singolare se lei, che bene o male è diventata il simbolo iconografico di questa discussione, si ritrovasse a difendere... «Difendere cosa? - sbotta -. Per me, già i referendum rappresentano un compromesso, figuriamoci se potrei sposare una sola delle tesi contenute dentro quella normativa. Anzi, lo dico chiaro e tondo: ero e rimango per l’abrogazione totale. Sia chiaro: una regolamentazione è necessaria, se vogliamo evitare che le donne cadano nelle mani d’imbroglioni e speculatori. Ma il punto è che una legge dovrebbe garantire standard di qualità ed efficienza nelle strutture sanitarie del settore, non imporre vincoli legati esclusivamente alla morale cattolica».
Mica vorrà liquidare così i dubbi della Chiesa e di chi s’appella alla sacralità dell’embrione come primo germoglio della vita. «I dati scientifici dimostrano che non c’è corrispondenza fra embrione e persona - ribatte Mirella Iaccarino -. Se è vero, infatti, che ogni persona era un embrione, non è vero che ogni embrione diventa una persona. Soltanto il venti per cento di essi attecchisce nell’utero, dunque di cosa parliamo? Lo ripeto: al punto in cui siamo, ben vengano i referendum, così almeno potremo cancellare i quattro punti fondamentali di questa orrenda legge. Per quanto mi riguarda, farò il possibile affinché la gente vada alle urne e vincano i sì. Dite che la mia foto sui giornali è il simbolo di questa contesa? Allora spero che serva a qualcosa e sono pronta a fare la campagna referendaria in prima fila. Già adesso, quando è possibile, ne parlo con le mie pazienti, cercando di spiegare quante informazioni sbagliate vengono contrabbandate come autentiche pur d’impedire che la scienza vada avanti e aiuti a risolvere piccole e grandi tragedie familiari».
Del resto, secondo la biologa napoletana, la nuova legge sta già producendo i suoi effetti. «Abbiamo una drastica riduzione del tasso di gravidanza assistita nelle pazienti oltre i trentacinque anni - racconta -. Al contrario, aumenta notevolmente il numero delle gestazioni gemellari nelle più giovani. Io sono sposata e finora non ho voluto figli. La mia, però, è stata una scelta. Per queste donne, invece no. E nessuno può togliere loro il diritto di provare a diventare madri. Come hanno sempre sognato».
storia
la Russia
Corriere della Sera 28.2.05
La lunga linea rossa, da Ivan il Terribile a Putin
C’è una lunga linea rossa che percorre tutta la storia della Russia, dalla Russia di Kiev a quella di Mosca, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla Grande Caterina a Nicola II, da Stalin a Gorbaciov. Questa costante, indipendentemente da chi era al potere, ma che il potere ha caratterizzato come in nessun altro Paese al mondo, si chiama autocrazia, il potere legibus solutus, al di sopra e al di fuori della legge, di un autocrate, fosse esso lo zar o il Partito comunista. Un potere che è la negazione stessa della democrazia e dello Stato di diritto e della rule of law, il «governo della legge». In Russia - con la sola, pallida eccezione, forse, dell’ultima stagione dell’impero zarista, prima della Rivoluzione d’Ottobre - ha costantemente governato l’arbitrio, e quando al volere dell’autocrate è subentrata una parvenza di legalità, secondo teoria e prassi giuspositivista, quest’ultima non è mai stata sorretta dal principio di legittimità, della «legge giusta», cioè dal rispetto dei diritti individuali, secondo teoria e prassi giusnaturalista propria dei Paesi di grande tradizione liberale e democratica.
La Russia non ha mai vissuto le guerre di religione, che hanno dilaniato il resto dell’Europa fino alla pace di Westfalia (1648), che ad esse avrebbe posto fine con la nascita del concetto di sovranità, ma che sono state contemporaneamente la premessa storica e politica della libertà di coscienza. Non ha vissuto l’Illuminismo, con la sua componente razionalistica e con il suo culto della tolleranza, premessa della grande rivoluzione francese del 1789, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della democrazia.
Dell’Illuminismo la Russia ha colto, se mai, l’aspetto antidemocratico e elitistico della seconda parte della grande rivoluzione, quella del giacobinismo e del Terrore trionfanti, primogenitori del leninismo e della presunzione deterministica marxiana di poter interpretare il corso della storia e di prevederne gli inevitabili esiti. Infine, la Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale, progenitrice del moderno capitalismo e del primo embrione di globalizzazione, ma anche del sindacalismo e del socialismo democratico, dei diritti dei lavoratori.
È in tale contesto socio-culturale e socio-politico che si è sviluppata, manifestata e maturata la seconda costante della Russia zarista, dell’Unione Sovietica, poi, che ancora informa e condiziona la politica estera della Russia post-sovietica: il panslavismo, espressione diretta del «complesso dell’accerchiamento» di cui hanno sofferto tutti i suoi governanti. L’immenso territorio sul quale si è estesa la Russia di sempre, per un terzo europea e due terzi asiatica, ha generato quasi inevitabilmente e inesorabilmente nelle sue popolazioni la sensazione di essere costantemente esposte a una possibile aggressione attraverso confini che, per la loro lunghezza e la loro distanza dal centro politico del Paese, sono stati sempre percepiti, sia dall’interno, sia dall’esterno, come «aperti» all’invasione. La paura ha generato una forte tendenza espansionistica, che, provocando a sua volta la reazione dei vicini, ha alimentato, come in un circolo vizioso, nuove paure nei russi. Il panslavismo ha assunto, pertanto, due forme, l’una - diremmo - europea, l’altra asiatica. La prima, si è caratterizzata come «estroversione», cioè come desiderio di integrazione nella cultura e nella società occidentali e europee. La seconda, come «introversione», cioè come volontà di separatezza asiatica. Ivan fu un panslavista della seconda specie e così fu Stalin; Pietro lo fu della prima specie e così lo è stato Gorbaciov e, entro certi limiti, lo è Putin.
Questa è, dunque, la Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, fino al 1983, integrata e aggiornata da Sergio Romano con un ultimo capitolo su quella contemporanea, dal 1983 ai giorni nostri, che il Corriere della Sera offre ai suoi lettori. Una lettura utile non solo a comprendere il passato di un grande Paese, con il quale l’Europa ha sempre dovuto e ancora deve fare i conti, ma anche il futuro del mondo intero.
La lunga linea rossa, da Ivan il Terribile a Putin
C’è una lunga linea rossa che percorre tutta la storia della Russia, dalla Russia di Kiev a quella di Mosca, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla Grande Caterina a Nicola II, da Stalin a Gorbaciov. Questa costante, indipendentemente da chi era al potere, ma che il potere ha caratterizzato come in nessun altro Paese al mondo, si chiama autocrazia, il potere legibus solutus, al di sopra e al di fuori della legge, di un autocrate, fosse esso lo zar o il Partito comunista. Un potere che è la negazione stessa della democrazia e dello Stato di diritto e della rule of law, il «governo della legge». In Russia - con la sola, pallida eccezione, forse, dell’ultima stagione dell’impero zarista, prima della Rivoluzione d’Ottobre - ha costantemente governato l’arbitrio, e quando al volere dell’autocrate è subentrata una parvenza di legalità, secondo teoria e prassi giuspositivista, quest’ultima non è mai stata sorretta dal principio di legittimità, della «legge giusta», cioè dal rispetto dei diritti individuali, secondo teoria e prassi giusnaturalista propria dei Paesi di grande tradizione liberale e democratica.
La Russia non ha mai vissuto le guerre di religione, che hanno dilaniato il resto dell’Europa fino alla pace di Westfalia (1648), che ad esse avrebbe posto fine con la nascita del concetto di sovranità, ma che sono state contemporaneamente la premessa storica e politica della libertà di coscienza. Non ha vissuto l’Illuminismo, con la sua componente razionalistica e con il suo culto della tolleranza, premessa della grande rivoluzione francese del 1789, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della democrazia.
Dell’Illuminismo la Russia ha colto, se mai, l’aspetto antidemocratico e elitistico della seconda parte della grande rivoluzione, quella del giacobinismo e del Terrore trionfanti, primogenitori del leninismo e della presunzione deterministica marxiana di poter interpretare il corso della storia e di prevederne gli inevitabili esiti. Infine, la Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale, progenitrice del moderno capitalismo e del primo embrione di globalizzazione, ma anche del sindacalismo e del socialismo democratico, dei diritti dei lavoratori.
È in tale contesto socio-culturale e socio-politico che si è sviluppata, manifestata e maturata la seconda costante della Russia zarista, dell’Unione Sovietica, poi, che ancora informa e condiziona la politica estera della Russia post-sovietica: il panslavismo, espressione diretta del «complesso dell’accerchiamento» di cui hanno sofferto tutti i suoi governanti. L’immenso territorio sul quale si è estesa la Russia di sempre, per un terzo europea e due terzi asiatica, ha generato quasi inevitabilmente e inesorabilmente nelle sue popolazioni la sensazione di essere costantemente esposte a una possibile aggressione attraverso confini che, per la loro lunghezza e la loro distanza dal centro politico del Paese, sono stati sempre percepiti, sia dall’interno, sia dall’esterno, come «aperti» all’invasione. La paura ha generato una forte tendenza espansionistica, che, provocando a sua volta la reazione dei vicini, ha alimentato, come in un circolo vizioso, nuove paure nei russi. Il panslavismo ha assunto, pertanto, due forme, l’una - diremmo - europea, l’altra asiatica. La prima, si è caratterizzata come «estroversione», cioè come desiderio di integrazione nella cultura e nella società occidentali e europee. La seconda, come «introversione», cioè come volontà di separatezza asiatica. Ivan fu un panslavista della seconda specie e così fu Stalin; Pietro lo fu della prima specie e così lo è stato Gorbaciov e, entro certi limiti, lo è Putin.
Questa è, dunque, la Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, fino al 1983, integrata e aggiornata da Sergio Romano con un ultimo capitolo su quella contemporanea, dal 1983 ai giorni nostri, che il Corriere della Sera offre ai suoi lettori. Una lettura utile non solo a comprendere il passato di un grande Paese, con il quale l’Europa ha sempre dovuto e ancora deve fare i conti, ma anche il futuro del mondo intero.
L’opera: oggi in edicola con il «Corriere della Sera» esce «Storia della Russia» di Nicholas V. Riasanovsky integrato da un capitolo di Sergio Romano sulla Russia contemporanea e con una prefazione di Vittorio Strada. È il 27° volume della Storia Universale, in vendita a 12,90 oltre al prezzo del quotidiano
Lella Bertinotti
...e intanto Fausto va al Congresso
Corriere della Sera 28.2.05
VERSO IL CONGRESSO / «Crisi anche tra di noi, ci ha unito l’affetto»
«Prc, donne poco visibili A Fausto tutto lo spazio»
Lella Bertinotti: non siamo una coppia da Mulino Bianco
Maria Latella
ROMA - «Comincio a preoccuparmi già qualche giorno prima. Perchè per Fausto il congresso è, insieme, emozione e fatica fisica. Così, lo vivo anch’io: con emozione e con un po’di preoccupazione». Lella e Fausto Bertinotti stanno insieme da quarant’anni e in quarant’anni hanno condiviso cambiamenti di città e di lavoro, la nascita del figlio e dei nipoti, la carriera di lui, l’adeguarsi di lei. Non è una moglie del genere «un passo indietro» Lella Bertinotti. Ha sempre camminato insieme al marito, talvolta precedendolo nelle scelte politiche. Lui era socialista, lei del Psiup: finirono entrambi nel Pci, ma lei prima di lui. «Anche a Rifondazione, se è per questo, mi sono iscritta con anni di anticipo rispetto a Fausto. Il Pci l’ho lasciato nel 1987: avevo capito dove si stava andando a parare». Marina Sereni è stata appena nominata responsabile dell’organizzazione dei Ds. Un ruolo importante. Come mai non c’è una donna di Rifondazione Comunista con una vera visibilità?
«Le donne ci sono e lavorano moltissimo. Per fare politica, una donna deve metterci il doppio della passione che ci mette un uomo, perchè dovrà rinunciare a molte più cose. Comunque è vero, le donne hanno poca visibilità: è l’effetto di una politica che ruota sempre intorno alle stesse facce. Rifondazione non sfugge alla regola: purtroppo è molto Bertinotti e c’è poco spazio per gli altri».
Colpa di Bertinotti.
«No. Lui spesso propone altri, per un’intervista, per una trasmissione televisiva. Qualche volta la proposta viene fatta cadere, altre volte non succede niente».
Lei si considera più a destra o più a sinistra di suo marito?
«Non so se è giusto definirmi più a sinistra... Forse si tratta di una collocazione più umana che politica. Insomma: io non sarei capace di trattare con certe persone, Fausto invece lo fa».
Chi le piace e chi le dispiace dei leader politici?
«Parliamo di quelli stranieri, è meglio. Ne ho conosciuti tanti, da Fidel Castro ad Arafat, a Marcos. E’ uno dei regali che ho ricevuto dalla politica: poter conoscere personaggi straordinari. A Cuba dormivamo in una casa, il cui giardino comunicava con quello di Gabriel Garcia Marquez. Mi alzavo all’alba per vederlo e una volta lui mi ha scoperta: "Cosa fa in piedi a quest’ora?". "Speravo di incontrarla" gli ho detto, come se fossi una fan di quindici anni. Un incontro sorprendente è stato quello con Chavez, il presidente venezuelano. Ero molto titubante, in fondo ha un passato da paracadutista. Invece è interessante, simpatico, autoironico».
Quarant’anni insieme a suo marito. Mai tentati dalla separazione?
«Certo che ci sono stati momenti di crisi, se no saremmo una coppia da Mulino Bianco. Ci sono stati, ma sono passati col prevalere della solidarietà, degli affetti».
E’ stata più moglie o più madre?
Pausa di incertezza. «Con tutti gli inevitabili errori, credo di essere stata una madre presente, per Duccio. Il padre lo seguiva negli studi, ma per il resto ci sono sempre stata io. Per anni abbiamo sentito dire che non conta la quantità del tempo dedicato ai figli, conta la qualità... Baggianate. Contano le ore, altrochè. I figli vogliono una madre attenta, interessata a loro, non distratta da mille altre cose».
Che cosa è cambiato rispetto agli anni in cui lei era una giovane mamma?
«C’è la lacerazione delle famiglie. Questo è cambiato. I bambini, oggi, crescono in famiglie che non sono più unite. Succede, è successo anche ai miei nipotini. Ed è una differenza grandissima perchè i primi a sentirsi precari sono proprio i piccoli. Provate a chiedere a un bambino se preferisce che mamma e papà restino insieme bisticciando o se è meglio che si separino. Risponderà che li vuole insieme, pure se bisticciano. I nostri figli crescevano con la certezza di avere una famiglia, brutta o bella che fosse. I bambini di adesso questa certezza non ce l’hanno».
La politica può influire su questa dimensione della vita?
«La politica può fare tantissimo. A cominciare dalla scuola. Io ho lavorato per trent’anni nella pubblica amministrazione, prima alla Provincia di Novara, poi a Torino e a Roma. All’epoca, la Provincia aveva larghe competenze sulla scuola e io ho seguito i viaggi che si organizzavano per gli studenti, ad Auschwitz o in Sicilia, per far conoscere loro il teatro di Pirandello. Oggi la scuola mi pare molto trascurata. Si dimentica che non è solo sede di apprendimento, ma luogo in cui si formano i cittadini. Tanto più in una fase come questa, con le famiglie fragili di adesso».
Difficile che la scuola si sostituisca alla famiglia, non le pare?
«Non sto dicendo questo. Ma la scuola dovrebbe poter intervenire. Mi dicono che negli istituti scolastici i centri di assistenza psicologica hanno liste d’attesa lunghissime. Ci sono tanti problemi, nuovi e vecchi, dalle tensioni domestiche alla droga. La politica può e deve occuparsi di questioni che peggiorano la vita delle famiglie, dal costo degli affitti alla precarietà del lavoro».
Le sembra che Fausto Bertinotti se ne occupi?
«A me sembra tra i più attenti. Se il salario non fosse precario, forse nelle famiglie si litigherebbe meno... Qualche volta gli dico che parla troppo poco di scuola».
Forse vuole tenersi buono il voto degli studenti...
Ride. «Non credo. I giovani votano Rifondazione perchè sentono che parliamo delle loro preoccupazioni, il salario sociale, il futuro precario...».
Del futuro precario che cosa la preoccupa di più?
«Il fatto che si possa crescere senza forti ideali. Dall’assenza di ideali derivano tutte le altre preoccupazioni, il farsi male con la droga, il ricorrere alla violenza. Con i miei nipoti cerco di parlare di questo, anche se sono piccoli. Leggo loro delle storie oppure vediamo insieme dei film. Poi ci sono quelle che Natalia Ginzburg chiamava "le piccole virtù": insegnar loro che è bello voler bene alla città in cui si vive, che bisogna proteggerla, non buttare la carta del gelato per terra... Ogni tanto mi scappa di mano il mio ruolo di nonna e tendo a fare l’educatrice. Non dovrei, lo so, ci sono mamma e papà per questo».
L'Unità 28 Febbraio 2005
«Non sarà l’ultimo congresso comunista»
Bertinotti: il timone riformista? Le parole di Prodi non mi offendono, proveremo a metterle in discussione
Simone Collini
ROMA Fausto Bertinotti esclude che quello che si apre giovedì a Venezia Lido sia l’ultimo congresso di un partito comunista. Alle quattro mozioni di minoranza che contestano l’alleanza con il centrosinistra, il segretario del Prc risponde che in questa fase il partito deve entrare in un eventuale governo dell’Unione, mentre alla Federazione dell’Ulivo fa sapere: «Quando Prodi dice che il timone deve essere riformista, io non mi offendo. Dico però che proveremo a dimostrare che questo può essere messo in discussione».
