UMBERTO CHE AMA LE DONNE
Intervista a Veronesi
La vita. La morte. La scienza. La fede. E soprattutto il corpo femminile: "Ne ho a cuore l'integrità", dice l'oncologo, "e mi batto da sempre per tutelarla"
di Stefania Rossini
Ci si aspetta sempre qualche delusione ad avvicinarsi troppo ai grandi contemporanei. Il mito può infrangersi su un dettaglio, scomporsi su una debolezza. Se è vero infatti che nessun uomo è un genio per il proprio cameriere, figuriamoci per il giornalista. Che parte prevenuto, sospettoso, intenzionato a trovare quella crepa che può far vacillare il monumento.
Non va così con Umberto Veronesi. A osservarlo da vicino, a parlare con questo grande vecchio dal corpo ancora atletico e dalla mente senza età, si rinuncia presto alle cattive intenzioni. Da vicino Veronesi non solo conferma la sua bella fama, ma la moltiplica. Il medico ci aveva infatti indotti alla riconoscenza per il dono fatto al corpo delle donne, curandolo dal cancro senza mutilarlo. Il politico ci aveva ammaliato con quella mitragliata di proposte laiche (droghe libere, pillola abortiva, eutanasia, preservativi gratuiti) che lo avevano reso il ministro più popolare dell'ultimo governo di centro-sinistra. Ma l'uomo Veronesi ci regala una sua visione privata del mondo - e del suo senso - altrettanto affascinante. Non c'è una domanda, una sola, a cui Veronesi dia la risposta che darebbe chiunque. Questo anziano scienziato, che compirà presto 78 anni e che ha passato l'esistenza a combattere la morte e la malattia, impersona veramente il contrario del comune sentire. Cioè del conformismo.
Lei, professore, ha toccato come pochi le due grandi energie che muovono il mondo: eros e thanatos. Cominciamo dalla prima. Come mai ha tanto amato il corpo delle donne?
«Ne ho amato l'integrità, che è una delle basi dell'equilibrio del pensiero. Ne ho combattuto l'inutile mutilazione e, quando ho potuto, l'ho sconfitta. Il mio amore per le donne è ideologico, non carnale».
Del corpo femminile ha però scelto il seno.
«Conosco la metafora freudiana e so che chi ama il seno è più attaccato al legame infantile con la madre. Io ho adorato la mia, ne ho profondamente ammirato la forza, la religiosità operosa, la capacità femminile di farsi carico di sei figli orfani di padre. Sono convinto che il senso profondo della mia scelta venga proprio da lì, e questo mi colloca tra gli uomini più evoluti».
Che intende dire?
«Che hanno ragione gli americani quando dividono gli uomini in "tit-man" e "ass-man", quelli che amano le tette e quelli che amano il sedere. Questi ultimi sono alquanto primordiali, vicini ai quadrupedi e ai loro richiami sessuali. Pensi a una vacca: il toro non è certo attratto dalle sue mammelle pendenti, ma dalla rotondità delle natiche».
Invece il "tit-man"?
«Si è messo in piedi e, dalla posizione eretta, ha desiderato frontalmente la donna. Si è così legato ai valori umani della femminilità che sono quelli della procreazione, del nutrimento e dell'allevamento. Il Dna ci dà una sola missione: moltiplicare la specie. Il sogno di un filo d'erba è diventare dieci fili d'erba. Di un bruco diventare dieci bruchi. Di un uomo avere dieci figli».
Lei ha dato un buon contributo...
«Già, con sette figli non ho partecipato al massacro universale della popolazione terrestre».
Quando ha saputo che il suo destino di scienziato si legava al seno?
«Me lo fece capire una giovane paziente che, verso la metà degli anni Sessanta, mi implorò in lacrime di aiutarla. Aveva un piccolo carcinoma e tutti i medici a cui si era rivolta le imponevano l'asportazione totale, altrimenti la mandavano via. Questa era la morale medica: preferire la morte di un paziente alla perdita delle proprie certezze. Ma la ragazza insisteva, doveva sposarsi e sapeva che il rapporto con il partner ne sarebbe stato deteriorato senza scampo».
Senza scampo? Lei ha questa opinione degli uomini?
«Non sempre e non per tutti, fortunatamente. Ma nella maggior parte dei casi un deficit della femmina dà loro un alibi perfetto anche con gli altri, che dicono: "Poveretto, si è dovuto prendere un'altra donna, la moglie ha avuto una mastectomia...". Gli uomini in fatto di sesso sono dei mascalzoni».
Non saranno solo deboli e terrorizzati dal contatto con il dolore?
