mercoledì 21 settembre 2005


citati al Lunedì

una segnalazione di Claudia Calesini
l'Unità 18 Settembre 2005

Su una terrazza principesca, con l’artigiano scamiciato
di Adele Cambria

La terrazza era principesca, se con l'aggettivo si può ancora alludere al lusso aristocratico estremo che consiste (consisteva?) nel godimento esclusivo di una bellezza nata dall'intreccio secolare di natura ed arte. Questo infatti è il lusso della terrazza condivisa dalle sorelle Simona e Carla Marchini, a due passi da Piazza del Popolo: la vista panoramica si apre sull'ingresso monumentale a Villa Borghese da Piazzale Flaminio, sorvola la cupola neoclassica di Santa Maria del Popolo, naviga nel verde cupo dei pini romani, per approdare a Villa Medici accarezzata dalla luna di un tiepido settembre… Si festeggiava a casa Marchini un artista molto amato, m'è parso di capire, da quella sinistra che, in un tempo lontano e non scortese, si definiva radical-chic. In tempi più recenti e men gentili, valgono le semplicistiche categorie individuate dalla giovanissima protagonista di "Caterina va in città": quando, appena iscritta al Liceo Visconti, scopre che i comunisti sono ricchi e colti, i fascisti poveri e analfabeti. Ora a me sembra che Pillo (Pierluigi) Manetti, nativo di San Miniato, ma sposato con la Calabria per via di una moglie, Dora Zagari, che gliene ha trasmesso il gusto, sia una creatura immune come poche dal peccato di snobismo… E quindi si affaccendava, l'altra sera, scamiciato come un vecchio simpatico artigiano, tra le sue moderne Madonne pisane in papier maché colorato e i teatrini scaturiti dall'evocazione dell'Opera dei Pupi: davanti ad uno dei quali Lella Bertinotti e Carla Sepe (che l'aveva appena acquistato) si contendevano affettuosamente una qualche priorità nel collezionismo "manettiano". E non mancavano, alla Mostra inscenata sulla divina terrazza, le testoline in cartapesta gessata dei nipotini di Fausto e Lella. Simona Marchini era a Todi, ma figurava compatto il manipolo bertinottiano, reduce direttamente dal Piccolo Eliseo, dove il leader di Rifondazione aveva appena esposto il suo programma per le primarie: «Finalmente qualcuno che si fa carico della sofferenza umana, in tempi di assoluto cinismo», commentava Carla Sepe, (assistente giuridica della Presidenza della Repubblica).
E Citto Maselli, richiesto di lumi sulla contaminazione "fagiolina" dal candidato numero due dell'Unione, ammetteva che negli anni Settanta i seminari dello psicoanalista Massimo Fagioli avevano sottratto un gran numero di giovani alla lotta armata e alla droga.
E infatti alla famosa assemblea di Villa Piccolomini, nello scorso autunno, coerentemente Fausto Bertinotti si era augurato una politica dove «la non-violenza sia l'inizio della costruzione di un sogno». Come diceva il vecchio Marx, «un giorno, al regno della necessità subentrerà il regno della felicità».
«Ma Fausto non é mai stato marxista, lui era socialista…», si rassicuravano intanto due degli invitati affrontando un piatto di capicollo calabrese.


Liberazione 18.9.05
Le donne il capitalismo e Dio
Le contraddizioni del sistema del pensiero unico fanno riemergere la religione come stabilizzatore sociale. Mentre le sue difficoltà di autoriproduzione spingono alla riscoperta dei valori della famiglia
Emiliano Brancaccio e Graziella Durante

Feuerbach e Marx "cani morti"? Dal punto di vista del loro dichiarato ateismo si direbbe proprio di sì. L'ateismo va infatti annoverato tra i grandi assenti del dibattito culturale - e quindi inevitabilmente politico - di questi anni. Al contrario, una multiforme revanche religiosa si diffonde nell'Occidente capitalistico, manifestandosi non solo nelle oceaniche adunate della gioventù cristiana, ma anche e soprattutto in una rinnovata, crescente influenza del potere religioso sulle istituzioni politiche. Una influenza tale da far dubitare della tesi, pressoché indiscussa fino a pochi anni fa, secondo cui la secolarizzazione della vita civile, e la conseguente riduzione della religione ad "affare privato", si sarebbero imposte col passare del tempo.

