martedì 19 luglio 2005

citato al Lunedì
l'intervento del 18.7 sull'Unità del prof. Cancrini

l'Unità 18 Luglio 2005
Fanatismo normalità e follia
Luigi Cancrini

Leggo le storie degli attentatori kamikaze e mi chiedo: sono persone normali? L'appartenenza ad un gruppo può far perdere il senso della realtà fino a questo punto? Il fanatismo può essere considerato un problema individuale o dipende piuttosto da una pressione che si esercita dall'esterno?
Barbara Franchi

La questione è complessa. Nel suo celebre saggio sulla psicologia delle masse Sigmund Freud notava, quasi un secolo fa, gli effetti che la pressione del grande gruppo può esercitare sulla mente del singolo. La profondità della regressione che può determinarsi nella persona che vive immersa in una atmosfera di tensione e di violenza è esperienza comune, del resto, per ognuno di noi. Difficile pensare che fossero davvero tutti «malati di mente» i soldati tedeschi coinvolti nelle tragedie dei campi o nella messa in opera dei provvedimenti ispirati alle leggi antiebraiche. Così come è difficile (o troppo facile o troppo riduttivo) pensare, oggi, che siano tutti «matti» gli attentatori. Come è smentito, del resto, da quelli che li hanno conosciuti, che hanno vissuto accanto a loro, che avevano con loro (o pensavano di avere con loro) una relazione affettuosa o amicale. La verità è che, probabilmente, quello di cui abbiamo bisogno per capirne di più è un cambiamento profondo del nostro orientamento e del nostro giudizio in ordine alla normalità. Nel campo specifico della salute mentale (e in molti altri campi) l'idea di poter tracciare un limite netto fra normalità e follia, fra malattia e salute non è più in grado di guidarci nella comprensione del reale. Una distinzione più utile potrebbe essere forse quella fra comportamenti ragionevoli e comportamenti poco o per nulla ragionevoli, fra comportamenti sani e comportamenti pazzi. Fermo restando, però, che comportamenti di tutti e due i tipi possono continuamente essere messi in opera dalla stessa persona e che le persone differiscono fra loro non in rapporto ad una teorica appartenenza al gruppo dei normali o a quello dei pazzi ma solo in rapporto alla maggiore o minore facilità con cui si comportano in modo meno ragionevole e alla centralità che le condotte meno ragionevoli assumono, a volte, nella loro vita. Come se ognuno avesse una sua soglia per la regressione e come se l'esistenza di questa soglia permettesse all'osservatore di distinguerle quantitativamente invece che qualitativamente: anche se confrontando soggetti ai due estremi della scala che misura la soglia si può avere l'impressione di persone diverse anche qualitativamente.
Una chiave di lettura interessante per capirne di più è, a questo punto, quella offerta dagli studi moderni sui disturbi di personalità: del tipo istrionico o narcisistico, borderline, antisociale o misto. Caratterizzati tutti dalla facilità con cui chi ne soffre ragiona e/o si comporta in modo fastidioso o dannoso per sé e/o per gli altri in situazioni di tensione o di difficoltà, questi disturbi portano in un certo numero di casi alla richiesta d'aiuto psichiatrico (sotto forma, per esempio, di problemi legati alla tossicodipendenza, alla depressione o al cosiddetto disturbo bipolare) o alla necessità di un intervento repressivo (quando si rivelano con un reato e quando l'autore del reato viene identificato) ma restano, in molti altri casi, fuori da qualsiasi tipo di intervento correttivo: seminando infelicità e dolore in chi ne soffre e in chi ne patisce le conseguenze. Come ognuno di noi può verificare facilmente, del resto, quando assiste ad una lite di traffico, ad un incidente di stadio, ad una baruffa parlamentare o ad una separazione violenta: ad una di quelle situazioni, cioè, in cui la non ragionevolezza del comportamento non dà luogo a interventi di tipo psichiatrico o repressivo. In che senso gli studi sui disturbi di personalità ci possono aiutare, tuttavia, a capirne di più sulle follie che sconvolgono il mondo?
Torniamo, per un attimo, alla scala dei valori di soglia che abbiamo tracciato più sopra e che vede ai suoi estremi, per esempio a destra, le persone estremamente sagge che non hanno mai o quasi mai comportamenti non ragionevoli e, a sinistra, quelle «pazze» che ne hanno troppo spesso. Si tratta, come abbiamo detto, di una linea continua capace di segnalare differenze quantitative fra persona e persona. Ebbene, quello che noi possiamo dire oggi è: (a) che i disturbi di personalità possono essere diagnosticati, se si usano strumenti adeguati, nel 30% degli esseri umani: delle persone, cioè, collocate nel terzo di sinistra della nostra scala; (b) che, osservate nel tempo, le persone che si collocano nella parte centrale e comunque non troppo lontano da questo terzo possono ricevere la stessa diagnosi se le condizioni della loro vita si fanno più difficili; (c) che alcune delle persone che si trovano all'interno di questo terzo più patologico possono uscirne se vengono aiutate: dalla vita o dalla terapia.
Semplificando molto, quello che queste ricerche aggiungono alle osservazioni di Freud sulla follia del gruppo può essere sintetizzato in questo modo.
La pressione del grande gruppo attiva dei comportamenti anormali nelle persone in rapporto a quelli che sono i loro specifici valori di soglia. Tensioni sociali o politiche violente reclutano prima di tutto persone caratterizzate da un equilibrio incerto che trovano un modo semplice di canalizzare una loro difficoltà di affrontare in modo integrato e maturo la realtà della loro vita. Il rapporto ipotizzato da molti osservatori sul modo in cui le manifestazioni di odio razziale di Leeds hanno contribuito alla progettazione degli attentati di Londra probabilmente esiste, dunque, nella misura in cui fenomeni sociali di questo tipo innescano, da una parte e dall'altra, lo sviluppo di comportamenti sempre più irragionevoli nelle persone più esposte. L'immagine degli sleepers può essere utilizzata, dal punto di vista psicopatologico, anche per dire questo: che la costruzione nel tempo di un numero più o meno alto di «attentatori» dipende soprattutto dalla quantità di odio e di tensione che circola negli ambienti in cui vivono persone giovani in difficoltà. Mettendoci di fronte alla necessità di lavorare a quel livello se davvero vogliamo che le cose cambino. Anche se sono ancora pochi, mi pare, quelli che se ne accorgono davvero.