«Lei è troppo buona. La verità è che l'uomo è poligamo per natura e sfrutta l'occasione di poter spaziare nel mondo femminile con una qualche giustificazione».
Che fine fece quella paziente?
«La operai felicemente. Si sposò ed ebbe molti figli. Quello fu solo il primo passo, il grande studio riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità è iniziato dopo, negli anni Settanta. Oggi un medico che facesse una inutile mastectomia sarebbe un criminale».
Non sarà andata sempre così bene. Avrà spesso incontrato anche thanatos, la morte.
«Questa è un'area che tendo a rimuovere, perché la mia è un'esperienza che rende quasi schizofrenico. in me convivono davvero due personalità. La prima si misura in una vita di relazione fatta di volontà, di desiderio di imporre le mie idee nel mondo scientifico e di dare serenità ai miei pazienti».
E l'altra?
«Si nasconde nel mare profondo che si agita dentro di me ed è dominata dal pessimismo più integrale. È la parte che fa perdere le certezze e la fede, che rende nichilisti. Attualmente lo spirito di conservazione fa convivere questi miei mondi. Ogni tanto mi trovo nella disperazione con me stesso, ogni tanto mi rinfranco al pensiero di svolgere un ruolo nello sviluppo di un nuovo pensiero».
Lei che ha visto morire molte persone, può dirlo. Di fronte alla fine, soffre più l'uomo di fede o l'uomo senza fede?
«Se devo dare un giudizio sintetico, non ho dubbi. Muore meglio il paziente senza fede».
È il contrario di quanto si crede...
«Infatti è una credenza senza fondamento. Il laico si sente pienamente un mortale, perché non crede a tutto ciò che la religione gli ha suggerito per consolarlo dell'inesorabilità della fine. Sa che la sua vita è fragile, che deve terminare e vi si prepara nel tempo. Tutti i laici affrontano la morte con distacco, in modo quasi filosofico...».
Posso farle dei nomi che la smentiscono: Pannunzio, Guttuso, Sciascia si sono convertiti in extremis.
«Gli ultimi attimi di vita sono attimi di debolezza e di sconvolgimento totale. Molte cosiddette conversioni si devono allo stordimento dei farmaci, ma anche alle pressioni di chi è intorno al moribondo. Sono sopratutto i familiari a non volersi discostare dalle regole che la società ha codificato intorno alla morte».
Forse perché aiutano a superarne l'impatto.
«È il conformismo che aiuta. Essere nel gruppo e seguirne le regole dà molta sicurezza, purtroppo».
Ma su questo tema lei è davvero così sereno?
«Non ho nessuna paura della morte. Sono sempre stato pronto».
E della malattia, ha paura?
«Neanche. Saprei come combatterla nei suoi aspetti più sgradevoli. Il mio unico grande terrore è quello di perdere le capacità intellettuali. Per sapere se il mio cervello funziona ancora, ogni tanto faccio complicatissimi test di intelligenza. Mi riescono sempre. Naturalmente non li confondo con la creatività, che non appartiene al mondo dell'intelligenza cerebrale, ma a quello della fantasia».
La sua creatività l'ha resa un grande scienziato. Cosa pensa di questa enorme accelerazione dell'autonomia scientifica?
«Ne sono affascinato. Contrariamente a molti, credo che lo scienziato debba avere un suo dovere etico. L'opinione comune è che la scienza non sia né buona né cattiva, e che tutto dipenda dall'uso che se ne fa. Ma l'uomo che ricerca ha la capacità di capire il senso etico di ciò che sta facendo. E di regolarsi di conseguenza».
Non trova però che ci sia un'aspettativa magica nei confronti della scienza? Le si chiede salute, bellezza, immortalità. Non è troppo?
«Perché troppo? Essere sani e belli fa piacere, e anche vivere a lungo è una bella cosa. In quanto all'immortalità, che per ora è una ragionevole aspettativa di vita intorno ai 120 anni, come si fa a non considerarla una conquista?».
E il resto? La clonazione, la duplicazione della vita...
«Questa storia della clonazione è un falso problema. Nessuno penserà mai alla clonazione per avere un figlio, è più facile farlo per via naturale. Se poi una coppia di lesbiche farà una figlia con una madre che dona il Dna e una che dona l'uovo, che sarà mai? Si tratterà al massimo di qualche decina di casi».
Lei che certamente non è un moralista, che pensieri ha sulla guerra che incombe?
«Mix feeling. Questa volta, non riesco a stare con il pacifismo di moda. Ho paura che inconsapevolmente significhi difendere Saddam. E io invece sono un uomo libero, le dittature mi fanno orrore».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»