Molte spiegazioni sono state date del prepotente ritorno della religione nel linguaggio e nelle strategie politiche delle leadership occidentali. L'interpretazione più influente, come è noto, sottolinea la necessità, dopo gli attentati dell'11 settembre, di individuare nel cristianesimo una comune radice identitaria da contrapporre all'islam, vale a dire al collante ideologico di un insorgente mondo arabo. Per quanto efficace e suggestiva, a nostro avviso questa lettura coglie soltanto elementi superficiali dell'intera questione. Invece, come cercheremo di mostrare, dalle categorie del materialismo storico è forse possibile trarre una più adeguata e profonda chiave di interpretazione per l'apparente "fame di trascendenza" dei giorni nostri. In particolare, sosterremo che la rinnovata apertura alla religione e alle sue istituzioni riflette il tentativo di proteggere le punte più alte dello sviluppo capitalistico contemporaneo da una delle sue più acute contraddizioni interne: quella relativa al ruolo della famiglia tradizionale all'interno del processo di riproduzione sociale. Si tratta di una contraddizione che nel corso del Novecento è riuscita ad imporsi nell'arena politica solo in rare circostanze: per pochi anni dopo la rivoluzione bolscevica, e in seguito tra il '68 e l'affermarsi del movimento femminista. Per quanto fugaci, tuttavia, quelle occasioni sono risultate più che sufficienti per segnalare il potenziale eversivo della contraddizione interna alla famiglia, la "distruzione creatrice" insita in essa. Il problema che si pone ora è di comprendere per quale motivo proprio oggi si costituiscano le condizioni per il riproporsi di quella contraddizione in termini di "problema politico", rispetto al quale l'istituzione religiosa potrebbe candidarsi quale possibile rimedio.

Il riemergere della crisi capitalistica risponde sotto vari aspetti a questo primo interrogativo. Tra la dissoluzione sovietica e la fine degli anni '90, un capitalismo autoreferenziale e totalizzante aveva potuto dispiegare le sue forze quasi senza incontrare ostacoli. Si è trattato di un capitalismo al massimo della sua potenza, che si reggeva sulle proprie gambe, e che quindi definiva al suo interno le condizioni di riproduzione sia della vita materiale che di quella, per così dire, spirituale. E' stato insomma un capitalismo che non necessitava di puntelli ideologici esterni. Le sue parole d'ordine: "crescita per la crescita, competizione per la competizione", hanno rappresentato esse stesse delle lampanti dimostrazioni di forza, di totale autosufficienza ideologica.

Più di recente, tuttavia, le contraddizioni interne sono riaffiorate alla coscienza collettiva, e la potenza riproduttiva del sistema, materiale e ideologica, è iniziata a scemare. La disoccupazione e la precarietà di massa, la crescente sperequazione della ricchezza tra le classi, e più in profondità l'alienazione di un lavoro subordinato, incosciente, sempre più assoggettato - sia nella erogazione che nella fruizione - al dominio capitalistico sulla tecnica e sui desideri, rappresentano solo alcuni dei più vistosi e irriducibili segnali della crisi dei nostri tempi. La produzione "interna" di ideologia è dunque divenuta insufficiente e la religione si è proposta, di nuovo, quale necessario fattore di stabilizzazione sociale. Con ciò naturalmente non si vuol negare il carattere intrinsecamente duale della religione, da sempre in lotta, al suo interno, tra istanze di conservazione e istanze di trasformazione del mondo (e al limite di vera e propria eversione). Al tempo stesso, però, occorre prendere atto della sempre maggiore capacità del potere religioso di assorbire, e quindi neutralizzare, le rivendicazioni sociali che disperatamente cercano nella parola di Dio un sostegno anziché un freno. Dalla censura praticata dall'Impero romano sui Vangeli, alla pretesa dell'attuale pontefice di riconoscere nel suo Dio preconciliare l'unica vera rivoluzione, fino alle procedure di delegittimazione di qualsiasi forma di radicalismo religioso in ambito sociale, gli esempi storici in tal senso abbondano. Ed è proprio a causa di questa incessante, sempre più sottile e minuziosa opera di neutralizzazione che la religione, per dirla con Marx, sembra oggi più che mai assumere i tratti del "sospiro di una creatura affranta", dello "spirito dei tempi privi di spirito". Insomma, dell'oppio dei popoli.

