martedì 30 agosto 2016

IN PRIMO PIANO:

il manifesto 30.8.16
Sit-in a Roma venerdì 2 settembre per la tregua e i corridoi umanitari in Siria
L’appuntamento e a Roma, in piazza Santi Apostoli, venerdì 2 settembre, dalle ore 11
Per info e adesioni 3351573147 oppure 3937540531 oppure info@illuminareleperiferie.it


Metà della popolazione della Siria non ha più una casa, 470mila persone hanno perso la vita, 1,9 milioni sono rimaste ferite o mutilate, l’aspettativa di vita è passata dai 70 ai 55 anni. Questi i numeri agghiaccianti che misurano la tragedia siriana prima ancora che iniziasse la nuova campagna di bombardamenti su Aleppo, che ha visto una crescita esponenziale di bambini tra le vittime.
Il mondo si è indignato, ha pianto, guardando l’immagine di Omran, 5 anni, ferito e sgomento su un seggiolino di un’ambulanza, che ha plasticamente dato corpo alle conseguenze del conflitto in Siria, visto attraverso gli occhi di un bimbo scampato alla morte che invece non ha risparmiato il fratellino, Alì, poco più grande di lui.
In cinque anni di guerra sono morte decine di migliaia di piccoli siriani. Solo ad Aleppo hanno perso la vita, da fine luglio, 350 bambini e più di 100mila sono intrappolati nella parte orientale della città.
Aleppo è la nuova Sarajevo. Pari la durata dell’assedio, persino doppio il numero delle vittime. Oggi come allora il fallimento della comunità internazionale è sotto gli occhi di tutti.
L’attenzione mediatica e le informazioni sul conflitto si riducono ogni giorno di più e con esse la consapevolezza di ciò che quotidianamente avviene nel paese.
Non basta indignarsi per la foto dell’ultimo bimbo vittima della guerra, che sia morto su una spiaggia turca o salvo e inconsapevole sul seggiolino di un’ambulanza in Siria.
Per questo abbiamo deciso di promuovere una mobilitazione: non si può restare a guardare, ci sono milioni di vite da salvare, ancora oggi, ad Aleppo e nel resto della Siria.
Facciamo nostre e ribadiamo con forza le richieste all’Italia, all’Unione europea e alle Nazioni Unite di una tregua duratura, dell’apertura di corridoi umanitari, della fornitura senza ostacoli di aiuti umanitari alle popolazioni assediate. Chiediamo inoltre la fine degli attacchi contro i civili e le strutture civili, primi tra tutti gli ospedali; la cessazione dell’uso della tortura e delle sparizioni forzate.
Vi chiediamo l’adesione a questa iniziativa per far arrivare un messaggio forte alle istituzioni e per testimoniare la nostra vicinanza al popolo siriano.
Lo hanno già fatto Amnesty Italia, Arci, Articolo 21, Associazione 46° Parallelo. Associazione Amici di Padre Paolo Dall’Oglio, Confronti, Cospe, Federazione nazionale della stampa, Italians For Darfur, LasciateCIEntrare, Rivista San Francesco, Tavola della Pace, Unicef, Un ponte per, Usigrai.

La Stampa 30.8.16
Vatileaks
In prigione monsignor Vellejo Balda


È diventata esecutiva la sentenza di condanna a 18 mesi a carico di monsignor Lucio Vallejo Balda, pronunciata lo scorso 7 luglio nell’ambito del processo Vatileaks sul trafugamento di documenti top secret del Vaticano. Trascorsi i 45 giorni previsti, monsignor Balda è ora detenuto in una cella della Gendarmeria in Vaticano. A confermarlo è la Sala stampa della Santa Sede. Lucio Vallejo Balda e Francesca Chaouqui sono stati assolti dal reato di associazione a delinquere, ma per il reato di diffusione delle notizie riservate sono stati condannati. 18 mesi di reclusione per il prelato spagnolo e 10 mesi per la sua ex collaboratrice Francesca Choauqui, con pena sospesa per 5 anni: ha appena dato alla luce un bambino. I giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi sono stati prosciolti per difetto di giurisdizione. Non potevano essere giudicati: il reato è sotto commesso fuori dal territorio vaticano e non sono pubblici ufficiali della Santa Sede. Nicola Maio, segretario di Balda è stato assolto per non aver commesso il fatto. A scontare la pena, insomma, sarà solamente l’alto prelato che secondo la giustizia vaticana ha diffuso notizie, vere, che dovevano però rimanere segrete.