Onorevole Bertinotti, per ora la sua mozione è data al 59,7% dei consensi. Valeva la pena annunciare a gennaio che avrebbe governato il partito anche con il 51%?
«Non era un atteggiamento arrogante, quello, non aveva il senso di una manifestazione muscolare. Il messaggio era: andiamo a un chiarimento di fondo ora, perché poi si apre una fase complessa di gestione - che va dalle elezioni regionali alle politiche, dalla costruzione dell’Unione alla definizione del programma dell’alternativa - che deve essere messa al riparo da elementi di incertezza e di ambiguità».
A giudicare dalle dichiarazioni che vengono dalle minoranze alla vigilia del congresso nazionale, il chiarimento sembra tutt’altro che compiuto.
«Da parte nostra ci siamo mossi su una linea molto netta, non si è fatta nessuna concessione, anzi addirittura si è lavorato a rendere particolarmente nitido il profilo della scelta. Quindi è naturale che le ragioni di contrasto emergano e continuino ad emergere ora. Questo è un congresso di scelta netta, e mi pare che la nostra posizione sia stata premiata, perché in questi ultimi anni abbiamo governato il partito con percentuali inferiori».
Secondo il senatore Malabarba, la sua proposta vince ma non convince, e definisce emblematico il caso del circolo di Mirafiori, dove la mozione trotskista di cui è primo firmatario ha superato il 65% dei consensi.
«È un’operazione inelegante e poco significativa. Né mi piace replicare, perché potrei farlo citando molte altre realtà operaie o di lotta che non ritengo gerarchicamente inferiori rispetto a Mirafiori, a cui pure mi sento molto legato».
Fiat Mirafiori è un luogo simbolo della lotta operaia...
«Allora dico che Acerra non è meno importante, Terni non è meno importante. Ma lo dico non per una rivalsa, ma per sottolineare che si sta insistendo su un’idea del conflitto chiaramente diversa da quella che il movimento ci ha insegnato. Siccome le forme plurali di lotta vanno dal luogo di lavoro al territorio, dalla struttura dei servizi a nuove forme di organizzazione come l’articolazione dei centri sociali, la riduzione di tutte queste espressioni ad una sola è un’operazione poco rispettosa della struttura stessa del movimento».
Tutte e quattro le mozioni alternative alla sua contestano l’alleanza con il centrosinistra: o perché ancora non si è discusso il programma, come fa l’area dell’Ernesto, o perché il Prc non può andare al governo con forze liberali, come sostengono i trotskisti. Come risponde?
«Rispondo con due argomentazioni. La prima, è che è del tutto arbitrario e anche fuorviante individuare il centro del congresso nella questione del governo. Il centro è la costruzione di un’alternativa di società di fronte alle crisi delle politiche neoliberiste e in un mondo caratterizzato dalla guerra e dal terrorismo».
Sembra elusivo...
«Nient’affatto. Stiamo parlando di mettere in campo ricette politiche completamente diverse dalle attuali. Dico anche che l’impoverimento della politica che si produce con la centralità del governo è foriera di grandissimi danni e che per quanto ne siamo capaci noi dobbiamo evitarla. Il governo è considerato un passaggio che può doversi fare, non necessariamente indica una collocazione in sé migliore di quella dell’opposizione, dipende. Ma il punto è capire in che strategia è inserita questa scelta. E in questa strategia, in cui resta centrale il rapporto con i movimenti, il senso che vogliamo trasmettere è di un aut-aut, per l’Italia, per l’Europa, per il mondo. Abbiamo o no una percezione drammatica del passaggio che la destra opera in Italia e nel mondo? C’è una necessità della politica oppure no?».
Detto nel modo più semplice possibile?
«In questa situazione, se una forza politica di sinistra non si mette nella condizione di raccogliere la domanda che viene da tutti i popoli della sinistra di cacciare Berlusconi, dimostrando il proprio contributo attivo, finisce per essere cancellata come forza di massa. E aggiungo giustamente, perché vorrebbe dire che non si vedono le conseguenze, anche di lungo periodo, provocate dalle politiche del governo Berlusconi».
Al congresso di Rimini avete rotto con lo stalinismo. Questo potrebbe essere l’ultimo congresso di un partito comunista?
«No. Da Rimini siamo andati avanti fino alla nonviolenza e abbiamo lavorato per riformare profondamente la nostra cultura politica, questo è vero. Però tutta questa operazione è fatta in modo da consentire per la prima volta dopo 25 anni una uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, perché se alla fine del secolo scorso la partita era chiusa, all’inizio di questo secolo si è riaperta».
E questo che sia l’ultimo congresso che la vede segretario, si può dire?
«Ho il dovere di riserbo nei confronti dei congressisti. Però penso che la politica non si sottragga alla legge del tempo».
L’Europa del centrosinistra sarà stretta alleata degli Stati Uniti?
«Io spero in un atlantico largo, che è l’unica protezione possibile al riparo della quale possa crescere un’Europa autonoma, sia come soggetto di politica internazionale, sia come modello sociale ed economico».
Secondo D’Alema il Papa ha giocato un ruolo positivo nella fine dell’Unione sovietica, secondo lei?
«Dico soltanto che malgrado veda l’incidenza della globalizzazione e anche di forze come quelle della chiesa, penso che la ragione principale del crollo dei regimi sia tutta interna».
Cioè?
«C’è stata un’implosione per perdita di consenso. E, perciò, storicamente comprensibile e giustificata».
Il Tempo 27.2.05
LA CONTROMOSSA DI RIFONDAZIONE Ma Bertinotti rilancia:
«Dobbiamo trovare un accordo»
«NOI siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella "ospitalità elettorale" nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche». Lo afferma il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo — dice ancora il leader del Prc — per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente — dice ancora il segretario di Rifondazione — questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico». Bertinotti infine, riferendosi anche alle considerazioni di Arturo Parisi in una lettera al Corriere della Sera, lega il discorso dell'alleanza con i Radicali alla questione del bipolarismo e della legge elettorale. «Proprio noi, che da sempre siamo contrari al maggioritario, e pur dovendolo subire, non rinunciamo all'idea — afferma il leader del Prc — di una riforma istituzionale basata su un sistema essenzialmente proporzionale, non possiamo semplicemente rispondere: "chi è causa del suo mal pianga se stesso"». «Anzi, dobbiamo aggiungere esplicitamente un altro motivo della nostra disponibilità alla "ospitalità" elettoralè verso i Radicali, quello, appunto di una critica in positivo e di una contromossa, per quanto limitata, rispetto all'attuale sistema elettorale. Il che — conclude Bertinotti — può essere anche un buon esempio, un pro-memoria, per la prossima legislatura».
VERSO IL CONGRESSO / «Crisi anche tra di noi, ci ha unito l’affetto»
«Prc, donne poco visibili A Fausto tutto lo spazio»
Lella Bertinotti: non siamo una coppia da Mulino Bianco
Maria Latella
ROMA - «Comincio a preoccuparmi già qualche giorno prima. Perchè per Fausto il congresso è, insieme, emozione e fatica fisica. Così, lo vivo anch’io: con emozione e con un po’di preoccupazione». Lella e Fausto Bertinotti stanno insieme da quarant’anni e in quarant’anni hanno condiviso cambiamenti di città e di lavoro, la nascita del figlio e dei nipoti, la carriera di lui, l’adeguarsi di lei. Non è una moglie del genere «un passo indietro» Lella Bertinotti. Ha sempre camminato insieme al marito, talvolta precedendolo nelle scelte politiche. Lui era socialista, lei del Psiup: finirono entrambi nel Pci, ma lei prima di lui. «Anche a Rifondazione, se è per questo, mi sono iscritta con anni di anticipo rispetto a Fausto. Il Pci l’ho lasciato nel 1987: avevo capito dove si stava andando a parare». Marina Sereni è stata appena nominata responsabile dell’organizzazione dei Ds. Un ruolo importante. Come mai non c’è una donna di Rifondazione Comunista con una vera visibilità?
«Le donne ci sono e lavorano moltissimo. Per fare politica, una donna deve metterci il doppio della passione che ci mette un uomo, perchè dovrà rinunciare a molte più cose. Comunque è vero, le donne hanno poca visibilità: è l’effetto di una politica che ruota sempre intorno alle stesse facce. Rifondazione non sfugge alla regola: purtroppo è molto Bertinotti e c’è poco spazio per gli altri».
Colpa di Bertinotti.
«No. Lui spesso propone altri, per un’intervista, per una trasmissione televisiva. Qualche volta la proposta viene fatta cadere, altre volte non succede niente».
Lei si considera più a destra o più a sinistra di suo marito?
«Non so se è giusto definirmi più a sinistra... Forse si tratta di una collocazione più umana che politica. Insomma: io non sarei capace di trattare con certe persone, Fausto invece lo fa».
Chi le piace e chi le dispiace dei leader politici?
«Parliamo di quelli stranieri, è meglio. Ne ho conosciuti tanti, da Fidel Castro ad Arafat, a Marcos. E’ uno dei regali che ho ricevuto dalla politica: poter conoscere personaggi straordinari. A Cuba dormivamo in una casa, il cui giardino comunicava con quello di Gabriel Garcia Marquez. Mi alzavo all’alba per vederlo e una volta lui mi ha scoperta: "Cosa fa in piedi a quest’ora?". "Speravo di incontrarla" gli ho detto, come se fossi una fan di quindici anni. Un incontro sorprendente è stato quello con Chavez, il presidente venezuelano. Ero molto titubante, in fondo ha un passato da paracadutista. Invece è interessante, simpatico, autoironico».
Quarant’anni insieme a suo marito. Mai tentati dalla separazione?
«Certo che ci sono stati momenti di crisi, se no saremmo una coppia da Mulino Bianco. Ci sono stati, ma sono passati col prevalere della solidarietà, degli affetti».
E’ stata più moglie o più madre?
Pausa di incertezza. «Con tutti gli inevitabili errori, credo di essere stata una madre presente, per Duccio. Il padre lo seguiva negli studi, ma per il resto ci sono sempre stata io. Per anni abbiamo sentito dire che non conta la quantità del tempo dedicato ai figli, conta la qualità... Baggianate. Contano le ore, altrochè. I figli vogliono una madre attenta, interessata a loro, non distratta da mille altre cose».
Che cosa è cambiato rispetto agli anni in cui lei era una giovane mamma?
«C’è la lacerazione delle famiglie. Questo è cambiato. I bambini, oggi, crescono in famiglie che non sono più unite. Succede, è successo anche ai miei nipotini. Ed è una differenza grandissima perchè i primi a sentirsi precari sono proprio i piccoli. Provate a chiedere a un bambino se preferisce che mamma e papà restino insieme bisticciando o se è meglio che si separino. Risponderà che li vuole insieme, pure se bisticciano. I nostri figli crescevano con la certezza di avere una famiglia, brutta o bella che fosse. I bambini di adesso questa certezza non ce l’hanno».
La politica può influire su questa dimensione della vita?
«La politica può fare tantissimo. A cominciare dalla scuola. Io ho lavorato per trent’anni nella pubblica amministrazione, prima alla Provincia di Novara, poi a Torino e a Roma. All’epoca, la Provincia aveva larghe competenze sulla scuola e io ho seguito i viaggi che si organizzavano per gli studenti, ad Auschwitz o in Sicilia, per far conoscere loro il teatro di Pirandello. Oggi la scuola mi pare molto trascurata. Si dimentica che non è solo sede di apprendimento, ma luogo in cui si formano i cittadini. Tanto più in una fase come questa, con le famiglie fragili di adesso».
Difficile che la scuola si sostituisca alla famiglia, non le pare?
«Non sto dicendo questo. Ma la scuola dovrebbe poter intervenire. Mi dicono che negli istituti scolastici i centri di assistenza psicologica hanno liste d’attesa lunghissime. Ci sono tanti problemi, nuovi e vecchi, dalle tensioni domestiche alla droga. La politica può e deve occuparsi di questioni che peggiorano la vita delle famiglie, dal costo degli affitti alla precarietà del lavoro».
Le sembra che Fausto Bertinotti se ne occupi?
«A me sembra tra i più attenti. Se il salario non fosse precario, forse nelle famiglie si litigherebbe meno... Qualche volta gli dico che parla troppo poco di scuola».
Forse vuole tenersi buono il voto degli studenti...
Ride. «Non credo. I giovani votano Rifondazione perchè sentono che parliamo delle loro preoccupazioni, il salario sociale, il futuro precario...».
Del futuro precario che cosa la preoccupa di più?
«Il fatto che si possa crescere senza forti ideali. Dall’assenza di ideali derivano tutte le altre preoccupazioni, il farsi male con la droga, il ricorrere alla violenza. Con i miei nipoti cerco di parlare di questo, anche se sono piccoli. Leggo loro delle storie oppure vediamo insieme dei film. Poi ci sono quelle che Natalia Ginzburg chiamava "le piccole virtù": insegnar loro che è bello voler bene alla città in cui si vive, che bisogna proteggerla, non buttare la carta del gelato per terra... Ogni tanto mi scappa di mano il mio ruolo di nonna e tendo a fare l’educatrice. Non dovrei, lo so, ci sono mamma e papà per questo».
L'Unità 28 Febbraio 2005
«Non sarà l’ultimo congresso comunista»
Bertinotti: il timone riformista? Le parole di Prodi non mi offendono, proveremo a metterle in discussione
Simone Collini
ROMA Fausto Bertinotti esclude che quello che si apre giovedì a Venezia Lido sia l’ultimo congresso di un partito comunista. Alle quattro mozioni di minoranza che contestano l’alleanza con il centrosinistra, il segretario del Prc risponde che in questa fase il partito deve entrare in un eventuale governo dell’Unione, mentre alla Federazione dell’Ulivo fa sapere: «Quando Prodi dice che il timone deve essere riformista, io non mi offendo. Dico però che proveremo a dimostrare che questo può essere messo in discussione».
Onorevole Bertinotti, per ora la sua mozione è data al 59,7% dei consensi. Valeva la pena annunciare a gennaio che avrebbe governato il partito anche con il 51%?
«Non era un atteggiamento arrogante, quello, non aveva il senso di una manifestazione muscolare. Il messaggio era: andiamo a un chiarimento di fondo ora, perché poi si apre una fase complessa di gestione - che va dalle elezioni regionali alle politiche, dalla costruzione dell’Unione alla definizione del programma dell’alternativa - che deve essere messa al riparo da elementi di incertezza e di ambiguità».
A giudicare dalle dichiarazioni che vengono dalle minoranze alla vigilia del congresso nazionale, il chiarimento sembra tutt’altro che compiuto.
«Da parte nostra ci siamo mossi su una linea molto netta, non si è fatta nessuna concessione, anzi addirittura si è lavorato a rendere particolarmente nitido il profilo della scelta. Quindi è naturale che le ragioni di contrasto emergano e continuino ad emergere ora. Questo è un congresso di scelta netta, e mi pare che la nostra posizione sia stata premiata, perché in questi ultimi anni abbiamo governato il partito con percentuali inferiori».
Secondo il senatore Malabarba, la sua proposta vince ma non convince, e definisce emblematico il caso del circolo di Mirafiori, dove la mozione trotskista di cui è primo firmatario ha superato il 65% dei consensi.
«È un’operazione inelegante e poco significativa. Né mi piace replicare, perché potrei farlo citando molte altre realtà operaie o di lotta che non ritengo gerarchicamente inferiori rispetto a Mirafiori, a cui pure mi sento molto legato».
Fiat Mirafiori è un luogo simbolo della lotta operaia...
«Allora dico che Acerra non è meno importante, Terni non è meno importante. Ma lo dico non per una rivalsa, ma per sottolineare che si sta insistendo su un’idea del conflitto chiaramente diversa da quella che il movimento ci ha insegnato. Siccome le forme plurali di lotta vanno dal luogo di lavoro al territorio, dalla struttura dei servizi a nuove forme di organizzazione come l’articolazione dei centri sociali, la riduzione di tutte queste espressioni ad una sola è un’operazione poco rispettosa della struttura stessa del movimento».
Tutte e quattro le mozioni alternative alla sua contestano l’alleanza con il centrosinistra: o perché ancora non si è discusso il programma, come fa l’area dell’Ernesto, o perché il Prc non può andare al governo con forze liberali, come sostengono i trotskisti. Come risponde?
«Rispondo con due argomentazioni. La prima, è che è del tutto arbitrario e anche fuorviante individuare il centro del congresso nella questione del governo. Il centro è la costruzione di un’alternativa di società di fronte alle crisi delle politiche neoliberiste e in un mondo caratterizzato dalla guerra e dal terrorismo».
Sembra elusivo...
«Nient’affatto. Stiamo parlando di mettere in campo ricette politiche completamente diverse dalle attuali. Dico anche che l’impoverimento della politica che si produce con la centralità del governo è foriera di grandissimi danni e che per quanto ne siamo capaci noi dobbiamo evitarla. Il governo è considerato un passaggio che può doversi fare, non necessariamente indica una collocazione in sé migliore di quella dell’opposizione, dipende. Ma il punto è capire in che strategia è inserita questa scelta. E in questa strategia, in cui resta centrale il rapporto con i movimenti, il senso che vogliamo trasmettere è di un aut-aut, per l’Italia, per l’Europa, per il mondo. Abbiamo o no una percezione drammatica del passaggio che la destra opera in Italia e nel mondo? C’è una necessità della politica oppure no?».
Detto nel modo più semplice possibile?