Ma è nel richiamo sempre più insistente ai valori tradizionali della famiglia, e quindi in ultima istanza al ruolo sociale della donna, che la missione conservatrice della religione pare emergere in tutta evidenza. Questo continuo rinvio alle "virtù del passato" costituisce, come è noto, uno dei sintomi più significativi della crisi di consenso della cosiddetta "modernità" capitalistica. Al di là dell'ambito religioso esso trova ampi riscontri anche in alcune frange della cultura di sinistra: tra gli ambientalisti meno avveduti, ad esempio, così come tra i fautori di improbabili forme di micro-comunitarismo economico. Tuttavia, mentre questi fenomeni culturali non appaiono assolutamente in grado di retroagire sul funzionamento effettivo del sistema, nella rinnovata pressione esercitata dal potere religioso sulla donna è invece possibile individuare un tentativo concreto di rimediare alle crescenti difficoltà di auto-riproduzione del capitalismo. Stiamo parlando, in tal caso, di riproduzione sociale nel senso più stretto del termine, vale a dire di tutte le attività finalizzate alla crescita, all'educazione e all'inserimento sociale dei figli.

Il problema è che, proprio su questa attività primaria di riproduzione, le trasformazioni recenti del capitalismo esercitano una serie di spinte contraddittorie. Da un lato, infatti, il movente del profitto incorpora la donna, al pari dell'uomo, nel processo di "astrazione" del lavoro e di valorizzazione del capitale. I dati sulla crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro e sulla lenta ma inesorabile riduzione dei differenziali salariali tra i sessi costituiscono tuttora le più tangibili determinanti della crisi dei valori tradizionali e delle connesse, storiche discriminazioni di genere. I tempi di vita della donna, pertanto, vengono sempre più scanditi per un verso dai ritmi di lavoro e per l'altro dal desiderio di tradurre l'ingresso nella "società che conta" in una più generale occasione di emancipazione dai vincoli sessuali e relazionali di un tempo. Queste tendenze, si badi, sono esplose in modo dirompente durante gli anni Settanta, ma dopo di allora non si sono certo esaurite. I numeri ci dicono infatti che esse proseguono nascoste, covando al di sotto del tessuto sociale. Dall'altro lato, tuttavia, le sconfitte del movimento operaio e la relativa compressione dello stato sociale hanno accresciuto lo sfruttamento, hanno abbattuto la quota di reddito destinata al lavoro subordinato e l'hanno pure resa più instabile, dal momento che oggi più che in passato il capitale può assorbire ed espellere manodopera dai processi produttivi - soprattutto donne, si badi - a seconda dell'andamento della congiuntura. La conseguenza è che l'emancipazione sociale della donna, in quanto appartenente alla classe lavoratrice, risulta più che mai soggetta alle bizzarrie del ciclo capitalistico. Inoltre, la classe lavoratrice non si trova più nelle condizioni di disporre di "tempo liberato per i bambini e per i ragazzi", e al tempo stesso non è in grado di acquistare sul mercato ciò che prima produceva in famiglia, vale a dire "servizi" per l'infanzia e per l'adolescenza. Tali tendenze contrastanti lasciano così in sospeso la questione cruciale: chi si occupa dei figli?

Bisogna ammettere che ancora oggi questo interrogativo non ricade sui generi in modo simmetrico. Esso infatti si insinua soprattutto nel profondo psichico della donna, ingabbiata nel ruolo di responsabile storica della riproduzione sociale. La contraddizione capitalistica irrisolta cioè si tramuta, in ambito individuale, in un vissuto nevrotico e al limite schizofrenico. La religione interviene pertanto come una sorta di richiamo all'ordine, e l'appello al recupero dei valori tradizionali della famiglia si eleva al rango di "soluzione razionale". La donna, si dice, nella piena partecipazione al lavoro sociale si rende vittima di una emancipazione solo apparente, viziata da insanabili contraddizioni e insoddisfazioni. La sua vera libertà risiederebbe invece nel ripristino dell'antico ruolo di sposa e di madre, e solo al limite di lavoratrice "a tempo parziale" (vale a dire una lavoratrice marginale e quindi ancor più subalterna). Si tratta di un ruolo che l'istituzione religiosa reputa "naturale", ma che a ben vedere potrebbe in quest'ottica definirsi addirittura "efficiente", in grado cioè di risolvere problemi che il mero sviluppo capitalistico finirebbe soltanto per aggravare. Siamo insomma di fronte ad un vero e proprio tentativo pianificato di chiudere i conti con i processi materiali che sono sempre stati alla base del movimento femminista. Ed è innegabile che la decantata linearità di questo tentativo, la sua apparente coerenza, esercitino oggi un notevole influsso "razionalizzante" su molte donne ed uomini, e su gran parte della classe lavoratrice.

