Marradi, sull'Appennino
Dove la follia di Campana diventò poesia
Annidato sul fiume tra le colline, il paese è come un monumento serio e silenzioso
Marco Ciriello
Era il matto del villaggio. Quello che faceva vergognare la famiglia. Il figlio venuto male; da nascondere, allontanare, punire. Buono a nulla, incontenibile, sempre pronto alla fuga; quello da mettere in mezzo, da umiliare, sfottere, rinchiudere. Invece, era un grande poeta: Dino Campana. Il tempo gli ha dato ragione. Se li è lasciati tutti dietro. Li ha staccati, surclassati, dimenticati. Con la poesia. Parole, suoni, metrica. Cavalcano ancora il tempo. Passano da bocca a orecchio. Lucide visioni che accendono l’immaginazione di chi legge. Cullano emozioni, lasciano stupore, musica, vita: i suoi versi. Melodiose fughe in mondi veri resi improbabili, sudati sogni, sofferenza, rabbia, amore. Spalancano cieli avvolti da nuvolosi colori irreali. Città, uomini, donne. Notti e giorni. Diventano una lunga ininterrotta evasione. L’opera doveva essere la giustificazione alla sua vita. Ingiusta, sciagurata, impedita. Una vita da poeta. Un tortuoso dolente percorso partendo da Marradi (paesino dell’alta Toscana: rifugio, tana, prigione) fino a Buenos Aires, passando per Firenze, Bologna, Genova, Bruxelles e la Svizzera, Torino, università, manicomi, prigioni. Arresti, fogli di via, rifiuti. Non è stato un picnic l’esistenza di Campana. Ma un ininterrotto prendi e scappa, patisci e spera, rilancia, imbroglia, tieni duro, provaci ancora e ancora e ancora. Marradi è una tomba vuota, oggi. Una mano chiusa. Poche case, paesaggio appenninico, vasto territorio collinare, una strada che le auto percorrono in fretta, chiese scialbe, bar vuoti, silenzio, noia, gente chiusa in casa. Alle spalle c’è la Romagna. Siamo a nord-est di Firenze. Dietro il nido di case ci sono dolci colline, protettive, quelle che lo accoglievano per le letture, donando pace ai suoi pensieri, solitudine, corretta dimensione d’animo. Il paese è attraversato dal fiume Lamone, fasciato di cemento, ma in compenso carezzato ancora da bonarie anatre, che giocano a pelo d’acqua. Provano senza sosta a risalire la corrente, inutili, respinte dalla forza maggiore del fiume, scivolano. Passiamo senza fretta, alle sette di sera, cercando il centro studi campaniano. Chiuso. «Campana? per carità, non ne so niente», risponde il vecchio prete don Guglielmo, un Arnoldo Foà con naso massiccio e rosso. Ciondolando dalla canonica alla chiesa. «A quest’ora son tutti a tavola, e poi qui ci alziamo presto la mattina». Alla biblioteca comunale ci danno il numero della signora Gentilini, che però è a pregare per il maggio mariano e tocca aspettare. La mostra permanente campaniana è foto e biografia, il centro ha ben poco, la cosa migliore è un quadro di Emilio Tadini, i suoi personaggi nasuti sospesi nel buio, un girotondo d’adulti nelle tenebre, con uscita. Impressionante, invece, è una foto di Campana appena venuto fuori dal manicomio: un Mussolini bello, il viso contratto, la testa rapata, e gli occhi tirati, le braccia incrociate sul petto, tese come una camicia di forza che non c’è, ma che forse lui sente ancora. Valeva la pena di aspettare solo per quella, il resto - quadri, monete, riproduzioni - è dimenticabile. Come la sua casa. Chiusa, ovviamente. Emilio Cecchi diceva che «accanto a Campana si sentiva la poesia come se fosse una scossa elettrica, un alto esplosivo». Ma si vede che il paese non è sensibile come il critico. O forse quella poesia è esplosa una volta sola, perdendosi nell’aria, fuggendo nel vento. I «Canti Orfici»: la sua opera, il riscatto, la scommessa, l’immortalità; hanno dentro anche una storia singolare. Frutto dei viaggi, degli incontri, delle città e delle esperienze del poeta, hanno avuto una gestazione travagliata, piena di tentativi andati male, rischiando anche di vedere la luce per essere persi. Anni dopo (1929) Campana si vedrà recapitare il libro in manicomio a Castel Pulci (dove morirà), e nei momenti di lucidità troverà gli errori, i tagli della censura, riuscendo anche a scrivere al fratello «affinché cercasse l’edizione originale per ricordo». Ma prima sarà tutto diverso. Una volta scritti (con il titolo «Il più lungo giorno» e come exergo la frase di Nietzsche: «E come puro spirito varca il ponte»), il poeta li consegna in lettura a Giovanni Papini che poi li deve passare a Ardengo Soffici, ma i due intellettuali della Firenze del primo decennio novecentesco, che animavano cultura e società, non prendono in considerazione l’opera del matto, non la leggono, o se lo fanno è senza importanza, e la smarriscono. Saranno in molti a ignorarlo, tra questi anche il futurista Filippo Tommaso Marinetti. Non trovandosi più il manoscritto, Campana è costretto a riscrivere l’opera, a memoria. Ci riesce. La spedisce agli editori del tempo: Vallecchi, Treves, Zanichelli, ma non ha risposta, così alla fine la stampa Ravagli, una tipografia del paese, e lui si incarica di venderla e farla circolare. Vero o falso che sia, l’episodio di Campana che prima di consegnare il libro a Marinetti ne strappa molte pagine - perché non le capirebbe - è bellissimo, e molto campaniano. Oltre la sua opera che si realizza, l’unico momento di tregua, anche se fuggevole, travagliato, e pieno di litigi, riprese e cadute, prima della vera pazzia, sarà la storia con la scrittrice Sibilla Aleramo, donna meravigliosa, instancabile mangiatrice di uomini, ma anche capace di slanci d’animo e aperture sentimentali vere.