«In questa situazione, se una forza politica di sinistra non si mette nella condizione di raccogliere la domanda che viene da tutti i popoli della sinistra di cacciare Berlusconi, dimostrando il proprio contributo attivo, finisce per essere cancellata come forza di massa. E aggiungo giustamente, perché vorrebbe dire che non si vedono le conseguenze, anche di lungo periodo, provocate dalle politiche del governo Berlusconi».
Al congresso di Rimini avete rotto con lo stalinismo. Questo potrebbe essere l’ultimo congresso di un partito comunista?
«No. Da Rimini siamo andati avanti fino alla nonviolenza e abbiamo lavorato per riformare profondamente la nostra cultura politica, questo è vero. Però tutta questa operazione è fatta in modo da consentire per la prima volta dopo 25 anni una uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, perché se alla fine del secolo scorso la partita era chiusa, all’inizio di questo secolo si è riaperta».
E questo che sia l’ultimo congresso che la vede segretario, si può dire?
«Ho il dovere di riserbo nei confronti dei congressisti. Però penso che la politica non si sottragga alla legge del tempo».
L’Europa del centrosinistra sarà stretta alleata degli Stati Uniti?
«Io spero in un atlantico largo, che è l’unica protezione possibile al riparo della quale possa crescere un’Europa autonoma, sia come soggetto di politica internazionale, sia come modello sociale ed economico».
Secondo D’Alema il Papa ha giocato un ruolo positivo nella fine dell’Unione sovietica, secondo lei?
«Dico soltanto che malgrado veda l’incidenza della globalizzazione e anche di forze come quelle della chiesa, penso che la ragione principale del crollo dei regimi sia tutta interna».
Cioè?
«C’è stata un’implosione per perdita di consenso. E, perciò, storicamente comprensibile e giustificata».
Il Tempo 27.2.05
LA CONTROMOSSA DI RIFONDAZIONE Ma Bertinotti rilancia:
«Dobbiamo trovare un accordo»
«NOI siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella "ospitalità elettorale" nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche». Lo afferma il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo — dice ancora il leader del Prc — per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente — dice ancora il segretario di Rifondazione — questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico». Bertinotti infine, riferendosi anche alle considerazioni di Arturo Parisi in una lettera al Corriere della Sera, lega il discorso dell'alleanza con i Radicali alla questione del bipolarismo e della legge elettorale. «Proprio noi, che da sempre siamo contrari al maggioritario, e pur dovendolo subire, non rinunciamo all'idea — afferma il leader del Prc — di una riforma istituzionale basata su un sistema essenzialmente proporzionale, non possiamo semplicemente rispondere: "chi è causa del suo mal pianga se stesso"». «Anzi, dobbiamo aggiungere esplicitamente un altro motivo della nostra disponibilità alla "ospitalità" elettoralè verso i Radicali, quello, appunto di una critica in positivo e di una contromossa, per quanto limitata, rispetto all'attuale sistema elettorale. Il che — conclude Bertinotti — può essere anche un buon esempio, un pro-memoria, per la prossima legislatura».
libri
Gore Vidal contro il Logos occidentale
La Stampa Tuttolibri 26.2.05
Il fuoco di Zoroastro
sapienza d’Oriente
«Creazione», un iperbolico e visionario romanzo antioccidentale in cui Gore Vidal intreccia storie e idee di Persia, India, Cina
Silvia Ronchey
QUANDO un ragazzo indiano giunge all'età che chiamano della seconda nascita, gli danno un cordone fatto con tre fili intrecciati che dovrà portare attraverso il petto, dalla spalla all'ascella, per il resto della vita», scrive Gore Vidal in Creazione. Arrivato all'età della sua terza nascita, nel 1981, Gore Vidal si è guardato sul petto e ha visto un cordone intrecciato di Persia, India e quello che chiama Catai ed è la Cina. E ha immaginato che da lì lui e tutti noi veniamo, e che siamo tutti debitori della sapienza dell'Oriente. In questo che con qualche esagerazione il New York Times ha definito il suo romanzo migliore, questo figlio ribelle dell'impero americano ha voluto scrivere, anzitutto, un mastodontico, ironico pamphlet antioccidentale.
Il pensiero presocratico ha indagato come pochi l'essenza della natura? In realtà, spiega Gore Vidal, la Grecia, la sua filosofia, le sue cosmogonie e teorie sulla creazione non sono che un minuscolo frammento dell'immensa geografia culturale per cui erra nella sua lunga vita Ciro Spitama, persiano della tribù dei Medi e nipote devoto di Zoroastro nonché alter ego dell'autore e protagonista del romanzo. «Quando ripenso all'India - mormora ormai settantenne e cieco al discepolo che raccoglie le sue memorie - l'oro risplende nelle tenebre dietro le palpebre di questi occhi ciechi. Quando ripenso al Catai invece scintilla l'argento e rivedo una neve argentata che cade sui salici d'argento».
La Grecia entra nella storia incidentalmente, è solo una dirimpettaia dell'impero persiano, che si estende al Pakistan e all'Afghanistan, l'antica Battriana. Le «guerre persiane» vengono chiamate «guerre greche» e al grande Dario l'io narrante rimprovera di avere sempre guardato ad Ovest anziché a conquistare la Cina. Erodoto è liquidato subito come un ciarlatano, e anzi la data d'inizio del racconto è proprio quella della contestazione del suo discorso ad Atene, argomentata in pubblico da Ciro in «quello che sarebbe per noi - scrive Gore Vidal - il 20 dicembre del 445 avanti Cristo». Questa rimarrà la sola ammissione dell'autore di essere e sentirsi occidentale.
Creazione occupa solo 720 pagine perché il benemerito editore Fazi le ha stampate in corpo piccolo, anche se su ottima carta. E' una fantasmagoria iperbolica di fiabe e visioni, memorie e epifanie. Le mura di Babilonia sono «così spesse che un cocchio a quattro cavalli poteva fare un giro completo sui parapetti». La danza indiana rende il corpo più invitante perché decapitato: la testa si muove sul collo in modo del tutto innaturale. Del Catai lo incantano la cucina e le cerimonie quasi religiose della tavola. Ammira la sapienza politica riassunta nel precetto: «Svuotare la mente dei sudditi, riempirne lo stomaco». La sentenza che ascolta quando viene iniziato fra lo Yamuna e il Gange è invece: «Noi siamo nati su una riva, che è la vita di questo mondo, ma se ci affidiamo al traghettatore possiamo passare all'altra sponda». Quando si mette sulle tracce del traghettatore, e cioè di Siddharta, Ciro si sente rispondere: «Al Buddha non interessa la religione. Semplicemente aiuta coloro che sono sulla riva perché possano passare di là e scoprire che non esistono né il fiume, né il traghetto, né le due rive». Confucio è un grigio dipendente statale, riservato, timido ma senza peli sulla lingua, semplice ma odiato per la sua pignoleria, ateo, modesto. Non è arrogante come Socrate: non fa domande, ma dà solo risposte a chiunque gliele chieda.
«In principio era il fuoco». Fra le tre antiche tradizioni, Gore Vidal sembra optare per la zoroastriana, che vede il fuoco come principio e fine di ogni cosa. Nella ricerca del principio di tutto e dell'atto di creazione, l'Afghanistan ha un ruolo centrale, perché è là che Zoroastro riceve la rivelazione del fuoco. Se pensiamo che secondo Marco Polo i giacimenti di petrolio incendiandosi spontaneamente suggerivano a quelle popolazioni la presenza della divinità, e sono visti come una delle radici dello zoroastrismo, il messaggio di Gore Vidal fiammeggia, oggi, di una luce foscamente singolare: il principio di tutto, forse, è il petrolio.
Il fuoco di Zoroastro
sapienza d’Oriente
«Creazione», un iperbolico e visionario romanzo antioccidentale in cui Gore Vidal intreccia storie e idee di Persia, India, Cina
Silvia Ronchey
QUANDO un ragazzo indiano giunge all'età che chiamano della seconda nascita, gli danno un cordone fatto con tre fili intrecciati che dovrà portare attraverso il petto, dalla spalla all'ascella, per il resto della vita», scrive Gore Vidal in Creazione. Arrivato all'età della sua terza nascita, nel 1981, Gore Vidal si è guardato sul petto e ha visto un cordone intrecciato di Persia, India e quello che chiama Catai ed è la Cina. E ha immaginato che da lì lui e tutti noi veniamo, e che siamo tutti debitori della sapienza dell'Oriente. In questo che con qualche esagerazione il New York Times ha definito il suo romanzo migliore, questo figlio ribelle dell'impero americano ha voluto scrivere, anzitutto, un mastodontico, ironico pamphlet antioccidentale.
Il pensiero presocratico ha indagato come pochi l'essenza della natura? In realtà, spiega Gore Vidal, la Grecia, la sua filosofia, le sue cosmogonie e teorie sulla creazione non sono che un minuscolo frammento dell'immensa geografia culturale per cui erra nella sua lunga vita Ciro Spitama, persiano della tribù dei Medi e nipote devoto di Zoroastro nonché alter ego dell'autore e protagonista del romanzo. «Quando ripenso all'India - mormora ormai settantenne e cieco al discepolo che raccoglie le sue memorie - l'oro risplende nelle tenebre dietro le palpebre di questi occhi ciechi. Quando ripenso al Catai invece scintilla l'argento e rivedo una neve argentata che cade sui salici d'argento».
La Grecia entra nella storia incidentalmente, è solo una dirimpettaia dell'impero persiano, che si estende al Pakistan e all'Afghanistan, l'antica Battriana. Le «guerre persiane» vengono chiamate «guerre greche» e al grande Dario l'io narrante rimprovera di avere sempre guardato ad Ovest anziché a conquistare la Cina. Erodoto è liquidato subito come un ciarlatano, e anzi la data d'inizio del racconto è proprio quella della contestazione del suo discorso ad Atene, argomentata in pubblico da Ciro in «quello che sarebbe per noi - scrive Gore Vidal - il 20 dicembre del 445 avanti Cristo». Questa rimarrà la sola ammissione dell'autore di essere e sentirsi occidentale.
Creazione occupa solo 720 pagine perché il benemerito editore Fazi le ha stampate in corpo piccolo, anche se su ottima carta. E' una fantasmagoria iperbolica di fiabe e visioni, memorie e epifanie. Le mura di Babilonia sono «così spesse che un cocchio a quattro cavalli poteva fare un giro completo sui parapetti». La danza indiana rende il corpo più invitante perché decapitato: la testa si muove sul collo in modo del tutto innaturale. Del Catai lo incantano la cucina e le cerimonie quasi religiose della tavola. Ammira la sapienza politica riassunta nel precetto: «Svuotare la mente dei sudditi, riempirne lo stomaco». La sentenza che ascolta quando viene iniziato fra lo Yamuna e il Gange è invece: «Noi siamo nati su una riva, che è la vita di questo mondo, ma se ci affidiamo al traghettatore possiamo passare all'altra sponda». Quando si mette sulle tracce del traghettatore, e cioè di Siddharta, Ciro si sente rispondere: «Al Buddha non interessa la religione. Semplicemente aiuta coloro che sono sulla riva perché possano passare di là e scoprire che non esistono né il fiume, né il traghetto, né le due rive». Confucio è un grigio dipendente statale, riservato, timido ma senza peli sulla lingua, semplice ma odiato per la sua pignoleria, ateo, modesto. Non è arrogante come Socrate: non fa domande, ma dà solo risposte a chiunque gliele chieda.
«In principio era il fuoco». Fra le tre antiche tradizioni, Gore Vidal sembra optare per la zoroastriana, che vede il fuoco come principio e fine di ogni cosa. Nella ricerca del principio di tutto e dell'atto di creazione, l'Afghanistan ha un ruolo centrale, perché è là che Zoroastro riceve la rivelazione del fuoco. Se pensiamo che secondo Marco Polo i giacimenti di petrolio incendiandosi spontaneamente suggerivano a quelle popolazioni la presenza della divinità, e sono visti come una delle radici dello zoroastrismo, il messaggio di Gore Vidal fiammeggia, oggi, di una luce foscamente singolare: il principio di tutto, forse, è il petrolio.
Gore Vidal
Creazione
intr. di Anthony Burgess
trad. di Stefano Tummolini
Fazi, pp. 726, e18,50
ROMANZO
Creazione
intr. di Anthony Burgess
trad. di Stefano Tummolini
Fazi, pp. 726, e18,50
ROMANZO
Donald D. Winnicott
«l’odio è indispensabile alla felicità»
La Stampa Tuttolibri 26.2.05
Winnicott, scacchista della psiche:
l’odio è indispensabile alla felicità
BIOGRAFIA E ANALISI DELLE OPERE DI UN PENSATORE
FUORI DAL CORO E SPESSO FRAINTESO, CHE HA STUDIATO
TRA L’ALTRO L’IMPORTANZA DEI SENTIMENTI NEGATIVI
Alessandro Defilippi
CLARE Winnicott, ricordando il marito Donald a diversi anni dalla morte, disse di lui: «Voleva vivere (…) E alla fine ha scritto questa frase: ”Preghiera: Oh, Dio, possa io esser vivo quando muoio”. E lo era davvero».
Donald D. Winnicott, pensatore eretico e creativo, che a 74 anni, pochi mesi prima di morire, salì sulla cima d'un albero per potarlo, perché «oscurava la vista», fu un uomo profondamente vivo, che entrò nella morte ad occhi aperti. Di lui ci parla F. Robert Rodman, analista nella Città degli Angeli, a Beverly Hills, nel suo Winnicott, vita e opere, un monumento pubblicato da Raffaello Cortina a un anno dalla comparsa negli USA.
Winnicott è stato un outsider nel mondo complicato e pettegolo della comunità psicoanalitica internazionale. Allievo sui generis, critico e amico di Melanie Klein, molto apprezzato da Anna Freud, viene abitualmente annoverato nel gruppo dei cosiddetti Indipendenti britannici, autonomi rispetto al conflitto tra le stesse Klein e Anna, entrambe convinte di essere le vere eredi del grande vecchio Sigmund.
Winnicott era un dinosauro in un epoca in cui la British Society of Psychoanalysis era dominata da analisti laici: pediatra di formazione, non cessò per lungo tempo di esercitare la professione medica. Si occupò di bambini, ma, pur senza aver mai ricevuto uno specifico training nell'analisi di adulti, il suo lavoro e la sua opera sono fondamentali anche in questo campo.
Esiste, nella cultura inglese, un lato ad un tempo oscuro e giocoso, quello che ha prodotto la grande letteratura gotica e Tolkien, Lewis Carroll e la pittura di Bacon, Alan Turing e i nonsense di Edward Lear: una modalità creativa del tutto singolare rispetto all'Europa continentale e agli Stati Uniti, radicata nell'empirismo, nell'indipendenza, nella capacità di stupirsi e nel gioco. A questa tradizione trasversale risale, a mio parere, la peculiarità di Winnicott, analista visionario e poetico, che si sentiva una sorta di gemello di Jung, il Giosuè predestinato da Mosè-Freud.
Il libro di Rodman segue il doppio registro della biografia e dell'analisi delle opere. Come spesso accade in testi simili, scritti da analisti su analisti (il cui modello insuperato, nel bene e nel male, resta Vita e opere di Freud di E. Jones), il tono tende talvolta a scivolare verso l'interpretazione, offrendoci il Winnicott paziente post mortem dell'analista Rodman, con tutte le idiosincrasie, i giudizi e i moralismi dell'autore.
Indicative in questo senso sono le molte pagine spese sul rapporto tra Winnicott e Masud Khan, rispetto a cui si moltiplicano le diagnosi di antisocialità. È un limite che pare insito nella stessa mentalità psicoanalitica, paranoica per definizione: come d'altronde potrebbe non essere almeno un po' paranoico chi si occupa ogni giorno di ricercare il lato segreto del mondo? La lotta per il potere, nelle società analitiche, si è sempre svolta a colpi di psicopatologia, fin dal tempo in cui Ferenczi fu accusato da Jones di essere pazzo. Sembra talora che gli analisti non possano accettare di entrare in rapporto con l'Altro se non attraverso lo schermo del loro sapere tecnico, con infinite variazioni sul tema «tu sei patologico e io no».
Al di là di questo limite, forse inevitabile, il libro di Rodman è un'opera fondamentale su un intellettuale luminoso e oscuro, sempre fuori del coro e spesso frainteso, come Winnicott. L' unicità del pensatore è confermata dal fatto che non esiste una scuola ispirata a lui, mentre le sue intuizioni si ritrovano spesso nell'opera di altri analisti, come Bion, sotto forma di debiti raramente riconosciuti.
Ma quel che colpisce, nella vicenda umana e spirituale di Winnicott è l'estrema libertà di pensiero, quella stessa che lo ha fatto paragonare ad un cavallo del gioco degli scacchi: «i suoi movimenti erano unici, imprevedibili, obliqui». La sua capacità di porre in luce i sentimenti negativi e la loro importanza, l'"odio", come lui lo chiamava, o la spietatezza, «indispensabile alla felicità umana» è pari alla spericolatezza con cui mette in gioco il corpo nella relazione analitica, attraverso il concetto di holding, ossia di contenimento non solo psichico ma anche fisico. Anche qui si può riconoscere un legame tra lui e altri grandi eretici, come Ferenczi, che si lasciava baciare dalle pazienti, o Jung, che permetteva l'espressione fisica, per esempio nella danza. È significativo notare come - alla fine - la vera "eresia", il vero pericolo, sia stato sempre avvertito dalla comunità analitica proprio lì, nel corpo, il grande rimosso, come rimossa è la morte. E d'altronde Winnicott critica esplicitamente «gli analisti che sanno troppo».