Ma il discorso non termina qui. L'odierna connection tra potere capitalistico e religioso trova infatti giustificazioni non solo nei fallimenti della meccanica del capitale, ma pure nella stessa ansia di affermazione che muove quest'ultimo. La questione si pone ancora una volta riguardo alla riproduzione sociale della popolazione. Benché infatti non costituisca assolutamente una causa diretta di sviluppo, la crescita della popolazione rende abbondante il lavoro disponibile. Essa pertanto costituisce, nel lungo periodo, le condizioni per il contenimento delle rivendicazioni sociali e dunque, indirettamente, per la valorizzazione del capitale. Il problema è che nei paesi capitalistici avanzati la dinamica della popolazione è estremamente debole. Va tenuto presente che il rapporto di riproduzione stazionaria della popolazione corrisponde approssimativamente a due figli per donna, ed è ben noto che nell'Occidente industrializzato da tempo si fatica a mantenerlo. Si potrebbe obiettare che l'immigrazione è in grado di risolvere la questione, almeno dal punto di vista delle esigenze del capitale. Tuttavia, almeno in Europa, i tassi di immigrazione necessari a compensare la fiacca dinamica interna della popolazione tendono ad alimentare disordini e pulsioni xenofobe, ed appaiono pertanto scarsamente compatibili con gli obiettivi di stabilità e di pax sociale ai quali il capitale medesimo mira. A ciò si aggiunga che la domanda di riproduzione sociale del capitale si presenta in termini non solo quantitativi ma anche e soprattutto qualitativi. Basti in proposito ricordare i sempre più frequenti richiami alla crisi dei principi di obbedienza e disciplina in seno alle giovani generazioni, e i relativi appelli al ripristino della centralità degli antichi valori familiari al fine di rimettere un po' d'ordine tra di esse. Si tratta di appelli che ormai si insinuano persino nella cultura borghese "illuminata", e che trovano nelle esigenze materiali di sviluppo capitalistico il loro principale fondamento. In definitiva, l'imperativo categorico è che occorre far figli "all'interno", ed occorre più che mai educarli alla "compatibilità", alla non contraddittorietà con il funzionamento complessivo del sistema. Se si considera l'impegno profuso dalle istituzioni ecclesiastiche su entrambi questi versanti, si comprenderà che siamo ancora una volta di fronte ad una necessità materiale, sia nel senso quantitativo che qualitativo, dalla quale emergono in tutta evidenza ragioni ulteriori per il consolidamento di un'alleanza di lungo periodo tra potere capitalistico e potere religioso, e per la relativa crescita e istituzionalizzazione delle erogazioni monetarie dal primo al secondo.

Di fronte a queste colossali sovrapposizioni di potenza, materiale e ideologica, appaiono francamente patetici, nella loro assoluta inadeguatezza, i richiami al carattere "laico" delle istituzioni da parte di numerosi politici e opinionisti di sinistra.

