martedì 29 marzo 2005

LA FESTA DI PIETRO INGRAO
le altre lettere pubblicate nell'inserto di Liberazione di domenica 27

Quando, alla fine del decennio, tutto precipita - l'Ottantanove, la caduta
Rina Gagliardi

Quando, alla fine del decennio, tutto precipita - l'Ottantanove, la caduta del muro di Berlino, la svolta della Bolognina - Pietro Ingrao è, di nuovo, protagonista: guida la battaglia del No, si oppone allo scioglimento del Pci, fa piangere, a Bologna, una platea intera. Quando scoppia la guerra del Golfo, si dissocia apertamente alla Camera dalla scelta dell'astensione, che il Pci porta avanti tra mille mal di pancia. Solo quando si consuma l'opzione neoliberista del partito - i governi Ciampi e Amato - viene, anche per lui, il momento dell'uscita dal partito - ora Pds. A settantotto anni, sceglie di star fuori dal "gorgo". Non dalla Politica, con la P maiuscola.
Il rifondatore
Ma come è fatto, alla fin fine, Pietro Ingrao? Tra i mille episodi, piccoli o grandi, che si possono dire di lui, ce n'è uno forse tanto piccolo quanto esemplare. Quand'era presidente del Crs, chiese ad un suo giovane collaboratore notizie su Bruce Springsteen, che aveva appena sentito nominare. Poi chiese che gli si potevano portare i dischi più rappresentativi del celebre folksinger. Glieli portarono, con indicazioni precise sulle canzoni più importanti. Lui si ascoltò con cura quei dischi, che molto gli piacquero - così, poco tempo dopo, lo si vide ad un concerto proprio di Bruce Springsteen, in mezzo ai giovani, che si divertiva e applaudiva. Aveva, allora, oltre settant'anni - e manteneva intatta la voglia di "alfabetizzarsi" in musica giovanile.
Ecco, Pietro è uno che, a tutt'oggi, non la smette di cercare alfabeti che non conosce. Lo fa talora con prudenza, con spirito diffidente, con i suoi ritmi e con i suoi tempi - ma non cessa di farlo. Come ha fatto, alla soglia dei novant'anni, con l'iscrizione ad un Partito, Rifondazione comunista, lui che da oltre dieci anni si declinava con fierezza un "cane sciolto", un senza-partito, un indipendente comunista.
La verità è che forse in Pietro, dietro le apparenze disciplinate e "ordinate", c'è un autentico disubbidiente. Ha sempre disubbidito allo schema che gli veniva predisposto dagli altri. Ha parlato quando parlare era un atto di rottura. Ha taciuto quando tutti gli chiedevano di parlare. Ha fatto "carriera" senza vera convinzione, dandole un calcio quando stava diventando una prigione definitiva. Ha insegnato a tanti, a tanti di noi, di più d'una generazione, il piacere di una politica libera e liberata, senza mai trasformarsi in un pedante maestro. Ha insegnato a tutti che l'arte del pensiero è essenziale a qualunque buona pratica. Ha innovato e ha rifondato, ogni volta, quel che ha potuto. Ha trasformato perfino le sue imperfezioni - i suoi dubbi eterni, la sua indecisione, il suo dichiarato "non valere un fico secco" come capocorrente - in virtù. Ed è sempre stato un uomo intero, nelle tempeste della politica, nei grandi dolori privati, nella famiglia, nei libri, nell'originalità della ricerca come nella caparbietà delle battaglie a cui non rinuncia.
Tra tre giorni, quest'uomo straordinario compie novant'anni: lo festeggeremo in molti modi, ma prima di tutto con tutto l'affetto di cui siamo capaci. Forse ancora non lo sa: ma lui, proprio lui, ci rappresenta fino in fondo. Rappresenta la parte migliore di noi, della nostra vita, della nostra ansia di cambiare questo pessimo mondo. Auguri infiniti, Pietro.