La Stampa 30.8.16
Ecco l’Indiana Jones dei santi e dei beati
“Ho 15 mila reliquie, anche un frammento della Croce”
di Mauro Facciolo


Una sorta di Indiana Jones di Santi e Beati. La Chiesa li eleva all’onore degli altari e lui si mette sulle loro tracce per ottenerne le reliquie. Un frammento d’osso, una ciocca di capelli o un indumento, da esporre poi alla venerazione dei fedeli. Si mette in contatto con i postulatori che hanno seguito le cause di beatificazione o con i familiari del Santo. Don Claudio Cipriani, sacerdote della diocesi di Casale Monferrato, 61 anni, da 50 si occupa di reliquie. Ricorda anche la data esatta in cui si avvicinò a questo culto: «L’11 settembre 1966 ero a Torino per il matrimonio di una cugina e nella basilica dell’Ausiliatrice andai a visitare la cripta delle reliquie. Ne rimasi affascinato. Pensai alla storia che c’era dietro e sentii nascere in me questa passione». Concretizzata nei decenni successivi in circa 15 mila reliquie, delle quali 400 da sei anni sono esposte in una cappella nel santuario di Crea, nel cuore del Monferrato.
«Ho scritto a postulatori, ho girato parecchie diocesi e monasteri dove spesso le reliquie erano abbandonate negli armadi - racconta -. Ora capita che siano gli stessi abati, i sacerdoti a offrirmi materiale da custodire».
E a Crea la visita consente di ripercorrere la storia della Chiesa. Tante le testimonianze. È abbondante il materiale (soprattutto indumenti) riferito al venerabile Pio XII («Mi misi in contatto con suor Pascalina per ottenerli»), ma sono presenti pure quelli di San Giovanni Paolo II, San Giovanni XXIII e Beato Paolo VI. E tanti doppioni di indumenti. Non mancano poi i Santi più conosciuti: da Giovanni Bosco a Pio da Pietrelcina, da Josemaria Escrivà del Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, a Luigi Orione. Oltre 300 personaggi, dei quali vengono diffusi anche «santini» biografici.
Il «pezzo» più prezioso è un frammento di legno della Croce di Gesù: «Me lo affidò monsignor Pietro Canisio van Lierde, agostiniano, il vescovo che fu sacrista pontificio e custode del sacrario apostolico». «Sto lavorando - aggiunge don Cipriani - all’allestimento di una cappella dedicata alle reliquie dei martiri del XIX e del XX secolo, compresa la guerra civile spagnola». Don Cipriani dal 1993 è custode delle reliquie della diocesi di Casale. E mette a disposizione le reliquie in caso di necessità. Ad esempio l’11 settembre a Moncalvo sarà dedicato un santuario a Santa Teresa di Calcutta, che Papa Francesco canonizzerà domenica. Don Cipriani ha «recuperato» le reliquie della «Santa degli ultimi»: una ciocca di capelli e del sangue.

Repubblica 30.8.16
Perché resiste un modello di unione sancito dal Concilio di Trento
Continuiamo a chiamarlo matrimonio
di Alberto Melloni