Come abbiamo cercato di mostrare, l'odierna pervasività del messaggio religioso sembra poggiare su un solido fondo, materiale e razionale. Non saranno quindi dei timidi appelli alla laicità dello Stato a mutare il corso degli eventi. Il problema, del resto, è di interpretazione prima ancora che di mutamento. A questo riguardo, sarebbe forse utile tornare a gettare uno sguardo ateo, cristallino e impietoso, sulla contemporaneità. L'ateismo costituisce infatti il "corpo estraneo" per eccellenza rispetto alla connessione capitalistico-religiosa dei nostri tempi. Ed è proprio grazie alla sua estraneità, alla sua irriducibilità, che si potrebbe attraverso di esso comprendere che dietro la grandezza di quella connessione potrebbe celarsi, in fondo, un atto disperato. E' possibile infatti che proprio nell'ambito della riproduzione sociale, e dei relativi rapporti familiari, stia montando una delle più alte e irreversibili contraddizioni capitalistiche della Storia. La ferrea volontà di tante giovani donne di conquistare a tutti i costi l'indipendenza economica, lo sviluppo impetuoso dei divorzi, delle coppie di fatto e delle cosiddette "famiglie atipiche", le inevitabili contraddizioni economiche e organizzative cui esse danno luogo, la diffusione anche in ambito popolare di reazioni al monopolio maschile della sperimentazione sessuale e relazionale, e più in generale la crisi simbolica e di fatto delle stesse identità di genere; questi ed altri fenomeni rappresentano degli evidenti e in fondo affascinanti segnali di instabilità sociale, e soprattutto di refrattarietà al "grande balzo all'indietro", ossia al ripristino di un ordine sociale fondato sugli antichi valori religiosi. Il tentativo del sistema di riesumare questi valori al fine di ripristinare i ruoli e le forme - pur aggiornate - del vecchio "focolare domestico" rappresenta dunque una strategia sì razionale, ma che potrebbe alla lunga rivelarsi totalmente fallimentare.

Quali potrebbero essere gli esiti di un simile fallimento? Nel manifesto del 1848 Marx ed Engels scrissero: "Abolizione della famiglia! ", nella sua accezione borghese e filistea. La loro stravolgente predizione, associata ad un orizzonte politico di trasformazione comunista della società, è stata in seguito approfondita e ulteriormente sviluppata. Grazie soprattutto al movimento femminista, molti passi avanti sono stati compiuti e molte altre analogie tra alienazione capitalistica e familiare, e negli squilibri di potere tra le classi e tra i generi, sono venute alla luce. L'ultima generazione, tuttavia, sembra aver perso memoria di questo gigantesco accumulo di conoscenza teorica e di esperienza storica. Il rigetto degli schemi di vita imposti, il rifiuto dei sentieri esistenziali preordinati dai poteri capitalistico e religioso appare tuttora ostinato, ma anche fragile, privo di sostegni. La causa di questa debolezza, ovviamente, deve essere in primo luogo ricercata nelle condizioni materiali in cui i più giovani si trovano ad operare, e in particolare nel fatto che i processi restaurativi degli ultimi decenni hanno agito principalmente su di essi, trasformandoli in vere e proprie cavie per degli esperimenti in vitro di capitalismo puro. Sarebbe ingenuo non riconoscere proprio in questo destino, apparentemente inesorabile, la causa prima del ritorno dell'afflato religioso, e di un certo conservatorismo culturale, tra le giovani generazioni. Chissà allora se, assieme all'esigenza prioritaria di riorganizzarsi collettivamente, proprio la doccia fredda e rigenerante dell'ateismo marxiano non costituisca per i piu' giovani una condizione preliminare per superare la stasi mistica di questi anni. Occorre insomma tornare a comprendere che le forme dell'organizzazione e della riproduzione sociale, e con esse le relazioni familiari e più in generale affettive, non rappresentano assolutamente un prodotto della "Natura" o della "legge di Dio", ma della Storia e quindi del mutamento: un prodotto delle contraddizioni capitalistiche e dei relativi meccanismi di repressione, ma anche dell'agire coordinato, delle lotte, delle forze liberate della emancipazione sociale. Rilanciare l'ateismo marxiano, dunque, per suggerire un sentiero alternativo alla connessione capitalistico-religiosa dei nostri tempi, e per riprendere fiducia nella possibilità collettiva di trasformare il mondo, di piegarlo al desiderio.