Rina Gagliardi

Le differenze rafforzarono la mia stima
Emanuele Macaluso


In un partito come il Pci fu possibile, a persone che avevano posizioni diverse anche su questioni rilevanti, stare insieme, pure nei massimi organi dirigenti del Partito, per cinquant'anni. E' come un'immagine, che rivedo dopo tanti anni, di riunioni, congressi, incontri e scontri, in occasione del novantesimo compleanno di Pietro Ingrao. Il quale, tempo fa, mi ricordava il suo primo viaggio politico in Sicilia, quando giovanissimo dirigevo la Cgil, e discutendo con me verificò una forte differenza tra noi nel valutare i fatti politici di quegli anni. E' vero che la divergenza che assunse rilievo politico esterno fu tra Amendola e Ingrao, grossolanamente indicati, il primo come leader della "destra comunista" e l'altro della "sinistra comunista", ma la dialettica politica e culturale nel gruppo dirigente del Pci - con Togliatti, con Longo e poi con Berlinguer - fu articolata e coinvolse persone con posizioni diverse, non sempre catalogabili come "destra", come "sinistra" e nemmeno "centrista".
Iniziare la vita politica nel sindacato, come accadde a me sin dal 1943, è molto diverso che farlo nel partito. E' vero che in quegli anni il sindacato era considerato una "cinghia di trasmissione" del partito, ma non era proprio così. La formazione politica era diversa, non solo perché convivevi con i socialisti e i democristiani (sino al 1948), ma anche perché il rapporto col mondo esterno, con i padroni con cui devi fare i contratti e con i lavoratori che scioperano e rischiano, è diverso. Nel sindacato il riferimento essenziale erano Di Vittorio, Santi, Novella e Foa.
Nel 1956 lasciai il sindacato per la segreteria regionale del Pci siciliano, e fui eletto nel Comitato Centrale, cominciando così a frequentare compagni come Ingrao, Amendola, Pajetta, Alicata. Bufalini era stato in Sicilia e con lui avevo un rapporto particolare. In quegli anni verificai che le differenza di vedute con Pietro, cui ho accennato, non cambiarono, ma la mia stima e anche il mio affetto per lui crebbero. Le ragioni di questa apparente contraddizione vanno ricercate non solo nel carattere di Ingrao, gentile e disponibile al dialogo nel cercare di capire le ragioni dell'altro (anche se non era facile smuoverlo dalle sue posizioni), ma perché c'era in lui, e anche in me, il convincimento che in definitiva era utile che nel partito convivessero posizioni diverse. Ma, ecco il punto nodale, a condizione che si mantenesse l'unità del Partito. Questo era stato il collante ideologico e metodologico che ha tenuto insieme persone che nel Pci avevano posizioni diverse. E l'unità si doveva garantire evitando e proibendo la formazione di correnti organizzate. Dissentire, ed esporre pubblicamente una posizione diversa da quella adottata dagli organi dirigenti, significava rompere col Partito.
Nel 1956, quando il nodo politico-ideologico del rapporto con l'Urss emerse con forza, le separazioni furono molte e assunsero un significato più generale. In quel momento la posizione di Ingrao, come quella di tutto il gruppo dirigente, fu drastica non solo nello schierarsi con l'Urss, ma nel difendere "l'unità del Partito".
La questione si ripropose nel 1966, dopo la morte di Togliatti, con Longo segretario, all'11° congresso. Questa volta il nodo era la politica del Pci verso il centro-sinistra di Moro e Nenni e il "neocapitalismo". Il confronto era cominciato - c'era ancora Togliatti - tra il 1960 e 1964. E già allora diversi compagni si differenziarono dalla linea togliattiana sul centro-sinistra: accettare la sfida sulle riforme, senza contrapposizioni globali. Ingrao e altri compagni (Rossana Rossanda, Reichlin, Pintor, Natoli, Parlato, ma anche Franco Rodano e Pietro Secchia, con posizioni diverse da quelle di Ingrao) pensavano ad una contrapposizione tra il "progetto neocapitalista del centro-sinistra e un modello di sviluppo della sinistra".