L’occidente postmoderno, inclusa la sua ultima italica ruota del carro, vivono con allarme o con entusiasmo le metamorfosi attuali della relazione d’amore: il coniugio, i suoi contenuti e il linguaggio con cui lo si definisce cambiano, e come spesso accade si accompagnano alla sensazione — allarmata o entusiasta — di vivere una transizione più profonda di quelle che hanno segnato il passato. Rafforzata dal fatto che aver rotto il divieto di dare il nome di amore all’amore omosessuale sul quale si erano costruiti sia il pregiudizio omofobo pubblico sia l’autocomprensione delle relazioni fra persone gay
e lesbiche. A guardare la storia del coniugio degli ultimi cinque secoli, invece si ha l’impressione che il mutamento sia piccolo: quasi che fossimo ancora all’indomani di quell’11 novembre 1563 — in cui il concilio di Trento approva il decreto “ Tametsi”. Dopo sedici anni di discussioni appassionate, esso fissava la cornice giuridica e concettuale del matrimonio, così come ancora oggi viene ambito o rifiutato. Quel decreto conciliare decise a maggioranza di rubricare come matrimoni “clandestini” tutti quelli difformi dalla norma conciliare: e di fare di queste nuzialità spontanee, che dal 1215 venivano riprovate e nulla più, un atto proibito e dunque da combattere. Una svolta epocale, dalla quale ci sentiamo emancipati. E invece ne siamo ancora prigionieri tutti, in una età nella quale solo coloro ai quali è negato dicono di desiderare un matrimonio che invece è pacificamente snobbato da chi può contrarlo e nella quale il sacramento matrimoniale incontra gli stessi naufragi dei più effimeri sposalizi di Las Vegas.
Prima di Trento la chiesa latina aveva cristianizzato con pochi ritocchi il matrimonio romano. Il “matrimonium”, complemento di fecondità corrispondente al “patrimonium” dei maschi, stabiliva il passaggio della donna dalla giurisdizione del padre a quella del marito; fissava dunque le caratteristiche di questa proprietà e anche gli obblighi sentimentali — “coitus matrimonium non facit, sed maritalis affectio” — connessi ad una subalternità piena.
L’eversivo vangelo di Gesù (la ricompensa di Mc 10,30 riguarda chi lascia la moglie per la sequela), quello che esigeva di mettere tutta la vita, e dunque sia il coniugio sia l’eunuchìa, in relazione all’attesa del Regno non era facile da incastrare in questa cornice. Così mentre introduceva nella cultura giuridica dell’impero cristiano l’espunzione del significato dell’omosessualità, la chiesa aggiungeva al patto matrimoniale piccoli segni di eguaglianza solo simbolica, come l’anello della catena che il marito metteva alla moglie nel rito romano e che in quello cristiano diventerà uno “scambio”. I passaggi storici ( Il matrimonio in Occidente di Jean Gaudemet resta impeccabile dopo decenni) portarono a quel matrimonio di “puro consenso” che per secoli fu la regola delle terre della cristianità latina: un consenso libero, detto con parole al presente («prendo te», «ti tocco la mano»), che non aveva bisogno di autorità o testimoni o permessi e che creava un matrimonio indissolubile.
Il matrimonio di puro consenso apriva un gigantesco contenzioso etico e sociale che lasciava la sua scia nei tribunali ecclesiastici. Tribunali nei quali una studiosa attenta come Fernanda Alfieri ha trovato traccia dei matrimoni lesbici del Quattrocento: giunti a noi solo perché finiti davanti al giudice quando la vedovanza giungeva ad aizzare i parenti in lotte “patrimoniali” (!). Silvana Seidel Menchi, che di quelle indagini archivistiche indispensabili e meticolose è stata la mentore su scala mondiale, pubblica ora con