Molte sarebbero le cose da sottolineare in questo bel libro, come lo spazio riservato alla teoria degli oggetti transizionali (la coperta di Linus, per intenderci), o le pagine sul «diritto di non comunicare» o sul rapporto tra paranoia e guerra, o ancora quelle sul Vero e il falso Sé. Mi piace però concludere con una citazione dolente e definitiva: «(…) ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto». Speriamo di rimanere tanto vivi anche noi, fino alla morte.
Winnicott, scacchista della psiche:
l’odio è indispensabile alla felicità
BIOGRAFIA E ANALISI DELLE OPERE DI UN PENSATORE
FUORI DAL CORO E SPESSO FRAINTESO, CHE HA STUDIATO
TRA L’ALTRO L’IMPORTANZA DEI SENTIMENTI NEGATIVI
Alessandro Defilippi
CLARE Winnicott, ricordando il marito Donald a diversi anni dalla morte, disse di lui: «Voleva vivere (…) E alla fine ha scritto questa frase: ”Preghiera: Oh, Dio, possa io esser vivo quando muoio”. E lo era davvero».
Donald D. Winnicott, pensatore eretico e creativo, che a 74 anni, pochi mesi prima di morire, salì sulla cima d'un albero per potarlo, perché «oscurava la vista», fu un uomo profondamente vivo, che entrò nella morte ad occhi aperti. Di lui ci parla F. Robert Rodman, analista nella Città degli Angeli, a Beverly Hills, nel suo Winnicott, vita e opere, un monumento pubblicato da Raffaello Cortina a un anno dalla comparsa negli USA.
Winnicott è stato un outsider nel mondo complicato e pettegolo della comunità psicoanalitica internazionale. Allievo sui generis, critico e amico di Melanie Klein, molto apprezzato da Anna Freud, viene abitualmente annoverato nel gruppo dei cosiddetti Indipendenti britannici, autonomi rispetto al conflitto tra le stesse Klein e Anna, entrambe convinte di essere le vere eredi del grande vecchio Sigmund.
Winnicott era un dinosauro in un epoca in cui la British Society of Psychoanalysis era dominata da analisti laici: pediatra di formazione, non cessò per lungo tempo di esercitare la professione medica. Si occupò di bambini, ma, pur senza aver mai ricevuto uno specifico training nell'analisi di adulti, il suo lavoro e la sua opera sono fondamentali anche in questo campo.
Esiste, nella cultura inglese, un lato ad un tempo oscuro e giocoso, quello che ha prodotto la grande letteratura gotica e Tolkien, Lewis Carroll e la pittura di Bacon, Alan Turing e i nonsense di Edward Lear: una modalità creativa del tutto singolare rispetto all'Europa continentale e agli Stati Uniti, radicata nell'empirismo, nell'indipendenza, nella capacità di stupirsi e nel gioco. A questa tradizione trasversale risale, a mio parere, la peculiarità di Winnicott, analista visionario e poetico, che si sentiva una sorta di gemello di Jung, il Giosuè predestinato da Mosè-Freud.
Il libro di Rodman segue il doppio registro della biografia e dell'analisi delle opere. Come spesso accade in testi simili, scritti da analisti su analisti (il cui modello insuperato, nel bene e nel male, resta Vita e opere di Freud di E. Jones), il tono tende talvolta a scivolare verso l'interpretazione, offrendoci il Winnicott paziente post mortem dell'analista Rodman, con tutte le idiosincrasie, i giudizi e i moralismi dell'autore.
Indicative in questo senso sono le molte pagine spese sul rapporto tra Winnicott e Masud Khan, rispetto a cui si moltiplicano le diagnosi di antisocialità. È un limite che pare insito nella stessa mentalità psicoanalitica, paranoica per definizione: come d'altronde potrebbe non essere almeno un po' paranoico chi si occupa ogni giorno di ricercare il lato segreto del mondo? La lotta per il potere, nelle società analitiche, si è sempre svolta a colpi di psicopatologia, fin dal tempo in cui Ferenczi fu accusato da Jones di essere pazzo. Sembra talora che gli analisti non possano accettare di entrare in rapporto con l'Altro se non attraverso lo schermo del loro sapere tecnico, con infinite variazioni sul tema «tu sei patologico e io no».
Al di là di questo limite, forse inevitabile, il libro di Rodman è un'opera fondamentale su un intellettuale luminoso e oscuro, sempre fuori del coro e spesso frainteso, come Winnicott. L' unicità del pensatore è confermata dal fatto che non esiste una scuola ispirata a lui, mentre le sue intuizioni si ritrovano spesso nell'opera di altri analisti, come Bion, sotto forma di debiti raramente riconosciuti.
Ma quel che colpisce, nella vicenda umana e spirituale di Winnicott è l'estrema libertà di pensiero, quella stessa che lo ha fatto paragonare ad un cavallo del gioco degli scacchi: «i suoi movimenti erano unici, imprevedibili, obliqui». La sua capacità di porre in luce i sentimenti negativi e la loro importanza, l'"odio", come lui lo chiamava, o la spietatezza, «indispensabile alla felicità umana» è pari alla spericolatezza con cui mette in gioco il corpo nella relazione analitica, attraverso il concetto di holding, ossia di contenimento non solo psichico ma anche fisico. Anche qui si può riconoscere un legame tra lui e altri grandi eretici, come Ferenczi, che si lasciava baciare dalle pazienti, o Jung, che permetteva l'espressione fisica, per esempio nella danza. È significativo notare come - alla fine - la vera "eresia", il vero pericolo, sia stato sempre avvertito dalla comunità analitica proprio lì, nel corpo, il grande rimosso, come rimossa è la morte. E d'altronde Winnicott critica esplicitamente «gli analisti che sanno troppo».
Molte sarebbero le cose da sottolineare in questo bel libro, come lo spazio riservato alla teoria degli oggetti transizionali (la coperta di Linus, per intenderci), o le pagine sul «diritto di non comunicare» o sul rapporto tra paranoia e guerra, o ancora quelle sul Vero e il falso Sé. Mi piace però concludere con una citazione dolente e definitiva: «(…) ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto». Speriamo di rimanere tanto vivi anche noi, fino alla morte.
domenica 27 febbraio 2005
il Guggenheim a Roma
Corriere della Sera 27.2.05
TRASFERTE GUGGENHEIM
Roma: arte
Franco Fanelli
Il Guggenheim Museum di New York possiede 1.800 opere, ma ne espone una minima parte, perché preferisce puntare sulle mostre temporanee, economicamente più redditizie. Un eccellente «ritorno» è garantito anche dalle trasferte delle opere: 75 di queste, da Monet a Warhol, saranno esposte dal 3 marzo al 5 giugno alle Scuderie del Quirinale a Roma. Il bilancio del Museo non è esaltante, quindi urge fare cassa anche attraverso il «noleggio» delle opere. Il «canone» per la mostra di Roma è top-secret. Si conoscono i costi complessivi, circa un milione e mezzo di euro; anche detratte le spese di spedizione, assicurazione, allestimento e catalogo a carico del Guggenheim, al «locatore» resta pur sempre una discreta cifra. Il successo, comunque, dovrebbe essere garantito anche ai «locatari»: lo scorso anno il Museum of Modern Art, durante la chiusura per ristrutturazione della sede newyorkese, ha spedito a Berlino 200 pezzi: risultato, un milione e 200 mila visitatori. Il direttore del Guggenheim, Thomas Krens, è criticato per la labilità culturale della linea intrapresa, comprensiva di mostre come quelle di Armani o sulle motociclette, utili soprattutto a rimpinguare gli incassi. Krens è sostenitore dell’espansionismo del Museo all’estero, culminato con la filiale di Bilbao, e secondo i detrattori tende a trascurare gli affari di casa: la sezione del Museo a Soho è stata chiusa ed è incerto anche l’ampliamento della casa-madre, capolavoro dell’architetto Frank Lloyd Wright. Ma questi sono i tempi dell’arte come intrattenimento, con buona pace della cultura «pura».
TRASFERTE GUGGENHEIM
Roma: arte
Franco Fanelli
Il Guggenheim Museum di New York possiede 1.800 opere, ma ne espone una minima parte, perché preferisce puntare sulle mostre temporanee, economicamente più redditizie. Un eccellente «ritorno» è garantito anche dalle trasferte delle opere: 75 di queste, da Monet a Warhol, saranno esposte dal 3 marzo al 5 giugno alle Scuderie del Quirinale a Roma. Il bilancio del Museo non è esaltante, quindi urge fare cassa anche attraverso il «noleggio» delle opere. Il «canone» per la mostra di Roma è top-secret. Si conoscono i costi complessivi, circa un milione e mezzo di euro; anche detratte le spese di spedizione, assicurazione, allestimento e catalogo a carico del Guggenheim, al «locatore» resta pur sempre una discreta cifra. Il successo, comunque, dovrebbe essere garantito anche ai «locatari»: lo scorso anno il Museum of Modern Art, durante la chiusura per ristrutturazione della sede newyorkese, ha spedito a Berlino 200 pezzi: risultato, un milione e 200 mila visitatori. Il direttore del Guggenheim, Thomas Krens, è criticato per la labilità culturale della linea intrapresa, comprensiva di mostre come quelle di Armani o sulle motociclette, utili soprattutto a rimpinguare gli incassi. Krens è sostenitore dell’espansionismo del Museo all’estero, culminato con la filiale di Bilbao, e secondo i detrattori tende a trascurare gli affari di casa: la sezione del Museo a Soho è stata chiusa ed è incerto anche l’ampliamento della casa-madre, capolavoro dell’architetto Frank Lloyd Wright. Ma questi sono i tempi dell’arte come intrattenimento, con buona pace della cultura «pura».
la clonazione terapeutica
Tempo Medico on line n. 789 - 27 febbraio 2005
Clonazione terapeutica: Gran Bretagna capofila
Autorizzazione alla ricerca concessa
di Donatella Poretti
Risale a un anno fa, esattamente al 12 febbraio 2004, la pubblicazione su Science dei risultati del primo esperimento di clonazione terapeutica. L'annuncio a Washington: l'Università nazionale di Seul e l'équipe guidata da Woo Suk Hwang, con la supervisione di Jose Cibelli e del suo gruppo dell'Università del Michigan, avevano dimostrato la possibilità di ottenere cellule staminali embrionali umane con il patrimonio genetico della persona a cui avrebbero potuto essere trapiantate per curare per esempio, le malattie neurodegenerative.
A distanza di 12 mesi la Corea del Sud celebra il suo primato con un francobollo: un uomo si alza da una carrozzella per tornare a camminare. Da gennaio nel paese asiatico è entrata in vigore una legge che vieta la clonazione umana riproduttiva e regolamenta le ricerche per quella a scopo terapeutico.
La Gran Bretagna, che per prima nel 2001 decise di seguire le indicazioni del "Rapporto Donaldson" - il documento tecnico del 2000 che raccomandava di dotarsi di un quadro legislativo per questo tipo di ricerche - nell'agosto 2004 ha concesso la prima autorizzazione all'Università di Newcastle. Per un anno i ricercatori potranno studiare il trasferimento nucleare e le staminali embrionali così ottenute per trovare una cura per il diabete, una patologia che colpisce 180-200 milioni di persone nel mondo. E proprio in questo mese l'HFEA (Human Fertilisation and Embryology Authority) ha rilasciato una seconda autorizzazione, questa volta per Ian Wilmut, il "papà" della pecora Dolly. Angela McNab, direttore esecutivo dell'HFEA ha spiegato il perché: "Noi riconosciamo che le malattie neuromotorie sono gravi e congenite. Dopo avere attentamente esaminato i risvolti medici, scientifici, giuridici ed etici della richiesta, abbiamo giudicato appropriato concedere al Roslin Institute una licenza di un anno per la ricerca su queste malattie". Attualmente sono incurabili e colpiscono circa 100 mila persone in Europa e negli Stati Uniti. "La nostra ambizione è che il Regno Unito diventi la capitale della scienza del mondo" aveva preannunciato il premier Tony Blair. "La ricerca sulle cellule staminali è solo un esempio di una nuova area della scienza che ha un potenziale incredibile per migliorare la qualità della vita".
Un investimento finanziario e politico importante quello del governo britannico, ma che potrebbe non bastare. E così nomi illustri della scienza si mobilitano per creare una fondazione che raddoppi l'impegno. Dal presidente del gruppo Virgin, Richard Branson, all'esperto di fertilità e personaggio televisivo Robert Winston, dal presidente della Royal Society ed ex scienziato capo britannico Robert May, fino al genetista e autore di best seller Steve Jones. "Il paese è stato pioniere in questo campo, ma adesso stiamo arretrando leggermente, mentre altri corrono avanti" ha dichiarato lo scienziato e imprenditore Chris Evans. "Assistiamo a grandi progressi in Cina, Corea, Giappone e Germania, mentre gli Stati Uniti profondono denaro a piene mani".
Nel 2000 l'Italia, sulle tracce della Gran Bretagna, istituì una commissione tecnica guidata dal premio Nobel Renato Dulbecco, che giunse a conclusioni simili riguardo all'opportunità di compiere ricerche sulle staminali. Ad avere preso strade diverse è stata la politica.
Clonazione terapeutica: Gran Bretagna capofila
Autorizzazione alla ricerca concessa
di Donatella Poretti
Risale a un anno fa, esattamente al 12 febbraio 2004, la pubblicazione su Science dei risultati del primo esperimento di clonazione terapeutica. L'annuncio a Washington: l'Università nazionale di Seul e l'équipe guidata da Woo Suk Hwang, con la supervisione di Jose Cibelli e del suo gruppo dell'Università del Michigan, avevano dimostrato la possibilità di ottenere cellule staminali embrionali umane con il patrimonio genetico della persona a cui avrebbero potuto essere trapiantate per curare per esempio, le malattie neurodegenerative.
A distanza di 12 mesi la Corea del Sud celebra il suo primato con un francobollo: un uomo si alza da una carrozzella per tornare a camminare. Da gennaio nel paese asiatico è entrata in vigore una legge che vieta la clonazione umana riproduttiva e regolamenta le ricerche per quella a scopo terapeutico.
La Gran Bretagna, che per prima nel 2001 decise di seguire le indicazioni del "Rapporto Donaldson" - il documento tecnico del 2000 che raccomandava di dotarsi di un quadro legislativo per questo tipo di ricerche - nell'agosto 2004 ha concesso la prima autorizzazione all'Università di Newcastle. Per un anno i ricercatori potranno studiare il trasferimento nucleare e le staminali embrionali così ottenute per trovare una cura per il diabete, una patologia che colpisce 180-200 milioni di persone nel mondo. E proprio in questo mese l'HFEA (Human Fertilisation and Embryology Authority) ha rilasciato una seconda autorizzazione, questa volta per Ian Wilmut, il "papà" della pecora Dolly. Angela McNab, direttore esecutivo dell'HFEA ha spiegato il perché: "Noi riconosciamo che le malattie neuromotorie sono gravi e congenite. Dopo avere attentamente esaminato i risvolti medici, scientifici, giuridici ed etici della richiesta, abbiamo giudicato appropriato concedere al Roslin Institute una licenza di un anno per la ricerca su queste malattie". Attualmente sono incurabili e colpiscono circa 100 mila persone in Europa e negli Stati Uniti. "La nostra ambizione è che il Regno Unito diventi la capitale della scienza del mondo" aveva preannunciato il premier Tony Blair. "La ricerca sulle cellule staminali è solo un esempio di una nuova area della scienza che ha un potenziale incredibile per migliorare la qualità della vita".
Un investimento finanziario e politico importante quello del governo britannico, ma che potrebbe non bastare. E così nomi illustri della scienza si mobilitano per creare una fondazione che raddoppi l'impegno. Dal presidente del gruppo Virgin, Richard Branson, all'esperto di fertilità e personaggio televisivo Robert Winston, dal presidente della Royal Society ed ex scienziato capo britannico Robert May, fino al genetista e autore di best seller Steve Jones. "Il paese è stato pioniere in questo campo, ma adesso stiamo arretrando leggermente, mentre altri corrono avanti" ha dichiarato lo scienziato e imprenditore Chris Evans. "Assistiamo a grandi progressi in Cina, Corea, Giappone e Germania, mentre gli Stati Uniti profondono denaro a piene mani".
Nel 2000 l'Italia, sulle tracce della Gran Bretagna, istituì una commissione tecnica guidata dal premio Nobel Renato Dulbecco, che giunse a conclusioni simili riguardo all'opportunità di compiere ricerche sulle staminali. Ad avere preso strade diverse è stata la politica.
angosce duemila
miti e genetica
La Repubblica 27.2.06
Alla ricerca della nuova chimera
Esperimenti di frontiera
le scienze
EMILIO PIERVINCENZI
Il Mito racconta che fu Bellerofonte, eroe dei Corinzi, a uccidere la Chimera, l´animale fantastico. Chi sarà a uccidere, oggi, la Chimera che la Scienza - non Echidna e Tifone, i genitori dell´animale con testa di leone, corpo di capra e coda di serpente - hanno iniziato a generare? Se Irving Weissman, biologo dell´università di Stanford, oltre a conoscere i mondi della genetica conoscesse i misteri del Mito, avrebbe qualche preoccupazione. Questi animali fantastici, minotauri, draghi o unicorni (per avere quest´ultimo, assicurano gli Dei, basta associare un dente di narvalo, un mammifero marino, al corpo del cavallo), non sono certo antenati, neppure lontani, del piccolo topo con cervello di uomo che Weissman è stato pochi giorni fa autorizzato a creare dal Comitato etico della prestigiosa università americana. Ne evocano il fascino dell´incertezza dei confini e delle contaminazioni, ma sono distanti per una questione centrale: quelli, gli unicorni e i draghi, erano il frutto della mente immaginifica dell´uomo e tutt´al più ne potevano occupare gli incubi e agitarne le ansie; questo, il piccolo "topumano", invece, ci fa tornare con i piedi per terra, alimenta le speranze mediche di cura per malattie neurologiche finora impossibili da aggredire, al massimo promette di gonfiare l´Ego di un ricercatore (forse anche il suo portafoglio) e il suo sogno di coronare con un Nobel una prestigiosa - e magari anche spregiudicata - carriera.