Tuttavia la questione "esplose" alla vigilia di quel congresso, quando attorno alle posizioni di Ingrao si radunarono, in tutte le regioni, gruppi di compagni (ingraiani) in modo da poterli configurare come una corrente. E al congresso Pietro parlò col piglio di un capo corrente, e fu applaudito solo da quella parte del congresso che si riconosceva nelle sue posizioni. Insomma, sembrava che si fosse rotto l'equilibrio ipocrita dell'unità del partito e del centralismo democratico. Non fu così. La reazione della maggioranza del gruppo dirigente del partito fu durissima, e non solo nelle repliche di Amendola, Alicata, Pajetta e altri compagni.
Ricordo bene quei giorni. Ero membro della segreteria del Pci e responsabile della Commissione di Organizzazione e, con Berlinguer, che dirigeva l'Ufficio di segreteria, avevo seguito l'andamento dei congressi di base e provinciali. La discussione nel gruppo dirigente si riaprì nel momento in cui dovevano essere rieletti gli organi dirigenti del partito. Amendola, Alicata, Bufalini, Novella proposero di rieleggere Ingrao nella Direzione, ma di escluderlo dall'Ufficio Politico, organismo composto da nove compagni fra i più autorevoli che fu istituito in quel congresso, insieme alla Segreteria.
In quel frangente, Amendola e gli altri criticarono Berlinguer e me per scarso impegno nella lotta politica, e proposero che cambiassimo lavoro: Berlinguer doveva andare a fare il segretario regionale in Lombardia e io nel Veneto. Longo respinse la proposta: Ingrao fu proposto come membro dell'Ufficio Politico; io lasciai l'Organizzazione, ma per spostarmi alla Stampa e Propaganda; Berlinguer, che rifiutò di trasferirsi a Milano, fu catapultato nella segreteria regionale del Lazio. Il gruppo di "ingraiani" fu scomposto, e tanti compagni cambiarono lavoro. Una brutta pagina.
Ingrao aveva posto un problema reale, e se la reazione del gruppo dirigente sarebbe stata diversa, forse sarebbe stata diversa tutta la vicenda politica del Pci.
Purtroppo anche Pietro, proprio su questo fronte, fece molti passi indietro, come si evince dal suo pesante intervento nel Comitato Centrale che decise la radiazione del gruppo del Manifesto.
Ho scritto molto e debbo concludere. Nella sostanza, Ingrao non cambiò l'asse del suo pensiero e del suo modo di fare politica. Direttore dell'Unità prima, dirigente del Pci a Botteghe Oscure, capo-gruppo a Montecitorio, Presidente della Camera, Presidente del Centro per la Riforma dello Stato: in ogni incarico ha lasciato traccia del suo pensiero e del suo agire, e molte persone che si sono politicamente identificati in quel pensiero e in quell'agire. Credo che questa eredità, che viene forse impropriamente chiamata l'ingraismo, sia la testimonianza di un'opera che ha inciso non solo in quell'area che ha avuto come riferimento il Pci, ma anche in quella più ampia della sinistra che si richiama ai movimenti.
C'è una domanda che sarebbe ipocrita non porsi riflettendo sulla storia politica di Ingrao: essa ha aiutato o ritardato il cammino del Pci e dei suoi eredi per qualificarsi come forza di governo? Una riflessione interessante per due motivi.
Ingrao, dopo il 1956, fu certamente uno dei dirigenti più critici verso l'Urss, e propenso ad accentuare l'autonomia del Pci. In questo senso aiutò il Partito ad essere forza di governo. Tuttavia la sua propensione a dare una torsione movimentista, di alternativa di sistema, alla lotta politica, non ha certo dato un contributo a fare crescere una cultura di governo.
L'altro motivo di riflessione riguarda e la sua opposizione alla svolta della Bolognina del 1989, l'uscita dal Pds, le sue riflessioni sul passato e l'oggi, e infine l'approdo a Rifondazione Comunista. Un altro capitolo, forse non separabile dal primo, su cui varrebbe la pena discuterne distesamente.
Il mio augurio a Pietro è quello di continuare a pensare e a dire, e ha farlo con onestà intellettuale e sincerità. E' questo ciò che ci ha dato, nella battaglia delle idee, e può darci ancora. All'augurio unisco un abbraccio affettuoso da chi è invecchiato con lui in una storia che rivendico come grande patrimonio della sinistra e della democrazia italiana.
Emanuele Macaluso

