La Stampa TuttoLibri 14.5.05
Non parlare a vuoto: ricordati che la lingua ha un corpo
Tullio De Mauro
CHI di noi appartiene all'età adulta ed è per giunta istruito usa le parole in uno spazio che in genere gli appare puramente mentale: le ascolta e capisce, le progetta e con poca fatica le dice o scrive. Ogni giorno una persona adulta colta "processa", come dicono gli informatici, decine e decine di migliaia di parole. Vale la pena azzardare una stima. Sappiamo che in un minuto leggiamo o sentiamo leggere ad alta voce in modo comprensibile circa cento parole italiane o tedesche, centodieci francesi o inglesi, ma contemporaneamente, nello stesso minuto, ne pensiamo almeno altrettante senza troppa difficoltà. Per essere cauti, si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso. Nella lettura muta un buon lettore triplica queste cifre. E le parole pensate possono scorrere sullo schermo della mente ancora più veloci di quelle lette. Così l'adulto colto si fa l'idea che le parole e il parlare siano qualcosa di aereo, puro spirito. Restano sepolte nella memoria perinatale e postnatale le fatiche del primo apprendimento delle prime parole, quando tutto il corpo, cervello compreso, dovette imparare a obbedire a un impulso primordiale: impegnarsi nella fatica di ascoltare voci, di isolare parole, di capirle, capirne l'importanza vitale, imparare a tenerle a mente, desiderare poi di balbettarle e, infine, riuscire a dirle. E anche di solito resta sepolta nella memoria infantile quella che Antonio Gramsci chiamava "la fatica muscolare dello studio" - natiche dolenti per lo stare seduti a leggere, occhi stanchi a decifrare gruppi di lettere di alfabeti o ideogrammi, a imparare cifre e numeri - per quella parte del genere umano che ha potuto studiare e, di nuovo, ha dovuto fronteggiare il compito di imparare nuove parole di una qualche lingua, apparentemente lontane dall'immediata vita quotidiana così come il bambino aveva imparata a vederla. L'adulto colto ha vissuto allora tutta la fatica di mobilitare corpo e cervello per trasformare l'impulso naturale primordiale al comunicare in quel cammino che lo ha portato a farsi partecipe di una cultura determinata e a salire in uno spazio dove parole, cifre, formule aleggiano leggere e sono quasi sempre, quasi tutte a portata di intelligenze che hanno imparato a muoversi sempre più speditamente. Ma in generale l'adulto istruito quella fatica l'ha dimenticata e la sua mente scorre distratta come su una cosa ovvia quando legge che il parlare umano è qualcosa di naturale e però è anche qualcosa di culturale, di storico. Se uno riesce a comunicarglielo, l'istruito apprende con stupore che non è altrettanto ovvio mettere insieme le due affermazioni in modo concettualmente coerente, oltre che col trattino con cui scriviamo lingue storico-naturali. La visione del parlare che qui vogliamo delineare ha la presunzione di togliere ovvietà a quel che appare ovvio, non per il gusto di complicare le cose ma perché l'adulto istruito avverta l'enormità del privilegio che la storia della specie e remote fatiche infantili gli hanno dato.
... La fatica dimenticata dei primi anni di vita di un essere umano condensa la fatica che nelle centinaia di migliaia di anni la specie umana ha compiuto per costruirsi forme sempre più astratte di cultura e lingue che possono essere rese idonee a ciò. Il gioco delle analogie che sorregge una qualità tipica delle parole, la flessibilità dei loro significati, non è un arabesco intellettuale librantesi nel vuoto, ma è un gioco che continuamente rinvia a ciò che Galileo chiamava "sensate esperienze", alla base fisica e corporea della nostra vita e capacità di intelligenza. Quel poter dire io e tu che aiuta a dire e capire ciò che noi o altri diciamo rinvia al nostro saper essere parte autonoma, autonomamente inventiva, di un gruppo e riconoscere ad altri tale autonomia.
Animalità, corporeità, comunanza sono altrettante radici delle nostre parole, anche le più rarefatte. Proprio per la enorme potenza intellettuale di ogni lingua, il locutore, se ne smarrisce le radici vitali, biologiche, animali, corporee, rischia di fingere di parlare, mentre in realtà fa girare a vuoto la lingua. Il rischio di questo smarrire le radici animali, corporee, non riguarda solo il nostro parlare.
... Eclissi del corpo e artificialità ci espongono al rischio del parlare a vuoto. Il parlare non gira a vuoto soltanto se i suoi contenuti si ancorano, prima o poi, a un esperire concreto. Specie nelle fasi di apprendimento, soltanto per tale via si formano i significati: a partire da sensi assai determinati e sperimentati nel vivo, operativamente, con intervento non solo dei canali percettivi “nobili” (vista, udito), ma anche più rudimentali (tatto, gusto, olfatto). Anche la comprensione si realizza attraverso processi di adattamento, di va e vieni, tra lo scorrere di sensi determinati e il bagaglio di potenzialità semantiche delle parole disponibili per il ricettore. Senza circoscritte esperienze individuate da particolari sensi in cui si concretano i significati delle frasi di un locutore che non parli a vuoto, il ricettore rischia di accogliere queste frasi come formule vuote. E di diventare lui stesso poi un ripetitore di formule vuote, un rischio colto già tanti anni fa genialmente da Georges Orwell (Politics and English Language, 1946). La prima conseguenza da trarre è cercare di non smarrire mai la coscienza del rapporto di continuità che lega, immediatamente o mediatamente, il più aereo e astratto dei significati al concreto e all'immediato esperire. La seconda conseguenza è poter capire quanto lunga è la strada che porta dalle esperienze più concrete e immediate alle elaborazioni più astratte e intessute di mediazioni e ciò ci aiuta anche a capire quanti sono quelli che non la percorrono tutta, ma si perdono lungo il cammino. Una lingua è fatta in modo che in qualche misura sia possibile comunicare con parole anche oltre la distanza culturale, ma ciò avviene solo in modo limitato. Il gioco verbale più denso di significati complessi gira a vuoto per molti. Non bisogna disperare. Secondo i neurologi noi utilizziamo non più del dieci per cento dei neuroni di cui è dotato il nostro cervello. E, analogamente, utilizziamo solo una parte assai piccola delle potenzialità di comunicazione che ci offre una lingua. Possiamo fare passi avanti sulla via antica della comprensione reciproca e della comprensione e intelligenza del mondo. Purché chi guarda in fondo al linguaggio vi scorga la necessità che esso, se non vuole limitare la sua stessa funzione, si faccia esso stesso educazione alla parola in tutte le sue potenzialità.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»