Weissman è in buona compagnia. Nel mondo scientifico, dove non esistono barriere etiche e giuridiche, la ricerca sulle chimere affascina molti altri centri universitari. Sarà perché gli xenotrapianti sono meno popolari di un tempo, per il pericolo virus che l´organo animale porta con se quando viene trapiantato sull´uomo (nemmeno le valvole con tessuto di maiale si usano più: davano problemi e sono state sostituite da materiali sintetici), sta di fatto che dagli Stati Uniti al Canada alla Cina la caccia alla chimera è aperta. Maiali che vivono - e bene - con sangue umano, pecore del Nevada che hanno il fegato per l´80 per cento umano, embrioni di uomo-coniglio che hanno resistito alcune settimane in un laboratorio di Shanghai, galline che fanno il verso e muovono la testa come le quaglie perché il professor Balaban, della McGill University di Montreal, ha fatto crescere neuroni di quaglia nel cervello delle galline.
L´ultima scoperta in ordine di tempo viene da Israele. Spiega il professor Giuseppe Novelli, ordinario di genetica all´università Tor Vergata di Roma: «È stato dimostrato che cellule staminali embrionali di maiale, se inserite al momento giusto del loro sviluppo, possono essere utilizzate per produrre organi come fegato, pancreas e polmoni da usare nell´uomo. Hanno scoperto il timing esatto, che finora non era noto».
Anche l´esperimento della Stanford University è molto promettente. Che cosa sta facendo il professor Weissman? Sta trapiantando neuroni umani nel cervello di topi da laboratorio. Il lavoro, condotto in team dalla università californiana e dall´azienda biotecnologia Stem Cells di Palo Alto, procede rapidamente. Le linee di ricerca sono essenzialmente due, una prevede l´inserimento di cellule umane malate dentro topi in salute, un´altra cellule umane sane in topi malati. L´ultimo stadio, solo teorico per la profonda diversità dei due cervelli, è la sostituzione totale delle cellule neuronali del topo con quelle umane. Ma difficilmente arriveremo alla situazione immaginata da H. G. Wells nell´Isola del dottor Moreau (1896): folli sperimentatori che si divertono a unire parti umane con parti animali.
Molto più realisticamente la ricerca punta a seguire l´evoluzione dei neuroni umani per tentare di capire come questi diventano difettosi. Weissman e il suo team hanno iniettato neuroni umani in feti di topi creando una classica chimera, topi con cervello per circa l´uno per cento umano, e questo ha loro consentito di osservare come le cellule umane si aggregano a quelle del topo, come si moltiplicano, quali connessioni fanno. «Ora aggiungeremo cellule di neuroni umani malate di Alzheimer, o della malattia di Lou Gehrig o di altri difetti cerebrali e osserveremo le conseguenze nel cervello del topo. Stiamo imparando una lezione che sarebbe stata impensabile con un bando etico nella ricerca sulle chimere», specifica Weissman.
Cogliere dunque l´attimo in cui una cellula modifica in peggio la sua esistenza e provoca nel cervello una sorta di tsunami biologico. Ecco l´obiettivo delle chimere create a Stanford. In futuro potrebbero essere sostituite regioni malate del cervello del topo con cellule umane sane ottenute dai feti. Ci sono malattie del sistema nervoso di cui non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo, ad esempio, come la paralisi che ha colpito l´astrofisico Hawking sia emersa, né immaginiamo che cosa l´abbia scatenata. Non sappiamo ancora abbastanza del Parkinson e dell´Alzheimer, né della schizofrenia o dell´autismo o della sclerosi. In fondo, la ricerca della Stanford punta a creare una sorta di "provetta da test con i peli". Ian Wilmut, il creatore della pecora Dolly, è stato autorizzato quindici giorni fa a produrre neuroni umani a partire da malati gravi del sistema nervoso attraverso la clonazione, Weissman è andato oltre: Wilmut fa esperimenti in provetta, Weissman li fa su un animale e per questo la sua avventura scientifica si incammina verso il confine sottile che separa la conoscenza dall´oblio. Qui si tratta di cervello, dove dovrebbe trovare posto la coscienza, quel che - dicono - ci differenzia dalle altre specie animali.
Gli americani comunque ci credono. Per la prima volta, infatti, è stato posto il problema della creazione delle chimere e il Comitato etico universitario di Stanford ha autorizzato formalmente la ricerca di Weissman. Il via libera è stato motivato così da Henry T. Greely, direttore del Centro per la legge e le scienze biologiche nonché capo del Comitato etico: «Abbiamo deciso che se vedremo un qualche segnale che ci riconduce al cervello umano o se il topo mostra comportamenti simili a quelli dell´uomo, del genere di una accresciuta memoria o di una maggiore capacità di risolvere i problemi, ci fermeremo». L´università californiana affronta dunque, prima nel mondo non solo negli Stati Uniti, la seguente questione filosofica: quando una chimera smette di essere animale e comincia a diventare uomo?
La sindrome di Frankenstein è in agguato. «La biotecnologia sta arrivando al suo limite», accusa Wesley J. Smith, del Discovery Institute. Già lo scorso anno il Canada ha specificamente messo al bando la creazione di chimere a scopo scientifico e Cynthia Cohen, membro del Canada´s Stem Cell Oversight Committee, suggerisce: «Anche negli Stati Uniti le chimere dovrebbero essere impedite, mischiare uomo e animale diminuisce la dignità umana». La National Academy of Sciences, cui spetta il compito di consigliare il governo federale sulle decisioni da assumere nelle questioni scientifiche, sta studiando la materia. Il prossimo mese presenteranno un piano agli scienziati con le linee guida da seguire in caso di ricerche sulle chimere. Greely dunque, che ha messo nel conto di trasformarsi nel Bellerofonte del ventunesimo secolo, non è il solo a doversi preoccupare delle chimere scientifiche. Sostiene Thomas Starzl, uno dei massimi sostenitori della chimerizzazione umana: «Assumere lo straniero in corpo ha un obbiettivo preciso: migliorare la specie umana».
Roberto Marchesini, direttore dei Quaderni di Bioetica, che sulle chimere ha scritto un bel libro (La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri), sposta l´angolo di osservazione, dal laboratorio di Stanford a quello che definisce «uno dei maggiori movimenti culturali che si affacciano sul XXI secolo, il post-umano». Dice: «Non si tratta solo di discutere sulla quallina o sulla caprapecora, ibridi animali realmente ottenuti dai ricercatori alla fine degli anni Novanta, o di dire se si sta dalla parte di Weissman o da quella di chi alza un muro davanti alla ricerca sugli embrioni umani - argomenta Marchesini - la chimerizzazione della società è sotto gli occhi di tutti, basta riflettere sulla modificazione culturale dell´immagine dell´uomo. È un´epoca, la nostra, in cui i tabù della purezza sono superati, in cui la contaminazione di specie diverse, di organico e inorganico, uomo e animale, è diventata un paradigma culturale affascinante e ormai abbastanza comune. Piacciono gli esseri umani con parti meccaniche, oppure capaci di ospitare cervelli e sensazioni soprannaturali, basti pensare al successo di film come Blade Runner e Matrix. Esiste inoltre la ricerca artistica sulla chimera, come quella che fa Daniel Lee con i suoi grandi quadri, che a New York hanno raggiunto quotazioni inarrivabili, dove i protagonisti sono un po´ uomini e un po´ animali. Ma c´è anche una tendenza estetica, forse più effimera e commerciale, ma molto in crescita. Sempre più donne, in particolare negli Stati Uniti, si rifanno a modelli animali: si felinizzano il viso, lavorando sul taglio degli occhi, gli zigomi, i padiglioni auricolari. Sì, piace la donna-gatto. Forse una legge può fermare la ricerca scientifica, come accade in Italia che in campi come questi è drammaticamente fuorigioco. Ma certamente nessuno può frenare una tendenza culturale».
Alla ricerca della nuova chimera
Esperimenti di frontiera
le scienze
EMILIO PIERVINCENZI
Il Mito racconta che fu Bellerofonte, eroe dei Corinzi, a uccidere la Chimera, l´animale fantastico. Chi sarà a uccidere, oggi, la Chimera che la Scienza - non Echidna e Tifone, i genitori dell´animale con testa di leone, corpo di capra e coda di serpente - hanno iniziato a generare? Se Irving Weissman, biologo dell´università di Stanford, oltre a conoscere i mondi della genetica conoscesse i misteri del Mito, avrebbe qualche preoccupazione. Questi animali fantastici, minotauri, draghi o unicorni (per avere quest´ultimo, assicurano gli Dei, basta associare un dente di narvalo, un mammifero marino, al corpo del cavallo), non sono certo antenati, neppure lontani, del piccolo topo con cervello di uomo che Weissman è stato pochi giorni fa autorizzato a creare dal Comitato etico della prestigiosa università americana. Ne evocano il fascino dell´incertezza dei confini e delle contaminazioni, ma sono distanti per una questione centrale: quelli, gli unicorni e i draghi, erano il frutto della mente immaginifica dell´uomo e tutt´al più ne potevano occupare gli incubi e agitarne le ansie; questo, il piccolo "topumano", invece, ci fa tornare con i piedi per terra, alimenta le speranze mediche di cura per malattie neurologiche finora impossibili da aggredire, al massimo promette di gonfiare l´Ego di un ricercatore (forse anche il suo portafoglio) e il suo sogno di coronare con un Nobel una prestigiosa - e magari anche spregiudicata - carriera.
Weissman è in buona compagnia. Nel mondo scientifico, dove non esistono barriere etiche e giuridiche, la ricerca sulle chimere affascina molti altri centri universitari. Sarà perché gli xenotrapianti sono meno popolari di un tempo, per il pericolo virus che l´organo animale porta con se quando viene trapiantato sull´uomo (nemmeno le valvole con tessuto di maiale si usano più: davano problemi e sono state sostituite da materiali sintetici), sta di fatto che dagli Stati Uniti al Canada alla Cina la caccia alla chimera è aperta. Maiali che vivono - e bene - con sangue umano, pecore del Nevada che hanno il fegato per l´80 per cento umano, embrioni di uomo-coniglio che hanno resistito alcune settimane in un laboratorio di Shanghai, galline che fanno il verso e muovono la testa come le quaglie perché il professor Balaban, della McGill University di Montreal, ha fatto crescere neuroni di quaglia nel cervello delle galline.
L´ultima scoperta in ordine di tempo viene da Israele. Spiega il professor Giuseppe Novelli, ordinario di genetica all´università Tor Vergata di Roma: «È stato dimostrato che cellule staminali embrionali di maiale, se inserite al momento giusto del loro sviluppo, possono essere utilizzate per produrre organi come fegato, pancreas e polmoni da usare nell´uomo. Hanno scoperto il timing esatto, che finora non era noto».
Anche l´esperimento della Stanford University è molto promettente. Che cosa sta facendo il professor Weissman? Sta trapiantando neuroni umani nel cervello di topi da laboratorio. Il lavoro, condotto in team dalla università californiana e dall´azienda biotecnologia Stem Cells di Palo Alto, procede rapidamente. Le linee di ricerca sono essenzialmente due, una prevede l´inserimento di cellule umane malate dentro topi in salute, un´altra cellule umane sane in topi malati. L´ultimo stadio, solo teorico per la profonda diversità dei due cervelli, è la sostituzione totale delle cellule neuronali del topo con quelle umane. Ma difficilmente arriveremo alla situazione immaginata da H. G. Wells nell´Isola del dottor Moreau (1896): folli sperimentatori che si divertono a unire parti umane con parti animali.
Molto più realisticamente la ricerca punta a seguire l´evoluzione dei neuroni umani per tentare di capire come questi diventano difettosi. Weissman e il suo team hanno iniettato neuroni umani in feti di topi creando una classica chimera, topi con cervello per circa l´uno per cento umano, e questo ha loro consentito di osservare come le cellule umane si aggregano a quelle del topo, come si moltiplicano, quali connessioni fanno. «Ora aggiungeremo cellule di neuroni umani malate di Alzheimer, o della malattia di Lou Gehrig o di altri difetti cerebrali e osserveremo le conseguenze nel cervello del topo. Stiamo imparando una lezione che sarebbe stata impensabile con un bando etico nella ricerca sulle chimere», specifica Weissman.
Cogliere dunque l´attimo in cui una cellula modifica in peggio la sua esistenza e provoca nel cervello una sorta di tsunami biologico. Ecco l´obiettivo delle chimere create a Stanford. In futuro potrebbero essere sostituite regioni malate del cervello del topo con cellule umane sane ottenute dai feti. Ci sono malattie del sistema nervoso di cui non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo, ad esempio, come la paralisi che ha colpito l´astrofisico Hawking sia emersa, né immaginiamo che cosa l´abbia scatenata. Non sappiamo ancora abbastanza del Parkinson e dell´Alzheimer, né della schizofrenia o dell´autismo o della sclerosi. In fondo, la ricerca della Stanford punta a creare una sorta di "provetta da test con i peli". Ian Wilmut, il creatore della pecora Dolly, è stato autorizzato quindici giorni fa a produrre neuroni umani a partire da malati gravi del sistema nervoso attraverso la clonazione, Weissman è andato oltre: Wilmut fa esperimenti in provetta, Weissman li fa su un animale e per questo la sua avventura scientifica si incammina verso il confine sottile che separa la conoscenza dall´oblio. Qui si tratta di cervello, dove dovrebbe trovare posto la coscienza, quel che - dicono - ci differenzia dalle altre specie animali.
Gli americani comunque ci credono. Per la prima volta, infatti, è stato posto il problema della creazione delle chimere e il Comitato etico universitario di Stanford ha autorizzato formalmente la ricerca di Weissman. Il via libera è stato motivato così da Henry T. Greely, direttore del Centro per la legge e le scienze biologiche nonché capo del Comitato etico: «Abbiamo deciso che se vedremo un qualche segnale che ci riconduce al cervello umano o se il topo mostra comportamenti simili a quelli dell´uomo, del genere di una accresciuta memoria o di una maggiore capacità di risolvere i problemi, ci fermeremo». L´università californiana affronta dunque, prima nel mondo non solo negli Stati Uniti, la seguente questione filosofica: quando una chimera smette di essere animale e comincia a diventare uomo?
La sindrome di Frankenstein è in agguato. «La biotecnologia sta arrivando al suo limite», accusa Wesley J. Smith, del Discovery Institute. Già lo scorso anno il Canada ha specificamente messo al bando la creazione di chimere a scopo scientifico e Cynthia Cohen, membro del Canada´s Stem Cell Oversight Committee, suggerisce: «Anche negli Stati Uniti le chimere dovrebbero essere impedite, mischiare uomo e animale diminuisce la dignità umana». La National Academy of Sciences, cui spetta il compito di consigliare il governo federale sulle decisioni da assumere nelle questioni scientifiche, sta studiando la materia. Il prossimo mese presenteranno un piano agli scienziati con le linee guida da seguire in caso di ricerche sulle chimere. Greely dunque, che ha messo nel conto di trasformarsi nel Bellerofonte del ventunesimo secolo, non è il solo a doversi preoccupare delle chimere scientifiche. Sostiene Thomas Starzl, uno dei massimi sostenitori della chimerizzazione umana: «Assumere lo straniero in corpo ha un obbiettivo preciso: migliorare la specie umana».