La sincerità e la stima fra due militanti non pentiti
Alessandro Curzi


Caro Pietro, avevo cominciato a buttar giù qualche riga per esprimerti, come tanti stanno facendo, i miei auguri per questo tuo pesante, ma formidabile novantesimo compleanno. Rileggendo, però, mi sono accorto di aver sfogliato solo alla superficie la mia memoria, mentre altri faranno assai di più, riferendosi a testi e documenti che fanno parte della storia del '900 italiano. E allora mi sono detto che le mie poche note erano troppo "per bene", ovvie e forse retoriche. Esattamente il contrario di quello che penso ti si debba, da parte di chi ha per te un affetto di antichissima data e mai venuto meno. E' troppo facile celebrarti come un santo laico o come una bandiera da sventolare nelle grandi occasioni.
In breve: ho strappato le due paginette inizialmente preparate e mi permetto, invece, di scriverti da compagno che ti ha seguito (o cercato di farlo) per tutta la vita, da quel lontano giorno in cui a me, appena quindicenne, tu capocronista dell'"Unità" desti da scrivere una nota di critica al giornale per il poco peso che dava al lavoro della mia sezione, la "Flaminio", fra i profughi del Campo Parioli.
Allora, approfitto dello spazio che il nostro amico Sansonetti mi lascia in queste pagine di "Liberazione" dedicate a rammentare e celebrare la tua lunga vita per dirti, ed è la prima volta, che non sono d'accordo con te su quanto vai sostenendo, da tempo, a proposito dei fatti di Ungheria. E mi riferisco ovviamente all'autunno del '56 e al tuo preteso (da te stesso preteso) errore per quel fondo dell'"Unità" nel quale sostenevi che compito nostro era di stare da una parte della barricata, che non era quella degli insorti. Hai ripetuto quest'autocritica anche pochi giorni fa, in un'intervista al "Corriere della Sera".
Io penso, Pietro, che sia venuto il tempo, poiché sono vecchio anch'io, di ragionare con più distacco di quell'autunno, quando ci trovammo divisi dalla barricata.
Tu avevi ragione, allora.
Infatti, non fu quella tragedia ungherese, per noi comunisti europei, più emozionante e coinvolgente di quanto non fu, invece, grave e determinante l'errore che i vincitori della seconda guerra mondiale commisero nel disegnare un ferreo assetto del mondo, diviso in due blocchi?
L'Ungheria del '56 non era stata preceduta, tanto per fare un esempio altrettanto sanguinoso, dalla brutale repressione da parte degli inglesi del possente movimento nazionale greco, che non accettava le soluzioni imposte dal loro blocco d'appartenenza, quello occidentale, sancite a tavolino? Forse non dobbiamo criticarci per aver liquidato la tragedia greca con troppa disinvoltura? O per aver raccontato in pochissime righe quello che era avvenuto a Hiroshima e Nagasaki?
Nell'autunno ungherese noi denunciammo, sì, l'aggressione anglo-francese all'Egitto per il canale di Suez, che poteva preludere, come temettero tutte le cancellerie del mondo, a una terza guerra mondiale, evitata dalla prontezza americana che denunciò l'iniziativa degli ex alleati. Ma dovremmo ben ricordarci che non era in gioco l'espansionismo di uno Stato a sfavore d'un altro, bensì solo la misura legittima di uno stato sovrano, l'Egitto in quel caso, di nazionalizzare un canale che attraversava le proprie terre.
Come vedi, carissimo compagno Ingrao, ho voluto scrivere proprio il contrario di una letterina di auguri, e abbracciarti mentre dico che, almeno su una questione, non sono d'accordo con te.
Potrei a questo punto dilungarmi per discutere anche di altre pagine della tua straordinaria vicenda politica, come la "scelta di campo" non compiuta (da te, da me, da tanti altri compagni che ancora se ne dolgono) dopo la Bolognina di Achille Occhetto… Ma mi fermo e alzo il bicchiere per brindare ai tuoi novant'anni e per augurare a me stesso di poter marciare dietro di te ancora, fino alla conclusione dei nostri giorni. Con la sincerità e la stima che passano fra due militanti non pentiti.
Alessandro Curzi