«Vi amai per la città dove per soleCamminando in piazza delle Scalelle dove ci sono il municipio e gli unici edifici con un po’ di storia, un flebile filo con il passato, si può immaginare Campana trascinato dalle guardie, o deriso in piazza. E gioire, perché lui ha avuto sempre ragione. «Dietro un matto c’è sempre un villaggio» aveva scritto Edgar Lee Masters, forse Marradi è esistita fin quando lui era in vita, fin quando si poteva alimentare della sua pazzia. Ora è solo un monumento senza senso. Non ha saputo cogliere e vedere nell’esuberanza di quel ragazzo, nei suoi modi estremi di vivere, sentire, scavalcare il suo tempo, che uno stupido. Ne ha fatto una vittima, un escluso, un pericolo. Forse per questo adesso è così silenziosa. Pervasa da una seriosità che sa di pentimento. Una condanna che arriva fino ai nostri giorni. Che salva solo il paesaggio. Muta, sconta la sua pena. Senza l’allegria, le bravate, le urla del ragazzo che studiava chimica e doveva essere farmacista, ufficiale, il vagabondo, il demente, il mozzo, il fuochista, l’operaio nella pampa, lo scemo, il selvaggio, l’anarchico pericoloso, il mendicante, il montanaro, l’ubriacone, il poeta. Uno così non può avere una associazione normale a ricordarlo, un premietto d’agosto con reading e serate di gala, merita altro. Chissà se è mai venuto per queste strade, se ha mai guardato la ferrovia con ansia, Carmelo Bene. Sì, lui era l’unico che poteva riscattare Marradi e rendere davvero omaggio a Campana. Per capire lui, e i suoi «Canti Orfici», bisogna sentirli masticati dalla voce di Bene. La punta più alta di Campana è anche la fine della grazia, l’inizio del disfacimento. Carmelo Bene, leggendoli, li riconsegna al nulla dal quale sono venuti, ogni volta, quasi restituendo la pace a Campana. Bene non li legge semplicemente i «Canti Orfici»: li cancella, la sua voce diviene verso, parola, rigo, strofa, poema, liberando la pagina nell’aria, ripercorrendo, inversamente, la scintilla, la febbre che costituisce la creazione; l’impalpabile sovrana scrittura, così, è sottoposta a un percorso terreno, una morte buddhista: che mille e mille volte, nasce e si spegne. Innalza, trascina, e fila via. Emozioni, gioia, lacrime. È un nuovo mondo che si crea e scompare. La poesia è uno strumento da suonare, per pochi. I «Canti» sono un guanto che Bene calza alla perfezione, chi ha ascoltato l’attore «divenire» la poesia di Campana, non può separarsene. Riesce nel difficile compito di rendere reali le immagini del poeta, le materializza, le porta nella vostra stanza e vi costringe ad amarlo, sentirlo, è una questione di magia, che Bene ha e soffia, tocca, anima, dentro, attraverso, su, nei «Canti», li fa tornare, danzare, correre nell’aria, bambini in tondo, nuvole e cieli sconosciuti, e poi puff, suoni che lentamente spariscono, e nulla più è come prima. «They were all torn and cover’d with the boy’s blood». «Essi erano tutti stracciati e ricoperti del sangue del fanciullo». Riverbero, che ci portiamo dentro. Ricordo che il treno mette in salvo portandoci via da Marradi.
strade si posa il passo illanguidito
dove una pace tenera che piove
a sera il cuore non sazio e non pentito
volge a un’ambigua primavera in viole
lontane sopra il cielo impallidito».
Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto del 1885 da Giovanni, maestro elementare, e Francesca Luti, detta Fanny. Studiò presso il Convitto Salesiano, iniziò gli studi liceali prima a Faenza, poi a Torino. Seguì i corsi di Chimica a Bologna. I primi anni di università furono un vero disastro: non riescì a sostenere neppure un esame e frequentò prevalentemente le lezioni di Lettere. Il padre decise allora di mandarlo a Firenze presso uno zio magistrato, poi lo richiamò a casa, e la tensione in famiglia si fece sempre più vistosa. Nel 1906 venne ricoverato per qualche tempo nel manicomio di Imola. Nel 1907 lasciò gli studi e per viaggiare: prima in Francia, poi in America del Sud. Tornato in Europa, in Belgio venne arrestato e quindi internato in manicomio. In Italia nel 1909, dopo tre anni si iscrisse ancora a Chimica a Bologna e pubblicò i primi versi. Prese i primi contrastati contatti con il gruppo di poeti e intellettuali fiorentini. Uno di loro: Soffici, suo grande estimatore, smarrì il manoscritto de «Il più lungo giorno», alimentando il mito del poeta costretto a ricostruire la sua opera tutta a memoria. I «Canti Orfici» furono poi pubblicati a Marradi dalla tipografia Ravagli nel 1914. Allo scoppio della guerra avrebbe voluto arruolarsi come volontario, ma venne di nuovo rinchiuso in manicomio. Nel 1916 conobbe Sibilla Aleramo, con lei ebbe una relazione difficile ma importante anche per il carteggio che determinò. Nel 1918 venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove morì nel 1932.