Roberto Marchesini, direttore dei Quaderni di Bioetica, che sulle chimere ha scritto un bel libro (La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri), sposta l´angolo di osservazione, dal laboratorio di Stanford a quello che definisce «uno dei maggiori movimenti culturali che si affacciano sul XXI secolo, il post-umano». Dice: «Non si tratta solo di discutere sulla quallina o sulla caprapecora, ibridi animali realmente ottenuti dai ricercatori alla fine degli anni Novanta, o di dire se si sta dalla parte di Weissman o da quella di chi alza un muro davanti alla ricerca sugli embrioni umani - argomenta Marchesini - la chimerizzazione della società è sotto gli occhi di tutti, basta riflettere sulla modificazione culturale dell´immagine dell´uomo. È un´epoca, la nostra, in cui i tabù della purezza sono superati, in cui la contaminazione di specie diverse, di organico e inorganico, uomo e animale, è diventata un paradigma culturale affascinante e ormai abbastanza comune. Piacciono gli esseri umani con parti meccaniche, oppure capaci di ospitare cervelli e sensazioni soprannaturali, basti pensare al successo di film come Blade Runner e Matrix. Esiste inoltre la ricerca artistica sulla chimera, come quella che fa Daniel Lee con i suoi grandi quadri, che a New York hanno raggiunto quotazioni inarrivabili, dove i protagonisti sono un po´ uomini e un po´ animali. Ma c´è anche una tendenza estetica, forse più effimera e commerciale, ma molto in crescita. Sempre più donne, in particolare negli Stati Uniti, si rifanno a modelli animali: si felinizzano il viso, lavorando sul taglio degli occhi, gli zigomi, i padiglioni auricolari. Sì, piace la donna-gatto. Forse una legge può fermare la ricerca scientifica, come accade in Italia che in campi come questi è drammaticamente fuorigioco. Ma certamente nessuno può frenare una tendenza culturale».
brevi dal web
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
L'elefantiaca mostra torinese curata da Vittorio Sgarbi e dedicata al «Male»
Esercizi di pittura crudele
Da Antonello a Caravaggio, da Kantor a Munch
Vincenzo Bonaventura
In principio fu Antonello da Messina. Almeno secondo Vittorio Sgarbi, curatore dell'elefantiaca mostra Il male, esercizi di pittura crudele, inaugurata venerdì sera nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (Torino), dove rimarrà aperta fino al 26 giugno. Perché con Antonello e i suoi inquietanti ritratti, dice Sgarbi, «ha inizio l'individualità del male, la sua identità storica, non simbolica, non esemplare, non metafisica. Il male e basta. Il male senza redenzione». Perché nell'enorme iconografia artistica che si può ricondurre al tema del male, Antonello è un innovatore, anzi un precursore, visto che i suoi ritratti, tra fisiognomica e finissima psicologia, sembrano quasi irrompere fra i dipinti del XX secolo, che già hanno conosciuto Freud e i suoi seguaci. In mostra c'è il Ritratto d'uomo, conservato in Palazzo Madama a Torino, già definito da Valdo Fusi «traumatizzante ritratto di mafioso». E Sgarbi ci ha dato dentro col concetto di mafioso, anche se qualunque storico potrebbe sorridere all'idea di una mafia esistente già nel Quattrocento. Semmai con quello sguardo trasversale e un sorriso appena accennato, ma sufficiente per segnargli il viso di propositi cattivissimi, il personaggio ritratto potrebbe essere un gentiluomo (ma non troppo) di campagna di qualsiasi parte del mondo, intelligente e malefico attore del suo microcosmo, sia esso siciliano, sia esso bergamasco o ferrarese (ammesso che anche qui ci siano gentiluomini di campagna intelligenti). Tant'è: vista che purtroppo la mafia oggi sicuramente c'è – e permane bene per giunta – che necessità c'è di riportarla indietro fino al Quattrocento e farne ambasciatore Antonello, un grande che ben altro ha esportato nel mondo dalla Sicilia? Forse nessuna, se non il gusto di stupire e far clamore. E infatti, ammettiamolo, quella di Sgarbi è stata soprattutto una battuta, utile a capire l'intensità di quel Ritratto. Rimane, invece, la circostanza che Antonello a Stupinigi è ospite di un altro grande messinese, Filippo Juvarra, l'architetto cui Torino deve la sua invidiata urbanistica, e che nel 1729 creò per i Savoia la celebre Palazzina di Caccia. La mostra di Sgarbi risente dello stile del suo curatore, o meglio di quella sorta di bulimia artistica, di compulsione ad addendum di ridondanza che diventa norma, per cui anche durante la conferenza stampa di ieri mattina, altri pezzi si aggiungevano alla mostra, partita con l'idea di un allestimento di 200-250 opere e arrivata a quasi 600. Tutto arte? Può essere discutibile per alcuni, ma sembra giusto avere aggiunto alla pittura e alla scultura anche la fotografia, i fumetti, i giornali satirici (poteva mancare Il male, non dimenticata testata iconoclasta?), il cinema, il teatro (si vede il video de La classe morta di Tadeusz Kantor), la televisione (con la riproduzione, tra l'altro, di un programma di Maria De Filippi). E si può discutere all'infinito anche su che cosa può rientrare nel concetto di male: dolore fisico, sacrificio, melanconia, morte, cattiveria, erotismo, sadismo, masochismo, crudeltà, menzogna... Un elenco infinito, talmente infinito che ha messo ko perfino Sgarbi che, pur aggiungendo opere fino all'ultimo secondo, si è soffermato su due punti. Un male, diciamo religioso, che lui ha definito «Cristo per tutti», e che ha come fine la redenzione o un aldilà, dove la gioia sostituirà il dolore. E un male che è dentro di noi, definito «ognuno per sé», idealmente introdotto da L'urlo di Munch (che naturalmente non è in mostra, essendo stato rubato qualche tempo fa). Il percorso cronologico ha quindi una sua logica ed entra nella coscienza del visitatore, lo aggredisce e in qualche maniera lo rende diverso perché non si può rimanere insensibili emotivamente a quello che si vede. Vedere il male genera il bene oppure altro male? Questa è una domanda forse ovvia e tuttavia destinata a non avere una risposta definitiva: ognuno di noi può procedere per imitazione o per contrasto. Per non sbagliare, comunque, la mostra è vietata ai minori. A colpire è anche il fatto che i capolavori sono pochi, ma sono tantissime le opere quasi sconosciute, perfette per illustrare il tema. Tra i capolavori spicca Cristo coronato di spine del Beato Angelico, conservato «fin troppo bene» nel museo di Livorno, nel senso che si trova in una stanza quasi sempre diffusa. «Sembra il Cristo del film The passion di Mel Gibson, pur nell'armonia del Beato Angelico», dice Sgarbi e ha ragione perché il ritratto è di insolita durezza per quell'artista. E ci sono ancora lo straordinario Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, proveniente da Siracusa, il Fanciullo morso da una ramarro dello stesso Caravaggio, e il famosissimo bulino di Albrecht Durer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Pure, tra tanti «memento mori», Caino e Abele, Giuditta e Oloferne, David e Golia, Salomè e San Giovanni Battista, martiri di ogni tipo, colpiscono opere davvero insolite, come i cinquecenteschi Ira di Dosso Dossi, con due donne che si accapigliano, e Mangiatore del braccio di Bartolomeo Passerotti, con un uomo cannibale di se stesso; i seicenteschi Alchimisti di Pietro della Vecchia, con personaggi-mostri, La strega, nuda e orrenda, di Salvator Rosa, e la cera colorata La Pestilenza del siracusano Gaetano Giulio Zumbo; il settecentesco Interrogatorio in carcere di Alessandro Magnasco, un vero campionario di crudeltà. Forse, però, la sorpresa vera viene dalle opere a noi più vicine nel tempo, quando la figurazione perde la sua morfologia per costruire i suoi personaggi come trasfigurati (in peggio) dall'inconscio. E come se l'uomo, all'improvviso, si sia accorto di essere diventato un mostro. Un esempio? L'urlo di Enrico Colombotto Rosso. Dove una figura femminile in nero sembra galleggiare tragicamente su una tela rosso sangue. E anche dove la figurazione riappare, come in Abramo e Isacco di Riccardo Tommaso Ferroni, versione in jeans della storia biblica, c'è sempre qualcosa di inquietante e sotteso. Addirittura le terrecotte policrome di Paul Schmidlin e l'installazione Sacrificio umano di Mathilde Ter Heijne, con una donna che si triplica per essere carnefice di se stessa, puntano a un realismo fotografico, che pure sembra essere espressione di un incubo. E perfino l'elegante video del grande artista italoamericano Bill Viola, Remembrance, con il suo costante cambio d'espressione sembra raccontare del nostro dolore più interiore, quello che non riusciamo a esprimere.
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
la spedizione archeologica di Emmanuel Anati
I resti di questo luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom
Il tempio più antico del mondo sul “vero” monte Sinai
Marco Passelli
I resti di un tempio, o meglio un luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom, un plateau di 850 metri sul livello del mare che, secondo molti studiosi, sarebbe il vero monte Sinai della tradizione biblica e che si trova a nord dell'omonima penisola, tra le città Eilat e Mizperamon. Ai piedi sono inoltre stati trovati segni di accampamenti risalenti alle ipotetiche date dell'esodo degli ebrei dall'Egitto. La scoperta è stata fatta nel corso della spedizione archeologica italiana nel Sinai e nel deserto del Negev, diretta dal professor Emmanuel Anati, fondatore e direttore del Centro Camuno di Studi Preistorici, che ha sede in Valcamonica, in provincia di Brescia, e che è stato docente di preistoria all'università di Tel Aviv e di Paletnologia all'università di Lecce. Anati, che da 24 anni svolge ricerche nella zona a nord del Sinai e nel deserto del Negev, illustrerà le sue recenti scoperte mercoledì prossimo, 2 marzo, alla 10,30 a Livorno, nella Biblioteca Labronica, in occasione della Conferenza Enriques 2005. I resti individuati sul Har Karkom risultano ad oggi, secondo il professor Anati, quelli del tempio più antico del mondo. Si tratta di una serie di monoliti antropomorfi, una quarantina in tutto, sistemati in un avvallamento, invisibile dal basso, e sull'orlo di un precipizio. «Appare come un vero e proprio luogo di culto risalente al periodo di passaggio tra il paleolitico medio e quello superiore – spiega il professor Anati – che attesta l'antichissima sacralità del luogo posto lungo il percorso migratorio tra l'Africa e l'Asia». Lungo tutto l'altopiano ci sono tracce di templi anche di epoche successive ed ai piedi del rilievo la spedizione del professor Anati ha trovato tracce di accampamenti umani risalenti al periodo indicato dalla tradizione biblica come quello dell'uscita degli ebrei dall'Egitto sotto la guida della mitica figura di Mosè. Sono stati scoperti fondi di capanne in pietra e fondi scavati nel terreno. «Le tracce – spiega il professore – indicano almeno 120 accampamenti capaci di ospitare diverse migliaia di persone». Il fatto che questi siano stati trovati ai piedi del rilievo e che, invece, i templi si trovassero sulla sommità fa inoltre pensare ad una netta divisione dei ruoli in quelle antiche società che riservavano quello sacro solo ad una ristretta cerchia di iniziati ammessi a salire sulla montagna sacra. Tutto ciò confermerebbe la narrazione biblica che parla di un solo uomo, Mosè, autorizzato a salire sul monte. «Le nuove scoperte – spiega Anati, che si riserva di scoprire tutte le carte in occasione della conferenza di Livorno – rimettono inoltre in discussione le date ipotetiche dell'esodo degli ebrei dall'Egitto che potrebbe risalire ad un'epoca precedente». La convinzione che il vero Monte Sinai della tradizione biblica sia in realtà lo Har Karkom non è solo di Emmanuel Anati, ma è condivisa da molti altri studiosi. «L'indicazione di quello dove sorge il santuario di Santa Caterina come il Monte Sinai sul quale salì Mosè – spiega Anati – fu assunta in epoca bizantina, trecentocinquanta anni dopo Cristo e molto probabilmente questo accade solo perché era la montagna più alta della zona».
gazzettadiparma.it 27 febbraio 2005
Lotta al disagio psichico
«Il disagio psichico è un problema che riguarda tutti e da cui nessuno è immune » , ha affermato mercoledí scorso Maurizio Vescovi all'associazione culturale «Parma Lirica» , in occasione della conferenza-dibattito organizzata dal nucleo Avis «Nando Corazzi» intitolata appunto «Il disagio psichico in medicina generale: dimensione di un problema» . Nel corso del convegno sono state illustrate con tanto di grafico e statistiche le varie tematiche di un problema che coinvolge tutte le società e i paesi. «Attraverso dati ufficiali dell'organizzazione mondiale della sanità - ha sottolineato il relatore - abbiamo rilevato che il 10- 15% della popolazione soffre di depressione e che un numero elevato di pazienti, senza arrivare alla diagnosi psichiatrica, ne presenta disturbi sottosoglia. E tutto ciò rappresenta un ostacolo non soltanto per il malato stesso, ma anche per tutta la famiglia e per chi lo circonda e proprio per questo sono stati definiti «pazienti che soffrono e fanno soffrire». Di vario genere sono gli avvertimenti di quello che è considerato il male del secolo e i principali sono: un umore depresso, la perdita di interesse e piacere, diminuzione di energia o variazioni dell'appetito e del peso e disturbi del sonno» . E' stata affrontata anche la questione degli psicofarmaci, considerati da Vescovi «un aiuto all'interno del dedalo delle azioni terapeutiche e da prescrivere sempre con grande attenzione solo se in corrispondenza di una terapia e di una relazione che si stabilisce tra medico e paziente, e solo in casi di rallentamento psicomotorio o agitazione, bassa autostima, sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e idee di morte». Tanti e interessanti i casi specifici che il medico ha raccontato all'attento pubblico in sala, attraversando le cause del «male oscuro» tra i più giovani, sottolineando l'importanza del ruolo degli insegnanti, e tra gli anziani, con il conseguente disagio da correlare all'isolamento e alla perdita di un ruolo sociale. Vescovi ha anche evidenziato l'importanza di ridurre il primo ricovero del paziente «perchè comunque lo stigma esiste, e talvolta questa consapevolezza anzichè portare dei benefici, rischia di peggiorare la situazione». «E' nostro dovere - ha infine concluso - registrare i nostri errori per evitare che accadano nuovamente. E soprattutto formare una nuova coscienza, per meritarci una maggiore fiducia» . Al termine dell'incontro sono state consegnate dal rappresentante dell'Avis dell'associazione Giovanni Baccaro targhe di riconoscimento allo stesso Vescovi, che «da anni svolge con grande professionalità e sensibilità l'attività di medico di base», a Franco Somacher e ad Amleto Cagna. Mariacristina Maggi
ilmessaggero.it 26 febbraio 2005
Proviamo a reagire da soli alla depressione
di MARIA RITA CHIACCHIERA
Perugia. LA PREDISPOSIZIONE al benessere fisico e psicologico, è innata o si costruisce?
Molte persone sono attente a riconoscere i segnali di allarme inviati dall'organismo e sono conseguentemente abituate a credere di poter affrontare qualunque avvenimento ”caricandosi” ancora di più. In realtà non fanno altro che dare maggior forza alle cause di stress. Alcuni studiosi della materia sono giunti alla conclusione che ogni disturbo che tende ad intaccare l'organismo è una minaccia alla stabilità psicofisica dell'individuo ed è quindi portatore di stress.
Che cosa significa il benessere psico-fisico?
«La persona - afferma il dottor Tiziano Grosso, psicologo e psicoterapeuta - è fatta di psiche e corpo, che sono indissolubili; l'uno influisce sull'altro. Quindi per avere un corpo sano, che è la base del benessere, bisogna avere anche una psicologia ordinata, che significa un modo di vivere in cui le scelte, i comportamenti, le relazioni, siano corrispondenti e funzionali alla persona».
Ogni scelta sbagliata ha un effetto e produce una micro-tensione; quando le micro-tensioni superano la soglia di tolleranza che è diversa da persona a persona, si determina uno stato di anomalia fisica (psicosomatica). Un organo subisce una ”pressione” che lo ”danneggia” prima sulla funzione e poi sulla struttura. Questo è il processo della malattia psico-somatica con cui viene colpito il corpo.
Come avviene invece il processo della depressione?
«La depressione invece, molto diffusa nella nostra società, colpisce lo stato emotivo e psicologico della persona e in questo senso è forse ancora più pericolosa dei disturbi somatici, perché colpisce a livello primario la mente, anche se, dopo, il corpo ovviamente ne subisce le conseguenze».
Perché questi disturbi oggi sono così diffusi anche tra i giovani?
«Intanto oggi le comunicazioni sono più veloci e precise che nel passato e quindi abbiamo una percezione dei fenomeni più immediata. Molto probabilmente la depressione, anche nei decenni passati, colpiva ampi strati della popolazione, solo che se ne parlava poco. Oggi abbiamo più tecnologie, più scoperte farmacologiche e maggiore esperienza sia psicologica che medica e quindi possiamo aiutare di più queste persone che soffrono».
Sicuramente, un punto di aiuto è il nostro stesso corpo che va salvaguardato e sostenuto. Il corpo possiede per natura una struttura elementare che è il nostro equilibrio, il cui effetto è il nostro stato di salute.
Quando una persona si trova in una situazione di disagio, che cosa deve fare?
«Quando il corpo subisce molte micro-tensioni - spiega il dottor Tiziano grosso - risponde segnalando una anomalia. Se la persona è attenta a se stessa, può cogliere questi segnali e attivare una reazione. Questa presa di coscienza è gia sufficiente per far comprendere all'individuo che sta accadendo qualcosa di anomalo in se stesso e quindi deve reagire secondo la propria tipologia di persona. L'importante è non sottovalutare questi primi sintomi di tristezza, malinconia e insoddisfazione, e se i disturbi persistono, consultare specialisti del settore».
Quali consigli per prevenire questi disturbi?
«”Mente sana in un corpo sano", lo sapevano bene gli antichi romani, cultori del benessere fisico e non solo: le terme, una buona musica, buone relazioni interpersonali, movimento fisico, alimentarsi in modo semplice e soprattutto non cedere mai alla pigrizia sia mentale che fisica».
Insomma, prima di ricorrere al medico, a volte basta sapersi guardare dentro con coscienza e lucidità, senza bleffare con se stessi, per trovare un antidoto capace di riportare la nostra situazione alla normalità e quindi tirandoci fuori dai pasticci.
Il tutto se la nostra situazione è ancora ”controllabile”: è evidente però che4 se abbiamo suoerato certi limiti, l’aiuto di uno specialista diventa indispensabile.