Marriage in Europe, 1400- 1800 il seguito di quella storia rinascimentale su cui tanto ha detto e dato. E con una gigantesca indagine a più mani torna a guardare l’intero paesaggio continentale dallo spioncino del tribunale e delle norme post-tridentine: quelle che rifiutano la tesi protestante di un matrimonio che, sacro per natura e non in quanto sacramento, realizza il suo compito di ordinamento sociale grazie al consenso del padre. Il matrimonio tridentino esclude i padri e introduce le componenti che i lettori del Manzoni ben ricordano: l’autorità del parroco, la fisicità del luogo sacro, la socialità impersonata dai testimoni, l’autorità, il valore pubblico dei registri, la comprensione delle effusioni carnali come parte di quel contratto e dunque illecite fuori dai fini procreativi (da qui le polemiche novecentesche sulla contraccezione e sulla omosessualità). Tutte cose che la secolarizzazione del Diciottesimo secolo farà proprie, sostituendo la garanzia della chiesa in ordine alla salvezza con la garanzia dello Stato.
La forza di questo modello è stata tale che perfino le persone lesbiche e gay in lotta per una eguaglianza a lungo negata, hanno fatto di quel coniugio post-tridentino la loro ambizione di fondamentale: e, proprio mentre le persone eterosessuali lo disertano, l’hanno cercato e ottenuto. Ora con il termine “matrimonio” (termine assai meno romantico di “sposalizio”, in cui è incluso il desiderio di rispondersi che due persone assumono), ora con il termine “unione”: lasciando così che l’equiparazione avvenga là dove deve avvenire. In questa cornice qualcosa di nuovo in realtà c’è: e spiega la sensazione di essere in un cambio di epoca del coniugio. E, come ricorda Marriage in Europe, è ciò che in letteratura nasce con Pamela. Or Virtue Rewarded, il romanzo epistolare di Samuel Richardson del 1740, in cui l’amore per una quindicenne di umile origini e il “ricco Signor B.” rompe le convenzioni e le convinzioni. La sposina cede ai sentimenti che sperimenta e suscita, fino alle prima notte di nozze che sancirà la sua ascesa sociale. La morale di Richardson è rassicurante: se ci vuole un romanzo per raccontare la storia di una poverella che sposa un nobile è perché le poverelle non possono sposare un nobile, pena disordine e infelicità. Ma Pamela apre un primo squarcio sull’amore. Quel sentimento non è più il nemico del matrimonio o la sua tomba, ma ciò che lo fonda, come dimostra il dilagare delle convivenze e la stessa tendenza a creare figure giuridiche intermedie per puntare il cursore della relazione in interstizi sempre più stretti. Ma siccome era stata la chiesa ad aver sancito l’ingresso dell’autorità e l’eclisse dell’amore dal discorso, tocca a lei invertire i termini e dire che il desiderio del dono e il dono del desiderio bastano a fare di una vita monca una vita piena. In un certo senso la chiesa di Francesco l’ha fatto, con i due sinodi e una esortazione che si chiama “Amoris laetitia”. Ma anche questa transizione incontra resistenze che impediscono di interrogarsi non su diritti e allarmi astratti, ma su come ogni amore nella eguaglianza possa essere riconosciuto come un bene per tutti, dopo quattrocento anni di storia nei quali il rigorismo matrimoniale ha tenuto vivo ciò che voleva combattere, rendendolo più interessante di ciò che voleva difendere.