Tanti auguri al mio compagno di strada
Di Michele De Palma

«I gulag non sono stati una favola. Perché dovrei assumerli nel patrimonio mio, nel mio sentirmi comunista, ora che non ho l'alibi del non sapere?». Se oggi abbiamo ancora la possibilità di poterci chiamare comuniste e comunisti lo dobbiamo a chi, senza abiurare a quella storia, ha provato mille e mille volte a capovolgerla, leggerla, tradurla nelle mille domande che la realtà offre. Ricercare senza mai fermarsi, abbandonando ogni volta l'approdo sicuro per lanciarsi verso quella che appare come una deriva e invece è mare aperto. Questa è la storia di un compagno che ha fatto dell'età anagrafica un cimento per i biografi più che un palchetto o un trono da cui dispensare verità. La storia di un compagno a cui sento di poter dare del tu nonostante l'imbarazzo che provo ogni volta che lo incontro in una manifestazione. E' il mio compagno Pietro Ingrao che non è mai entrato nell'olimpo del paternalismo generazionale, ma che ha fatto della curiosità per il mondo l'unico dogma da osservare. Il suo «cercare dove sbagliammo» non è una forma di revisionismo storico, ma l'eterodossia di una vivace intelligenza che non deve mai piegarsi alle ragioni di partito, ai disciplinamenti d'ordine di "una" cultura o di "una" morale comunista. E' per questo che non lo sento come un "grande vecchio", ma come uno dei compagni con cui ho condiviso i primi passi del movimento dei movimenti nelle strade difficili e straordinarie di questi anni, a partire da Genova.
Ed è proprio per questa condivisione, caro Pietro, che uno di questi giorni, magari dopo i festeggiamenti per il tuo compleanno, vorrei incontrarti. Vorrei poter ripartire da quel luglio e ripercorrere gli anni passati insieme per continuare a camminare domandando.
Ritengo ci sia una differenza tra i movimenti che dagli anni sessanta in poi hanno attraversato la storia ed il movimento di oggi. Credo che sia in ballo la democrazia. Tutti i movimenti, da quello operaio a quello studentesco, hanno discusso e sperimentato forme di democrazia che hanno trasformato il nostro paese e hanno determinato nuovi spazi d'accesso alla cittadinanza compiendo un'azione di avanzamento. In questi anni le nostre discussioni sono state ricche ed a volte tormentate, penso al ragionamento fatto intorno ai temi della violenza e della non violenza, del potere e della critica del potere. Oggi però abbiamo bisogno di ordinare il dibattito intorno al nodo centrale della democrazia e della trasformazione di questa società. Forse occorre ripartire dalle esperienze di nuove mobilitazioni che il sud ha posto, utilizzando il linguaggio nuovo ed allo stesso tempo antico dell'autodeterminazione delle proprie vite e dei propri territori. Ripartiamo da Acerra, da Scanzano, da Melfi.
Caro Pietro, la strada che abbiamo intrapreso in questi anni, mi fa tornare alla mente una poesia di Costantino Kavafis: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio…». Buon compleanno!
Michele De Palma

Un innovatore, un modello di vita
Tanti, tanti auguri, davvero e con tutto il cuore a Pietro per i suoi 90 anni
di Antonio Bassolino