L'elefantiaca mostra torinese curata da Vittorio Sgarbi e dedicata al «Male»
Esercizi di pittura crudele
Da Antonello a Caravaggio, da Kantor a Munch
Vincenzo Bonaventura
In principio fu Antonello da Messina. Almeno secondo Vittorio Sgarbi, curatore dell'elefantiaca mostra Il male, esercizi di pittura crudele, inaugurata venerdì sera nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (Torino), dove rimarrà aperta fino al 26 giugno. Perché con Antonello e i suoi inquietanti ritratti, dice Sgarbi, «ha inizio l'individualità del male, la sua identità storica, non simbolica, non esemplare, non metafisica. Il male e basta. Il male senza redenzione». Perché nell'enorme iconografia artistica che si può ricondurre al tema del male, Antonello è un innovatore, anzi un precursore, visto che i suoi ritratti, tra fisiognomica e finissima psicologia, sembrano quasi irrompere fra i dipinti del XX secolo, che già hanno conosciuto Freud e i suoi seguaci. In mostra c'è il Ritratto d'uomo, conservato in Palazzo Madama a Torino, già definito da Valdo Fusi «traumatizzante ritratto di mafioso». E Sgarbi ci ha dato dentro col concetto di mafioso, anche se qualunque storico potrebbe sorridere all'idea di una mafia esistente già nel Quattrocento. Semmai con quello sguardo trasversale e un sorriso appena accennato, ma sufficiente per segnargli il viso di propositi cattivissimi, il personaggio ritratto potrebbe essere un gentiluomo (ma non troppo) di campagna di qualsiasi parte del mondo, intelligente e malefico attore del suo microcosmo, sia esso siciliano, sia esso bergamasco o ferrarese (ammesso che anche qui ci siano gentiluomini di campagna intelligenti). Tant'è: vista che purtroppo la mafia oggi sicuramente c'è – e permane bene per giunta – che necessità c'è di riportarla indietro fino al Quattrocento e farne ambasciatore Antonello, un grande che ben altro ha esportato nel mondo dalla Sicilia? Forse nessuna, se non il gusto di stupire e far clamore. E infatti, ammettiamolo, quella di Sgarbi è stata soprattutto una battuta, utile a capire l'intensità di quel Ritratto. Rimane, invece, la circostanza che Antonello a Stupinigi è ospite di un altro grande messinese, Filippo Juvarra, l'architetto cui Torino deve la sua invidiata urbanistica, e che nel 1729 creò per i Savoia la celebre Palazzina di Caccia. La mostra di Sgarbi risente dello stile del suo curatore, o meglio di quella sorta di bulimia artistica, di compulsione ad addendum di ridondanza che diventa norma, per cui anche durante la conferenza stampa di ieri mattina, altri pezzi si aggiungevano alla mostra, partita con l'idea di un allestimento di 200-250 opere e arrivata a quasi 600. Tutto arte? Può essere discutibile per alcuni, ma sembra giusto avere aggiunto alla pittura e alla scultura anche la fotografia, i fumetti, i giornali satirici (poteva mancare Il male, non dimenticata testata iconoclasta?), il cinema, il teatro (si vede il video de La classe morta di Tadeusz Kantor), la televisione (con la riproduzione, tra l'altro, di un programma di Maria De Filippi). E si può discutere all'infinito anche su che cosa può rientrare nel concetto di male: dolore fisico, sacrificio, melanconia, morte, cattiveria, erotismo, sadismo, masochismo, crudeltà, menzogna... Un elenco infinito, talmente infinito che ha messo ko perfino Sgarbi che, pur aggiungendo opere fino all'ultimo secondo, si è soffermato su due punti. Un male, diciamo religioso, che lui ha definito «Cristo per tutti», e che ha come fine la redenzione o un aldilà, dove la gioia sostituirà il dolore. E un male che è dentro di noi, definito «ognuno per sé», idealmente introdotto da L'urlo di Munch (che naturalmente non è in mostra, essendo stato rubato qualche tempo fa). Il percorso cronologico ha quindi una sua logica ed entra nella coscienza del visitatore, lo aggredisce e in qualche maniera lo rende diverso perché non si può rimanere insensibili emotivamente a quello che si vede. Vedere il male genera il bene oppure altro male? Questa è una domanda forse ovvia e tuttavia destinata a non avere una risposta definitiva: ognuno di noi può procedere per imitazione o per contrasto. Per non sbagliare, comunque, la mostra è vietata ai minori. A colpire è anche il fatto che i capolavori sono pochi, ma sono tantissime le opere quasi sconosciute, perfette per illustrare il tema. Tra i capolavori spicca Cristo coronato di spine del Beato Angelico, conservato «fin troppo bene» nel museo di Livorno, nel senso che si trova in una stanza quasi sempre diffusa. «Sembra il Cristo del film The passion di Mel Gibson, pur nell'armonia del Beato Angelico», dice Sgarbi e ha ragione perché il ritratto è di insolita durezza per quell'artista. E ci sono ancora lo straordinario Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, proveniente da Siracusa, il Fanciullo morso da una ramarro dello stesso Caravaggio, e il famosissimo bulino di Albrecht Durer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Pure, tra tanti «memento mori», Caino e Abele, Giuditta e Oloferne, David e Golia, Salomè e San Giovanni Battista, martiri di ogni tipo, colpiscono opere davvero insolite, come i cinquecenteschi Ira di Dosso Dossi, con due donne che si accapigliano, e Mangiatore del braccio di Bartolomeo Passerotti, con un uomo cannibale di se stesso; i seicenteschi Alchimisti di Pietro della Vecchia, con personaggi-mostri, La strega, nuda e orrenda, di Salvator Rosa, e la cera colorata La Pestilenza del siracusano Gaetano Giulio Zumbo; il settecentesco Interrogatorio in carcere di Alessandro Magnasco, un vero campionario di crudeltà. Forse, però, la sorpresa vera viene dalle opere a noi più vicine nel tempo, quando la figurazione perde la sua morfologia per costruire i suoi personaggi come trasfigurati (in peggio) dall'inconscio. E come se l'uomo, all'improvviso, si sia accorto di essere diventato un mostro. Un esempio? L'urlo di Enrico Colombotto Rosso. Dove una figura femminile in nero sembra galleggiare tragicamente su una tela rosso sangue. E anche dove la figurazione riappare, come in Abramo e Isacco di Riccardo Tommaso Ferroni, versione in jeans della storia biblica, c'è sempre qualcosa di inquietante e sotteso. Addirittura le terrecotte policrome di Paul Schmidlin e l'installazione Sacrificio umano di Mathilde Ter Heijne, con una donna che si triplica per essere carnefice di se stessa, puntano a un realismo fotografico, che pure sembra essere espressione di un incubo. E perfino l'elegante video del grande artista italoamericano Bill Viola, Remembrance, con il suo costante cambio d'espressione sembra raccontare del nostro dolore più interiore, quello che non riusciamo a esprimere.
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
la spedizione archeologica di Emmanuel Anati
I resti di questo luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom
Il tempio più antico del mondo sul “vero” monte Sinai
Marco Passelli
I resti di un tempio, o meglio un luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom, un plateau di 850 metri sul livello del mare che, secondo molti studiosi, sarebbe il vero monte Sinai della tradizione biblica e che si trova a nord dell'omonima penisola, tra le città Eilat e Mizperamon. Ai piedi sono inoltre stati trovati segni di accampamenti risalenti alle ipotetiche date dell'esodo degli ebrei dall'Egitto. La scoperta è stata fatta nel corso della spedizione archeologica italiana nel Sinai e nel deserto del Negev, diretta dal professor Emmanuel Anati, fondatore e direttore del Centro Camuno di Studi Preistorici, che ha sede in Valcamonica, in provincia di Brescia, e che è stato docente di preistoria all'università di Tel Aviv e di Paletnologia all'università di Lecce. Anati, che da 24 anni svolge ricerche nella zona a nord del Sinai e nel deserto del Negev, illustrerà le sue recenti scoperte mercoledì prossimo, 2 marzo, alla 10,30 a Livorno, nella Biblioteca Labronica, in occasione della Conferenza Enriques 2005. I resti individuati sul Har Karkom risultano ad oggi, secondo il professor Anati, quelli del tempio più antico del mondo. Si tratta di una serie di monoliti antropomorfi, una quarantina in tutto, sistemati in un avvallamento, invisibile dal basso, e sull'orlo di un precipizio. «Appare come un vero e proprio luogo di culto risalente al periodo di passaggio tra il paleolitico medio e quello superiore – spiega il professor Anati – che attesta l'antichissima sacralità del luogo posto lungo il percorso migratorio tra l'Africa e l'Asia». Lungo tutto l'altopiano ci sono tracce di templi anche di epoche successive ed ai piedi del rilievo la spedizione del professor Anati ha trovato tracce di accampamenti umani risalenti al periodo indicato dalla tradizione biblica come quello dell'uscita degli ebrei dall'Egitto sotto la guida della mitica figura di Mosè. Sono stati scoperti fondi di capanne in pietra e fondi scavati nel terreno. «Le tracce – spiega il professore – indicano almeno 120 accampamenti capaci di ospitare diverse migliaia di persone». Il fatto che questi siano stati trovati ai piedi del rilievo e che, invece, i templi si trovassero sulla sommità fa inoltre pensare ad una netta divisione dei ruoli in quelle antiche società che riservavano quello sacro solo ad una ristretta cerchia di iniziati ammessi a salire sulla montagna sacra. Tutto ciò confermerebbe la narrazione biblica che parla di un solo uomo, Mosè, autorizzato a salire sul monte. «Le nuove scoperte – spiega Anati, che si riserva di scoprire tutte le carte in occasione della conferenza di Livorno – rimettono inoltre in discussione le date ipotetiche dell'esodo degli ebrei dall'Egitto che potrebbe risalire ad un'epoca precedente». La convinzione che il vero Monte Sinai della tradizione biblica sia in realtà lo Har Karkom non è solo di Emmanuel Anati, ma è condivisa da molti altri studiosi. «L'indicazione di quello dove sorge il santuario di Santa Caterina come il Monte Sinai sul quale salì Mosè – spiega Anati – fu assunta in epoca bizantina, trecentocinquanta anni dopo Cristo e molto probabilmente questo accade solo perché era la montagna più alta della zona».
gazzettadiparma.it 27 febbraio 2005
Lotta al disagio psichico
«Il disagio psichico è un problema che riguarda tutti e da cui nessuno è immune » , ha affermato mercoledí scorso Maurizio Vescovi all'associazione culturale «Parma Lirica» , in occasione della conferenza-dibattito organizzata dal nucleo Avis «Nando Corazzi» intitolata appunto «Il disagio psichico in medicina generale: dimensione di un problema» . Nel corso del convegno sono state illustrate con tanto di grafico e statistiche le varie tematiche di un problema che coinvolge tutte le società e i paesi. «Attraverso dati ufficiali dell'organizzazione mondiale della sanità - ha sottolineato il relatore - abbiamo rilevato che il 10- 15% della popolazione soffre di depressione e che un numero elevato di pazienti, senza arrivare alla diagnosi psichiatrica, ne presenta disturbi sottosoglia. E tutto ciò rappresenta un ostacolo non soltanto per il malato stesso, ma anche per tutta la famiglia e per chi lo circonda e proprio per questo sono stati definiti «pazienti che soffrono e fanno soffrire». Di vario genere sono gli avvertimenti di quello che è considerato il male del secolo e i principali sono: un umore depresso, la perdita di interesse e piacere, diminuzione di energia o variazioni dell'appetito e del peso e disturbi del sonno» . E' stata affrontata anche la questione degli psicofarmaci, considerati da Vescovi «un aiuto all'interno del dedalo delle azioni terapeutiche e da prescrivere sempre con grande attenzione solo se in corrispondenza di una terapia e di una relazione che si stabilisce tra medico e paziente, e solo in casi di rallentamento psicomotorio o agitazione, bassa autostima, sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e idee di morte». Tanti e interessanti i casi specifici che il medico ha raccontato all'attento pubblico in sala, attraversando le cause del «male oscuro» tra i più giovani, sottolineando l'importanza del ruolo degli insegnanti, e tra gli anziani, con il conseguente disagio da correlare all'isolamento e alla perdita di un ruolo sociale. Vescovi ha anche evidenziato l'importanza di ridurre il primo ricovero del paziente «perchè comunque lo stigma esiste, e talvolta questa consapevolezza anzichè portare dei benefici, rischia di peggiorare la situazione». «E' nostro dovere - ha infine concluso - registrare i nostri errori per evitare che accadano nuovamente. E soprattutto formare una nuova coscienza, per meritarci una maggiore fiducia» . Al termine dell'incontro sono state consegnate dal rappresentante dell'Avis dell'associazione Giovanni Baccaro targhe di riconoscimento allo stesso Vescovi, che «da anni svolge con grande professionalità e sensibilità l'attività di medico di base», a Franco Somacher e ad Amleto Cagna. Mariacristina Maggi
ilmessaggero.it 26 febbraio 2005
Proviamo a reagire da soli alla depressione
di MARIA RITA CHIACCHIERA
Perugia. LA PREDISPOSIZIONE al benessere fisico e psicologico, è innata o si costruisce?
Molte persone sono attente a riconoscere i segnali di allarme inviati dall'organismo e sono conseguentemente abituate a credere di poter affrontare qualunque avvenimento ”caricandosi” ancora di più. In realtà non fanno altro che dare maggior forza alle cause di stress. Alcuni studiosi della materia sono giunti alla conclusione che ogni disturbo che tende ad intaccare l'organismo è una minaccia alla stabilità psicofisica dell'individuo ed è quindi portatore di stress.
Che cosa significa il benessere psico-fisico?
«La persona - afferma il dottor Tiziano Grosso, psicologo e psicoterapeuta - è fatta di psiche e corpo, che sono indissolubili; l'uno influisce sull'altro. Quindi per avere un corpo sano, che è la base del benessere, bisogna avere anche una psicologia ordinata, che significa un modo di vivere in cui le scelte, i comportamenti, le relazioni, siano corrispondenti e funzionali alla persona».
Ogni scelta sbagliata ha un effetto e produce una micro-tensione; quando le micro-tensioni superano la soglia di tolleranza che è diversa da persona a persona, si determina uno stato di anomalia fisica (psicosomatica). Un organo subisce una ”pressione” che lo ”danneggia” prima sulla funzione e poi sulla struttura. Questo è il processo della malattia psico-somatica con cui viene colpito il corpo.
Come avviene invece il processo della depressione?
«La depressione invece, molto diffusa nella nostra società, colpisce lo stato emotivo e psicologico della persona e in questo senso è forse ancora più pericolosa dei disturbi somatici, perché colpisce a livello primario la mente, anche se, dopo, il corpo ovviamente ne subisce le conseguenze».
Perché questi disturbi oggi sono così diffusi anche tra i giovani?
«Intanto oggi le comunicazioni sono più veloci e precise che nel passato e quindi abbiamo una percezione dei fenomeni più immediata. Molto probabilmente la depressione, anche nei decenni passati, colpiva ampi strati della popolazione, solo che se ne parlava poco. Oggi abbiamo più tecnologie, più scoperte farmacologiche e maggiore esperienza sia psicologica che medica e quindi possiamo aiutare di più queste persone che soffrono».
Sicuramente, un punto di aiuto è il nostro stesso corpo che va salvaguardato e sostenuto. Il corpo possiede per natura una struttura elementare che è il nostro equilibrio, il cui effetto è il nostro stato di salute.
Quando una persona si trova in una situazione di disagio, che cosa deve fare?
«Quando il corpo subisce molte micro-tensioni - spiega il dottor Tiziano grosso - risponde segnalando una anomalia. Se la persona è attenta a se stessa, può cogliere questi segnali e attivare una reazione. Questa presa di coscienza è gia sufficiente per far comprendere all'individuo che sta accadendo qualcosa di anomalo in se stesso e quindi deve reagire secondo la propria tipologia di persona. L'importante è non sottovalutare questi primi sintomi di tristezza, malinconia e insoddisfazione, e se i disturbi persistono, consultare specialisti del settore».
Quali consigli per prevenire questi disturbi?
«”Mente sana in un corpo sano", lo sapevano bene gli antichi romani, cultori del benessere fisico e non solo: le terme, una buona musica, buone relazioni interpersonali, movimento fisico, alimentarsi in modo semplice e soprattutto non cedere mai alla pigrizia sia mentale che fisica».
Insomma, prima di ricorrere al medico, a volte basta sapersi guardare dentro con coscienza e lucidità, senza bleffare con se stessi, per trovare un antidoto capace di riportare la nostra situazione alla normalità e quindi tirandoci fuori dai pasticci.
Il tutto se la nostra situazione è ancora ”controllabile”: è evidente però che4 se abbiamo suoerato certi limiti, l’aiuto di uno specialista diventa indispensabile.
storia
un archivio su Karl Marx
Corriere della Sera 27.2.05
A Mosca, nel reliquiario del comunismo: manoscritti, poltrone, bombe vietcong
L’ultima tazza di tè con Carlo Marx
di ARMANDO TORNO
Oggetti, carte e documenti si accumularono comunque in altre sedi. Così, già negli anni ’20 era operante un archivio per conservare le carte originali di Marx e di Engels; si diede vita ad altri musei dedicati alla Rivoluzione d’ottobre o a Lenin e nel maggio 1962 si aprì anche il «Museo Marx-Engels» per dar spazio ai moltissimi materiali raccolti. In esso c’era la poltrona dove Marx morì o quella su cui scrisse Il Capitale (entrambe comode, perché soffriva di foruncoli ai glutei a causa della cattiva dieta, come si evince dalle lamentele conservate in alcune lettere); c’era il ricordato servizio da tè, porcellane decorate dalla figlia, lo studio ricostruito, fotografie, ritratti, altro. Nel 1988, per consentire dei lavori all’edificio che era parte del Pcus, tutti questi oggetti-reliquia furono trasportati nell’allora «Archivio Marx-Engels-Lenin». Impacchettati, catalogati e ammassati, lì furono colti dal crollo dell’Urss nell’estate 1991. E lì sono ancora.
Chi scrive è riuscito a visitare il bunker dove sono custoditi i manoscritti di Marx e Engels; quindi, grazie all’antico direttore del Museo che porta il nome dei padri del comunismo, Lev Nicolaievic Vladimirov, ha visto e fatto fotografare alcuni degli oggetti intimi della famiglia Marx; infine è entrato nell’inaccessibile deposito dei cimeli accumulati dalla gioventù comunista sovietica, finiti anch’essi qui. Ma vediamo le cose con ordine.