Liberazione 18.9.05
«Perché la Cina vincerà la sfida con il pensiero occidentale»
di Tonino Bucci

Modena. Secondo il filosofo e sinologo francese François Jullien, i cinesi concepiscono il reale «come un processo in continuo mutamento. Ciò che per noi sono gli eventi, per loro altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie del continuo lavoro di trasformazione. Questo è all'origine della grande efficacia della politica internazionale di Pechino»

La Cina è destinata ad essere oggetto di controversie: a volte lontana, dipinta come un paese esotico; altre volte così vicina da rappresentare la minaccia del XXI secolo. Chi ne elogia i ritmi di crescita economica e tecnologica, superiori a quelli di tutte le altre nazioni, chi punta il dito sullo smantellamento del comunismo. Eppure, nonostante gli scenari geopolitici ne accrescano l'importanza, la realtà cinese rimane un oggetto poco studiato. Poco indagata è anche la cultura di questo paese, forse per effetto dello stereotipo che qui da noi ha sempre considerato lo spirito orientale come incapace di pensare filosoficamente.

L'occasione inconsueta d'ascoltare una voce d'eccezione l'ha data il Festival di filosofia - in chiusura oggi a Modena, Carpi e Sassuolo - con la presenza di François Jullien, filosofo e sinologo, autore di Elogio dell'insapore, Trattato dell'efficacia e Il saggio è senza idee pubblicati in Italia da Einaudi.

L'idea fondamentale è che lo studio dell'Altro, della cultura cinese, possa meglio far conoscere la strada intrapresa dalla filosofia occidentale e le possibilità che sono state escluse dalla nostra storia. Agli antipodi del nostro modo di pensare si staglia il modello alternativo della saggezza cinese, fondata non sulla divisione e il primato dell'intelletto sui sensi, ma sulla non-esclusione, sul lasciare tutte le possibilità aperte.

In Occidente la filosofia nasce nel momento in cui stabilisce una differenza tra il mondo dei sensi e l'intelletto. Qual è invece la via della saggezza cinese?
Il "senso" è, da un lato, pura percezione e, dall'altra, al singolare, senso intellettuale, significazione. L'Occidente ha finito per pensare questi due aspetti distinti e contraddittori tra loro. Noi diciamo, ad esempio, che qualcosa ha un "sapore pronunciato", è un modo di dire. Nella cultura cinese, invece, non ci si deve mai pronunciare, l'arte e la saggezza cinese evitano di "pronunciare con forza". Al senso pronunciato dell'Occidente si contrappone un senso che resta sulla soglia, che non esce ma resta nell'indifferenziato. Un senso "insipido", senza sapore, senza una caratteristica marcata e predominante rispetto alle altre, che si tiene distante dai sapori pronunciati come il dolce e il salato. E' non solo un fatto gastronomico, è anche un rituale culturale, anche il Thao è insipido. E' un'esperienza globale, un sapore che non esclude, che non è pronunciato e mantiene tutti i sapori disponibili. Entriamo in un sistema di percezioni e idee che privilegia non la distinzione, bensì l'allusione, l'elusione, la compossibilità. Se scelgo uno, perdo il due, questa è la cifra della cultura cinese. Ed ecco perché, a differenza della cultura occidentale dove tra sensi e significato c'è opposizione e contraddizione (A non è B), in quella cinese c'è invece congiunzione. Come si può pensare senza le categorie della tradizione occidentale? Non voglio dare un'immagine esotica e irrazionale della Cina, voglio soltanto dire che questo paese ha sviluppato una forma di saggezza alternativa al nostro pensiero e che consiste nella scelta di non scegliere, di tenersi in bilico tra le esperienze senza separare il vero da ciò che si ritiene falso. Per lo stesso motivo, il pensiero cinese ha lasciato nell'ombra il politico. La politica è un luogo di opposizione e di conflitto dove non c'è spazio per la compossibilità.

Qual è la differenza più rilevante tra l'idea cinese di politica e la politica così come la intendiamo noi?
Noi europei abbiamo costruito la politica sulla categoria di efficacia, sulla ricerca dei modi in cui una singola azione può inserirsi nella realtà e realizzare il fine. Le scelte e le azioni sono pensate a partire dal risultato. In Cina è completamente diverso: l'inserzione della mia azione nella realtà deve cogliere e seguire gli eventi fin dalla loro origine, deve appoggiarsi e assecondarli, farli crescere finché la situazione non diventa matura e precipita. Il momento più importante non è il risultato finale, ma l'inizio. Semmai l'efficacia cinese consiste nel cogliere al momento della nascita il percorso che poi condurrà la realtà alla maturazione. Nella mentalità cinese non troveremo mai l'elogio del soggetto, del "principe" per dirla con Machiavelli: quando un processo arriva a maturazione scompare anche lo stratega. Il soggetto non si vede. Stratega è colui che ha saputo tanto bene utilizzare la situazione e farla crescere, da scomparire egli stesso. E' la situazione in quanto tale a maturare, che va da sé. Ecco perché la Cina è l'unica grande civiltà che non ha sviluppato l'epopea e non ha il concetto di eroe. Prendiamo il caso di Deng-Xiao Ping: è chiamato il "piccolo timoniere" anche se in trent'anni ha portato la Cina a un regime di mercato capitalistico.