Ci siamo visti pochi giorni fa a Santa Maria Capua Vetere, perché il Consiglio Comunale, il sindaco e la giunta di questa bellissima e antichissima città della Campania hanno voluto dare la cittadinanza onoraria a Pietro Ingrao che, da ragazzo, ha studiato e vissuto in questa città. E' stata una giornata veramente particolare, piena di affetto e di amicizia dei cittadini e dei giovani di Santa Maria Capua Vetere verso Pietro. Fargli gli auguri non può che essere un ringraziamento e un riconoscimento per tutto ciò che ha fatto, per quello che ha saputo essere e tuttora è per il nostro Paese.
Ricordi personali, eventi politici, fatti quotidiani mi legano profondamente a Pietro. Per me è stato un maestro. Stare accanto ad Ingrao ha significato imparare qualcosa di raro in politica: il dubbio, la ricerca, il guardare sempre un po' più in là, oltre l'orizzonte dato. Da lui ho imparato tanto, forse non quanto avrei voluto o potuto, ma Pietro è nella mia vita una persona davvero importante, non solo sul piano politico. E' esattamente ciò che ha detto, con parole straordinarie Vittorio Foa: Ingrao è stato, anche per me, un modello di vita pratica, un esempio di vita morale
Gramsci dal carcere ci diceva: di non voler fare «né il martire né l'eroe (…) credo semplicemente di essere un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo». Pietro Ingrao, nella vita quotidiana e nelle sue scelte politiche, incarnava questo mondo, questi valori e li rendeva vivi e vitali. Perché Ingrao ha saputo esprimere, più e meglio di altri, l'anima più profonda del Pci. Di un partito inteso come comunità di uomini e di donne, che stanno insieme per costruire il futuro.
Ingrao è stato tra gli uomini più amati del Pci, una delle più alte e migliori espressioni. Di un singolare partito comunista che, nonostante errori e limiti, è stato parte essenziale della storia dell'Italia e ha dato un contributo determinante alla democrazia e alla costruzione di una società italiana, un po' più libera e un po' più giusta. Il tema delle libertà e della democrazia è del resto uno dei principali filoni della ricerca di Ingrao, del suo orizzonte comunista.
Come ampliare i confini della democrazia e delle libertà è la domanda che attraversa per intero la sua esistenza. Una ricerca che conduce dentro e fuori il partito.
Pietro è stato ed è, secondo me, un grande innovatore. Dentro il Pci in primo luogo. Quando all'XI congresso prende la parola sapeva che era la prima volta che un dirigente comunista invocava in un congresso il diritto al dissenso. Sapeva ciò che faceva, sapeva che avrebbe pagato un duro prezzo. Ma Pietro è stato un innovatore anche sui temi sociali ed istituzionali. E' un uomo di frontiera, che vede meglio e prima di tanti altri, la necessità della riforma dello Stato e delle istituzioni. Lo fa, prima da presidente della Camera e, dopo, dal "Centro Studi per la riforma dello Stato".
Perché "poco sapeva della complessità dello Stato" e perchè sentiva di dover dare il proprio contributo al grande tema del rapporto tra società e potere, tra governati e governanti, tra partecipazione democratica e decisione politica.
Pietro incarna il volto mite della politica, di una politica consapevole dei propri limiti, di una politica che non subordina a sé le altre forme dell'esistenza umana. Anzi, nella ricerca incessante di Pietro, nel suo ribadire la necessità di un orizzonte di liberazione dal dominio dell'uomo sull'uomo, persino nelle autocritiche e nel riconoscimento, anche drammatico, degli errori commessi c'è una nitida coerenza. C'è il tentativo di una comprensione più profonda dell'esistenza, la necessità di ricondurre la politica ad una dimensione più equilibrata, più aperta, più umana. Io credo che questo sia il bene più grande che Ingrao ha saputo darci in tutti questi anni.
In queste ore il mio ricordo commosso va a Laura Ingrao, alla straordinaria compagna della sua vita. Laura, quando ci chiudevamo a parlare di politica, portava la sua dimensione umana. Si imponeva, ci strappava alla politica più solita e più classica e ci "costringeva" ad occuparci della condizione dei detenuti di Rebibbia, dei disagi e di fatti della realtà quotidiana che interessavano tanti lavoratori, tanta povera gente. Forse dico una cosa che è troppo dentro il "personale". Ma voglio dirla perché so che farà piacere a Pietro e soprattutto perché è vera: ciò che Pietro è stato ed è lo si deve molto anche a Laura.
La curiosità di Pietro, la sua capacità di ricercare risposte per l'oggi e per il futuro, il suo rigore intellettuale, la sua passione sono stati e continuano ad essere un vero e proprio punto di riferimento per tanti e tanti di noi. La gioventù non è mai un mero e arido dato anagrafico, è la capacità di innovarsi, di sperimentare, giorno dopo giorno, sulla propria pelle, il confronto con la realtà, con il mondo che cambia, con le idee. E' un esercizio duro a cui Pietro non si è mai sottratto in tutti questi anni.
Con questi sentimenti mi unisco alla gioia dei suoi figli e dei suoi familiari e rinnovo i miei affettuosi auguri verso un uomo che ancora tantissimo saprà dare alla sinistra e al nostro Paese.
Grazie ancora, Pietro.
Antonio Bassolino