Tutte le raccolte citate si trovano in un unico edificio, ora chiamato «Archivio di Stato Russo per la Storia politica e sociale». Siamo ricevuti dal direttore Kirill Anderson. Ci presenta il dottor Valerij Fomiciov, che parla un eccellente tedesco e che da oltre 36 anni è il custode dei manoscritti di Marx e di Engels, ma anche di centinaia di migliaia di documenti riguardanti la storia sociale e le rivoluzioni. Gli chiediamo chi è stato l’ultimo italiano che è entrato nel bunker sotterraneo (doppia porta blindata tipo sommergibile; pareti, soffitto e pavimento con l’anima in acciaio; armadi in ferro) e la risposta non si fa attendere: «Ero appena arrivato, quando alla fine del ’68 o all’inizio del ’69, qui venne Giangiacomo Feltrinelli. Fece un rapido giro, non si soffermò sui manoscritti». Poi nessun altro del nostro Paese; dei restanti pochissimi: quasi nessuno in periodo sovietico, soltanto i pronipoti di Marx e rari studiosi, tanto che si potrebbero contare sulle dita delle mani.
Chiediamo di vedere qualche esempio della scrittura di Marx, soprattutto quella rapida. In essa saltava le vocali e scriveva in più lingue, russo e parsi comprese. Fomiciov estrae un quaderno del 1857 e ci accorgiamo che qualche passo è in antico tedesco; poi un libro russo sulla classe operaia con fitte note in margine. Quindi opuscoli, pagine sparse, rapporti della polizia prussiana con ritagli di giornale, notazioni ebraiche. C’è da perdersi, sino a quando ci viene mostrato un album di famiglia ancora inedito: in fondo gli autografi dei visitatori dei Marx (c’è Heine e una firma indecifrabile potrebbe forse essere quella di Mazzini) e cose di famiglia: i desiderata, le letture, i dagherrotipi. Una pagina spetta al cane Whiskey (così è stato trascritto filologicamente). L’album verrà pubblicato tra qualche mese e presentato a Berlino il prossimo maggio. Ma non ci accontentiamo e chiediamo se c’è il documento sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che mai riconobbe, tale Friedrich Demuth, divenuto poi attivista e leader dei laburisti inglesi. Fomiciov sorride e risponde: «Le farò vedere qualcosa di unico». Estrae un foglietto anch’esso inedito che reca la scrittura a matita blu di Stalin. Sopra una comunicazione del 1° gennaio 1934, dell’allora direttore dell’Archivio Adoratskij che informava il dittatore dei documenti relativi a quell’amore ancillare, il piccolo padre scrisse: «Compagno Adoratskij è una cazzata. Lascia questo materiale d’archivio sepolto ben bene». La firma e la data: 2 gennaio 1934 (la traduzione si deve a Viktor Gajduk, professore all’Università di Mosca e già accademico dell’Urss, che era con noi).
Dal bunker saliamo nella soffitta blindata per vedere, tra l’altro, lettere di Voltaire, di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, opuscoli di Babeuf, manoscritti di Rousseau, processi della rivoluzione francese e una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vi sono numerosi documenti della Repubblica napoletana del 1799, nonché carte di Mazzini e Garibaldi, né mancano chicche sulle Cinque Giornate di Milano o missive per la «Giovine Italia». Molte cose nostre sono sepolte qui e Fomiciov ci ricorda che Giorgio Candeloro (autore della Storia dell’Italia moderna in 11 volumi, uscita da Feltrinelli tra il 1956 e il 1986, tradotta in russo) non ebbe il permesso di entrare. Come sono arrivati nell’Archivio documenti preziosi in quantità così abnorme? Stalin, per dirla in breve, diede ordine di comperare tutto quanto avesse anche un vago sapore rivoluzionario.
Abbandoniamo a malincuore queste carte e scendiamo nelle stanze dove sono accatastati gli oggetti appartenuti ai padri del comunismo. La curatrice Svetlana Kotova (buono il suo inglese) ci mostra il binocolo da teatro della famiglia, il tagliacarte, i medaglioni con i ritratti, poi il portafogli personale di Marx (con ricamata la parola «Unite»), il suo bocchino per sigari, quindi il fiocco che indossava e che fu ricavato dalla ricordata stoffa di quell’ultima bandiera dell’ultima barricata della Comune. Il direttore del vecchio museo Lev Nicolaievic, lì presente accanto alla signora, ci ricorda che «questo fiocco fu portato nello spazio a bordo del Soyuz», ma gli astronauti Komarov, Egorov e Feoktistov partirono salutati da Kruscev e al loro ritorno trovarono Breznev. Non manca la coppia di pistole di Ferdinand Lassalle, il teorico della «legge bronzea dei salari»: malauguratamente una delle due l’ha ucciso perché finì i suoi giorni in un duello (se ben ricordiamo, lasciò il primo colpo all’avversario...). Un ritratto del giovane Marx, eseguito all’Università di Bonn da un compagno di studi, ce lo mostra imberbe; chiediamo anche dell’ultima sua foto, scattata senza barba, ma non riceviamo risposta. Troppe cose e tutte accumulate. Su un armadio c’è il modellino della casa di Treviri, sparsi qua e là busti e ritratti. Visite italiane? Risponde Lev Nicolaievic: «Dopo il 1988, ovviamente, nessuna. Prima mi ricordo di una delegazione del Pci guidata da Luigi Longo».
Scendiamo infine - è di nuovo con noi Fomiciov - nel deposito dove sono accatastati gli oggetti dei giovani comunisti sovietici, i Komsomol. Scudi, busti, armi, simboli, di tutto un po’. In un armadio sono ammonticchiati fucili di varie guerriglie (anche quello dei cecchini che difesero l’Urss), qualche machete cubano (uno è dei rivoluzionari messicani); sparse qua e là lance africane, maschere orientali, falci e martelli in ogni materiale, modellini di trattori dei piani quinquennali e di carri armati o di autocarri che portarono i viveri al popolo in lotta, fusoliere di bombe americane inviate dai Vietcong, stiletti con cui si è soppresso un traditore, scuri, accette, sciabole, persino dischi della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca. Certo, non è una raccolta pacifista, ma chi scrive ricorda quanto veniva scandito in qualche manifestazione non molti anni or sono: «La lotta di classe non è violenza».
Si esce storditi. Accanto all’Archivio, percorrendo la via Tverskaja che va verso il Cremlino, c’è un’altra reliquia ma di diverso valore: il granito rosso di Carelia che fa da zoccolo a molte case del periodo staliniano, anche di quella dove abitavano i fisici che collaborarono ai progetti per l’atomica sovietica, tra cui il nostro Bruno Pontecorvo. Fu un dono del popolo finlandese a Hitler per costruirsi un monumento sulla Piazza Rossa. Ma i tedeschi non riuscirono a entrare a Mosca e i blocchi furono abbandonati alle porte della città. Oggi sono una decorazione.
A Mosca, nel reliquiario del comunismo: manoscritti, poltrone, bombe vietcong
L’ultima tazza di tè con Carlo Marx
di ARMANDO TORNO
In questo foglio inedito sino ad ora (foto a sinistra) c’è la comunicazione del 1° gennaio 1934 di Adoratskij, allora direttore dell’«Archivio Marx-Engels-Lenin», a Stalin con notizie relative al figlio illegittimo che Marx ebbe dalla propria donna di servizio, Helene Demuth. Inizia così: «Compagno Stalin, ti mando quanto abbiamo trovato nell’Archivio Imel (Istituto Marx-Engels-Lenin)...». La questione fu sollevata da una lettera di Clara Zetkin - leader del movimento femminista dell’Internazionale Comunista - al precedente direttore del medesimo Archivio, David Riazanov, poi fatto fucilare. Il giorno seguente, 2 gennaio, arrivò la risposta di Stalin che abbiamo trascritto e che invitava a tener «sepolta» la notizia.MOSCA - Intorno al Cremlino ci sono veri e propri reliquiari del mondo comunista. Oggetti, carte, armi, busti. Persino le tazze da tè di Marx. Certo, il corpo imbalsamato di Lenin, che riposa nella Piazza Rossa a Mosca, è la più nota delle reliquie. Ma non la sola. Anzi, in questi giorni, essa è - scusate l’espressione indelicata - sottoposta a un tagliando. Il mausoleo che la ospita è chiuso sino al 18 aprile e quindi c’è tutto il tempo per verificare lo stato di conservazione del cadavere e per confezionare alla salma un vestito nuovo (impegno cui si dedicano periodicamente i migliori sarti di Mosca). Del resto, le sostanze utilizzate per la mummificazione distruggono la stoffa. Lenin ha ancora le guardie del corpo, giacché l’illustre defunto è stato posto sotto controllo dal Vilar, il «Centro studi e laboratorio di ricerca delle nuove tecnologie biomediche», il cui vicedirettore, Yurij Denisov-Nikolskij, ha dichiarato: «È in perfetto stato di conservazione e, con tutte le norme prescritte e osservate, potrà stare nel mausoleo per altri 100 anni, se non più». Nel 1932 Stalin voleva trasformare questa tomba sulla Piazza Rossa in un grande reliquiario comunista, aggiungendo alla mummia di Lenin oggetti significativi della storia rivoluzionaria, che già dagli anni ’20 si stavano raccogliendo in tutto il mondo grazie al volontariato ma anche con acquisti alle aste o presso antiquari. Si voleva porre, ad esempio, accanto alla cara salma la bandiera dell’ultimo battaglione che combattè sull’ultima barricata della Comune di Parigi del 1870, ma i tecnici convinsero Stalin a desistere: temevano che molte spore, trasportate dai nuovi cimeli, potessero entrare nel mausoleo recando danni irreparabili alla reliquia maggiore.
Oggetti, carte e documenti si accumularono comunque in altre sedi. Così, già negli anni ’20 era operante un archivio per conservare le carte originali di Marx e di Engels; si diede vita ad altri musei dedicati alla Rivoluzione d’ottobre o a Lenin e nel maggio 1962 si aprì anche il «Museo Marx-Engels» per dar spazio ai moltissimi materiali raccolti. In esso c’era la poltrona dove Marx morì o quella su cui scrisse Il Capitale (entrambe comode, perché soffriva di foruncoli ai glutei a causa della cattiva dieta, come si evince dalle lamentele conservate in alcune lettere); c’era il ricordato servizio da tè, porcellane decorate dalla figlia, lo studio ricostruito, fotografie, ritratti, altro. Nel 1988, per consentire dei lavori all’edificio che era parte del Pcus, tutti questi oggetti-reliquia furono trasportati nell’allora «Archivio Marx-Engels-Lenin». Impacchettati, catalogati e ammassati, lì furono colti dal crollo dell’Urss nell’estate 1991. E lì sono ancora.
Chi scrive è riuscito a visitare il bunker dove sono custoditi i manoscritti di Marx e Engels; quindi, grazie all’antico direttore del Museo che porta il nome dei padri del comunismo, Lev Nicolaievic Vladimirov, ha visto e fatto fotografare alcuni degli oggetti intimi della famiglia Marx; infine è entrato nell’inaccessibile deposito dei cimeli accumulati dalla gioventù comunista sovietica, finiti anch’essi qui. Ma vediamo le cose con ordine.
Tutte le raccolte citate si trovano in un unico edificio, ora chiamato «Archivio di Stato Russo per la Storia politica e sociale». Siamo ricevuti dal direttore Kirill Anderson. Ci presenta il dottor Valerij Fomiciov, che parla un eccellente tedesco e che da oltre 36 anni è il custode dei manoscritti di Marx e di Engels, ma anche di centinaia di migliaia di documenti riguardanti la storia sociale e le rivoluzioni. Gli chiediamo chi è stato l’ultimo italiano che è entrato nel bunker sotterraneo (doppia porta blindata tipo sommergibile; pareti, soffitto e pavimento con l’anima in acciaio; armadi in ferro) e la risposta non si fa attendere: «Ero appena arrivato, quando alla fine del ’68 o all’inizio del ’69, qui venne Giangiacomo Feltrinelli. Fece un rapido giro, non si soffermò sui manoscritti». Poi nessun altro del nostro Paese; dei restanti pochissimi: quasi nessuno in periodo sovietico, soltanto i pronipoti di Marx e rari studiosi, tanto che si potrebbero contare sulle dita delle mani.
Chiediamo di vedere qualche esempio della scrittura di Marx, soprattutto quella rapida. In essa saltava le vocali e scriveva in più lingue, russo e parsi comprese. Fomiciov estrae un quaderno del 1857 e ci accorgiamo che qualche passo è in antico tedesco; poi un libro russo sulla classe operaia con fitte note in margine. Quindi opuscoli, pagine sparse, rapporti della polizia prussiana con ritagli di giornale, notazioni ebraiche. C’è da perdersi, sino a quando ci viene mostrato un album di famiglia ancora inedito: in fondo gli autografi dei visitatori dei Marx (c’è Heine e una firma indecifrabile potrebbe forse essere quella di Mazzini) e cose di famiglia: i desiderata, le letture, i dagherrotipi. Una pagina spetta al cane Whiskey (così è stato trascritto filologicamente). L’album verrà pubblicato tra qualche mese e presentato a Berlino il prossimo maggio. Ma non ci accontentiamo e chiediamo se c’è il documento sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che mai riconobbe, tale Friedrich Demuth, divenuto poi attivista e leader dei laburisti inglesi. Fomiciov sorride e risponde: «Le farò vedere qualcosa di unico». Estrae un foglietto anch’esso inedito che reca la scrittura a matita blu di Stalin. Sopra una comunicazione del 1° gennaio 1934, dell’allora direttore dell’Archivio Adoratskij che informava il dittatore dei documenti relativi a quell’amore ancillare, il piccolo padre scrisse: «Compagno Adoratskij è una cazzata. Lascia questo materiale d’archivio sepolto ben bene». La firma e la data: 2 gennaio 1934 (la traduzione si deve a Viktor Gajduk, professore all’Università di Mosca e già accademico dell’Urss, che era con noi).
Dal bunker saliamo nella soffitta blindata per vedere, tra l’altro, lettere di Voltaire, di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, opuscoli di Babeuf, manoscritti di Rousseau, processi della rivoluzione francese e una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vi sono numerosi documenti della Repubblica napoletana del 1799, nonché carte di Mazzini e Garibaldi, né mancano chicche sulle Cinque Giornate di Milano o missive per la «Giovine Italia». Molte cose nostre sono sepolte qui e Fomiciov ci ricorda che Giorgio Candeloro (autore della Storia dell’Italia moderna in 11 volumi, uscita da Feltrinelli tra il 1956 e il 1986, tradotta in russo) non ebbe il permesso di entrare. Come sono arrivati nell’Archivio documenti preziosi in quantità così abnorme? Stalin, per dirla in breve, diede ordine di comperare tutto quanto avesse anche un vago sapore rivoluzionario.
Abbandoniamo a malincuore queste carte e scendiamo nelle stanze dove sono accatastati gli oggetti appartenuti ai padri del comunismo. La curatrice Svetlana Kotova (buono il suo inglese) ci mostra il binocolo da teatro della famiglia, il tagliacarte, i medaglioni con i ritratti, poi il portafogli personale di Marx (con ricamata la parola «Unite»), il suo bocchino per sigari, quindi il fiocco che indossava e che fu ricavato dalla ricordata stoffa di quell’ultima bandiera dell’ultima barricata della Comune. Il direttore del vecchio museo Lev Nicolaievic, lì presente accanto alla signora, ci ricorda che «questo fiocco fu portato nello spazio a bordo del Soyuz», ma gli astronauti Komarov, Egorov e Feoktistov partirono salutati da Kruscev e al loro ritorno trovarono Breznev. Non manca la coppia di pistole di Ferdinand Lassalle, il teorico della «legge bronzea dei salari»: malauguratamente una delle due l’ha ucciso perché finì i suoi giorni in un duello (se ben ricordiamo, lasciò il primo colpo all’avversario...). Un ritratto del giovane Marx, eseguito all’Università di Bonn da un compagno di studi, ce lo mostra imberbe; chiediamo anche dell’ultima sua foto, scattata senza barba, ma non riceviamo risposta. Troppe cose e tutte accumulate. Su un armadio c’è il modellino della casa di Treviri, sparsi qua e là busti e ritratti. Visite italiane? Risponde Lev Nicolaievic: «Dopo il 1988, ovviamente, nessuna. Prima mi ricordo di una delegazione del Pci guidata da Luigi Longo».
Scendiamo infine - è di nuovo con noi Fomiciov - nel deposito dove sono accatastati gli oggetti dei giovani comunisti sovietici, i Komsomol. Scudi, busti, armi, simboli, di tutto un po’. In un armadio sono ammonticchiati fucili di varie guerriglie (anche quello dei cecchini che difesero l’Urss), qualche machete cubano (uno è dei rivoluzionari messicani); sparse qua e là lance africane, maschere orientali, falci e martelli in ogni materiale, modellini di trattori dei piani quinquennali e di carri armati o di autocarri che portarono i viveri al popolo in lotta, fusoliere di bombe americane inviate dai Vietcong, stiletti con cui si è soppresso un traditore, scuri, accette, sciabole, persino dischi della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca. Certo, non è una raccolta pacifista, ma chi scrive ricorda quanto veniva scandito in qualche manifestazione non molti anni or sono: «La lotta di classe non è violenza».
Si esce storditi. Accanto all’Archivio, percorrendo la via Tverskaja che va verso il Cremlino, c’è un’altra reliquia ma di diverso valore: il granito rosso di Carelia che fa da zoccolo a molte case del periodo staliniano, anche di quella dove abitavano i fisici che collaborarono ai progetti per l’atomica sovietica, tra cui il nostro Bruno Pontecorvo. Fu un dono del popolo finlandese a Hitler per costruirsi un monumento sulla Piazza Rossa. Ma i tedeschi non riuscirono a entrare a Mosca e i blocchi furono abbandonati alle porte della città. Oggi sono una decorazione.
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