Ma così l'individuo è relegato a un ruolo marginale?
Intanto bisogna distinguere tra soggetto e individuo. Il pensiero del soggetto è stato lento anche in Occidente, è arrivato con la svolta del Cristianesimo, attraverso Agostino, fino alla psicoanalisi. In Cina, il soggetto non è pensato. Nella lingua cinese manca il soggetto, è solo implicito. E nel pensiero cinese non c'è la riflessività che, passando per Kant, ha portato in Occidente alla scissione tra soggetto e oggetto e da qui alla costituzione della scienza. In Cina, questa opposizione tra soggetto e oggetto non è stata sviluppata. Ma è stato pensato l'individuale e, soprattutto, il rapporto tra individuale e collettivo.

Lei vede nella cultura cinese un modello di saggezza alternativa alla filosofia occidentale. Eppure oggi tutto lascia pensare che sia la Cina ad avvicinarsi all'Occidente e all'economia capitalistica. Cosa resta di quella saggezza alternativa?
Fino al XIV secolo le tecniche erano più sviluppate in Cina che in Occidente. A partire dalla rivoluzione scientifica l'Europa decolla sulla spinta dell'innovazione galileiana. La possibilità di applicare la matematica alla natura apre la strada alla scienza. E' un'idea folle e feconda che ha divaricato lo sviluppo dell'Occidente rispetto a quello della Cina. Tutto il linguaggio della scienza da quel momento in poi sarà europeo e la Cina continuerà con uno scarto notevole a rimanere ferma per secoli e sarà lei a dover imparare dall'Occidente e a prendere le due cose che le mancavano: la scienza e la politica. Oggi siamo in un momento in cui la Cina sta superando l'Occidente. Ma il capitalismo importato non è l'unica cultura alla quale tutte le altre devono uniformarsi. Come diceva Mao, la Cina deve camminare su due gambe: il linguaggio della scienza e del capitalismo, e la tradizione cinese, una saggezza elusiva depositata in una cultura letteraria, molto più complessa da accostare di quanto si pensi. Deng-Xiao Ping, di nuovo, rappresenta questa compossibilità. Era stato in Europa ma continuava ad agire alla cinese, non si è mai opposto a Mao, in altri momenti si ritirava prima di farsi avanti, agiva come uno stratega cinese con le proprie risorse.

Qual è, allora, il ruolo specifico che spetta alla Cina nello scenario mondiale?
La Cina partecipa a tutti i dibattiti internazionali, siede in tutti i tavoli e cerca di trarre profitto in ogni situazione. Come? Per propria cultura la Cina dissolve ogni nozione di evento. Mi spiego. Per la mentalità cinese non potrebbe esistere qualcosa come l'11 settembre che per noi è diventata una data simbolica che sdoppia la storia in un prima e in un dopo. In Cina non ci sono eventi, la realtà è fatta piuttosto di una sottile, silenziosa trasformazione continua. Ciò che per noi sono gli eventi, per la cultura cinese altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie di questo continuo lavoro di trasformazione. Il reale è concepito come processo in continuo mutamento. Questo è all'origine della grande efficacia della politica internazionale della Cina. Ad esempio, i cinesi si installano a Parigi, aprono i negozi, ma è un'emigrazione silenziosa, graduale, non spettacolare e non suscita, perciò, reazioni contrarie. La Cina non viene intercettata perché sfugge ai nostri riferimenti concettuali che sono quelli di "evento" e "fine". La cultura cinese dissolve l'evento e la finalità in una processualità continua che le dà la chance d'imporsi senza trovare alcuna reazione. Non ci si può opporre a qualcosa che non ha forma d'evento.