Repubblica 30.8.16
Gran Bretagna
Un feto è la voce del nuovo libro di Ian McEwan


LONDRA. Sarà un feto la voce narrante del diciassettesimo atteso romanzo di Ian McEwan, che uscirà il Gran Bretagna dopodomani e s’intitolerà Nutshell. Il libro è una tragedia elisabettiana dei nostri giorni: una moglie adultera decide con la complicità dell’amante di uccidere il marito. La donna è incinta e la trovata sta nel fatto che la storia è narrata dal feto. Lo scrittore ha rivelato l’incipit: «Così, eccomi qui a testa in giù in una donna»

Repubblica 30.8.16
“Rompi la croce” così la rivista dell’Is attacca il Papa “È un miscredente”
Nessun gruppo aveva mai messo nel mirino il capo della Chiesa cattolica come Daesh
di Marco Ansaldo


Lo strillo di copertina è davvero contundente: Break the cross (Rompi la croce). C’è la foto di un jihadista del sedicente Stato Islamico che ha in spalla la bandiera del Califfato mentre è impegnato a spezzare sul tetto di una chiesa il simbolo della cristianità. E c’è l’immagine, nel servizio principale, al centro della rivista, di papa Francesco. Sotto un titolo molto esplicativo: “Nelle parole del nemico”.
Ecco il numero 15 di Dabiq, magazine ufficiale della “guerra santa”, pubblicato ogni mese anche in inglese. La minaccia all’Occidente è espressa con linguaggio roboante e un po’ contorto: «Tra questa pubblicazione di Dabiq e il prossimo massacro che verrà eseguito contro di loro dai soldati nascosti del Califfato — ai quali viene ordinato di attaccare senza ritardi — i crociati possono leggere perché i musulmani li odiano e li combattono».
Ma nell’articolo colpisce, soprattutto, la veemenza dell’attacco al Pontefice. Nessun gruppo jihadista aveva mai fatto nulla del genere, né Al Qaeda, né altre frange salafite che da 15 anni hanno lanciato una guerra totale contro l’Occidente. Lo scontro non era mai stato focalizzato contro il Vaticano, né tantomeno personalizzato contro la figura del Papa. Ora con il territorio del Califfato stretto d’assedio, il Daesh alza il tiro. E lo fa con un’invettiva pubblicata pochi giorni dopo l’uccisione di padre Jacques Hamel, il parroco di 86 anni sgozzato in Francia da due ragazzini, omicidio descritto nelle stesse pagine.
Il messaggio sembra rivolto soprattutto alle giovani leve europee dell’Is. Due principalmente i filoni: la sua difesa dei gay, un tema che può facilmente impressionare gli aspiranti martiri dell’Is. E soprattutto l’incessante dialogo con il mondo musulmano moderato. Vedi, ad esempio, l’iniziativa verso i leader religiosi di Bangui, in Centrafrica, dove aprendo lo scorso anno la Porta Santa ancora prima che a Roma, il Papa è riuscito a riportare nel Paese una pace che appariva come una speranza perduta. E la tregua, oggi, continua a tenere.
Nell’articolo Francesco viene messo sotto accusa per aver pregato a favore delle vittime di Orlando, in Florida, dove nella notte fra l’11 e il 12 giugno il trentenne Omar Saddiqui Mateen massacrò 49 persone dentro una discoteca frequentata da molti omosessuali. La linea del Pontefice, a giudizio della rivista, è «in completo disaccordo con la dottrina della sua Chiesa». Per Dabiq, piuttosto, se il Papa prega per coloro che sono stati uccisi dall’attentatore della Florida, questo vuol dire che il massimo esponente degli “infedeli” si sposta su territori ancora più alla deriva rispetto alla secolarizzazione in atto. «L’omosessualità è immorale», si asserisce. Ci troviamo di fronte «a un atto di perversa sodomia».
Nell’immagine pubblicata, inoltre, il vescovo di Roma è ritratto assieme a Ahmed al Tayeb, l’imam della celebre università islamica Al Azhar, del Cairo. Pure lui è bollato: «Un apostata». Motivo: avere definito la religione cristiana «una fede di amore e di pace». L’articolo ricalca lo schema proposto lo scorso anno, nel settembre 2015, poco prima della visita di Francesco negli Stati Uniti. Anche qui il riferimento andava al viaggio di Bergoglio nel novembre 2014 in Turchia, e al suo incontro a Istanbul con il Gran Mufti della Moschea Blu. La didascalia in quel caso recitava: «L’apostata e il capo della Chiesa crociata». Non c’è spazio dunque per gli imam moderati e disposti al dialogo. Perché sono proprio le aperture di Bergoglio a spaventare il Daesh, quasi obbligato ad alzare il livello dello scontro e indicare nuovi nemici.
Ci sono attacchi ai sufi moderati («che imitano i cristiani»). Ma su tutto il numero aleggia lo spettro di quell’invito iniziale: «Rompi la croce, come disse il profeta Maometto». E dunque, immagini dei massacri di Nizza e negli Stati Uniti. L’editoriale si apre inneggiando ai «soldati martiri del Califfato a Dacca, in Francia e in Germania». Poi, foto di jihadista barbuto che tiene fra le braccia un gatto. Un sole che sorge tra i campi di grano. Un albero che si erge nel blu del deserto. Api che svolazzano sul miele. La timidezza delle bambine musulmane («che manca nelle donne occidentali»). Quindi, a pagina 30, il titolo: «Perché vi odiamo e perché vi attacchiamo». Ecco: «Vi odiamo, prima di tutto e soprattutto, perché siete miscredenti: rifiutate l’unicità di Allah. Vi odiamo perché le vostre società secolari e liberali permettono le cose che Allah ha proibito». Segue ampio articolo, intitolato “Operazioni dello Stato Islamico”, corredato da immagini sanguinolente di stragi e massacri, con il numero delle vittime, e dove il Califfato ha colpito tra Filippine, Bengala, Somalia, Egitto. Si arriva quindi alla sezione riservata alle interviste. Una testimonianza è dedicata a Umm Khalid al-Finlandiyyah, proveniente da Helsinki e approdata allo Stato Islamico. Le pagine finali si annunciano colme di esclusive. C’è la “Top 10 dei migliori video dello Stato Islamico”, con la classifica delle esecuzioni di poveri prigionieri con la tuta arancione. E la rubrica “Per la spada”, con la scimitarra della giustizia in azione, e persone lapidate. Quindi, bambini sotto i 10 anni che sfilano in uniforme militare pronti a combattere e uccidere («la generazione delle battaglie epiche»).
L’ultima pagina è l’immagine di una croce effettivamente spezzata. Obiettivo raggiunto. Dabiq non è nuova a questo tipo di esibizioni, anche se questo numero (82 pagine) appare particolarmente efferato. Il lancio della rivista avvenne nel luglio 2014. Il magazine prende il nome dalla località nel nord della Siria considerata come il luogo in cui avverrà lo scontro finale «tra musulmani e bizantini». E che dovrà portare, negli auspici della rivista, al trionfo dell’Islam abbattendo il «nemico» Francesco.