venerdì 27 giugno 2003

psicoanalisi, il manifesto ci crede ancora?

il manifesto 27.6.03
L'Io alle prese con la sua immagine
Poter dire che effetto fa essere quella persona che si è: questo il tema ricorrente in due libri della grande psicoanalista Piera Aulagnier, che ci vengono restituiti grazie alla meritoria opera di traduzione di Alberto Luchetti per La Biblioteca
di Pier Luigi Rossi

Nel racconto di Borges che s'intitola Le rovine cicolari e si trova in Finzioni (Einaudi) un uomo, un mago, decide di creare un altro uomo: prima vuole crearlo nel sogno e poi vuole anche imporlo alla realtà. Restando tutto il tempo necessario su un'isola e dormendo fra le rovine circolari di un tempio anticamente distrutto dal fuoco, riesce a formare la sua creatura dall'interno, sognandolo pezzo per pezzo come un corpo: prima soltanto un cuore, poi un organo dopo l'altro, fino ad avere davanti a sé un uomo completo che però non si sveglia e non si muove. Alla fine è il dio del Fuoco che risponde alla sua preghiera di farlo essere vivo, e lo rende capace di vita e di movimento. Sarebbe un uomo come tutti gli altri, se non fosse che può camminare sul fuoco senza bruciarsi: unico segno, questa ambigua immortalità, del suo essere un fantasma non dotato di un'esistenza reale. Mentre il mago faceva tutto ciò, e curava anche che la sua creatura nulla potesse ricordare delle sue origini e nulla potesse sospettare della sua vera natura, era inquietato a sua volta da un'impressione che tutto questo fosse già avvenuto... Poi una notte, quando l'opera era ormai compiuta, un grande incendio divampò ancora una volta tra le rovine e il mago pensò che forse la morte era venuta finalmente a liberarlo. Ma quando andò incontro ai gironi del fuoco si accorse che questi non mordevano la sua carne, che lo inondavano senza calore e senza combustione, e allora comprese con umiliazione e con terrore di essere anche lui un fantasma, e di esistere solo nel sogno di un altro. «Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!», commenta Borges.
L'intensa suggestione di questo racconto proviene dal fatto che un mito molto antico, quello di Narciso, si declina in una forma molto moderna: un possibile sentimento di non esistenza, di non realtà, nel quale una persona potrebbe pericolosamente rispecchiarsi come qualcuno che non ha mai cominciato ad esistere. D'altronde tutti noi, prima di avere un corpo, siamo stati creature del pensiero di altri, siamo stati pensati (e sognati) prima di nascere e di cominciare a esistere. Freud osservava la riattivazione del narcisismo dei genitori che precede la nascita di ogni nuovo bambino anticipandolo a propria immagine e somiglianza, e noi ci chiediamo come faccia ad emergere l'Io del bambino che ne farà la persona nuova e non prevista, cui spetta riuscire ad essere.
Su questo tema escono ora in traduzione italiana due libri di Piera Aulagnier, una grande psicoanalista nel cui pensiero l'alienazione, la passione o il delirio sono le figure che assume il più o meno esteso fallimento dell'Io nella sua impresa. Italiana di nascita e francese di formazione, è diventata psicoanalista come allieva di Lacan. Il suo nome originario era Spairani, e la sua opera - ben poco conosciuta in Italia - si avvantaggia ora delle nuove traduzioni di Alberto Luchetti, che già ci aveva fornito la versione italiana del primo difficile trattato, La violenza dell'interpretazione (Borla, 1994), e che completa la sua meritoria fatica - da vero esperto del pensiero di Aulagnier - restituendoci in italiano I destini del piacere. Alienazione, amore, passione, scritto per il seminario di insegnamento che accompagnava il lavoro clinico con pazienti psicotici all'Ospedale Sainte-Anne di Parigi; e L'apprendista storico e il maestro stregone, che racconta per esteso due lunghe storie cliniche (entrambi i libri sono usciti per le edizioni la Biblioteca, Bari-Roma). È proprio attraverso questi lavori clinici che Piera Aulagnier avrebbe voluto inizialmente essere conosciuta (e forse riconosciuta) in Italia, rendendosi conto dell'ambizione e della complessità del suo pensiero teorico; e tuttavia, pur nella difficoltà del linguaggio, sarà proprio l'eccezionale attualità delle questioni sollevate da questo pensiero ad affascinare il lettore che laincontrasse oggi per la prima volta.
Aulagnier si preoccupa, dunque, di come l'Io debba presto cominciare ad esistere e poi sempre incessantemente continuare a poter dire che c'è, nella possibilità di sentire, di rappresentarsi e di pensare la propria esperienza. Con ciò, prende molto nettamente le distanze da Lacan, per il quale l'Io stesso non può essere altro, quasi, che alienazione del soggetto nella trappola dell'immaginario: esistere nell'immagine che l'altro ci rimanda è un po' quel che succede al personaggio di Borges, che si accorge di esistere solo nel sogno di un altro uomo. Aulagnier eredita da Lacan la categoria dell'alienazione, ma è per lei un disgraziato e determinato destino dell'Io quello che gli si offre con la rinuncia a pensare, alienandosi nel pensiero dell'altro. In realtà, uno sviluppo moderno e sorprendente viene dato così a uno dei fondamenti della psicoanalisi: la denuncia dei pericoli della suggestione che in altri tempi Freud indicava nell'ipnosi e nei fenomeni di massa.
Nell'alienazione s'instaura una violenza silenziosa, della quale non si accorge né chi la subisce né chi la induce: è ciò che Aulagnier chiama «un cattivo incontro», dove il desiderio di alienare dell'uno si salda con quello di essere alienato dell'altro; un incontro dal quale alcuni sono obbligati a tentare l'uscita magari attraversando una crisi psicotica. Il delirio è infatti una determinazione a continuare a pensare pur nell'assenza dei fondamenti necessari per farlo. Altre patologie meno gravi ma più frequenti ricevono anch'esse una nuova illuminazione da questo punto di vista: penso, ad esempio, alle persone che si tagliano o che si espongono a situazioni traumatiche pur di mettersi alla prova e sperimentare se stesse nel corpo, quasi dovessero sottrarsi all'incubo di una finta immortalità. Ma al di là dei quadri della clinica, l'attualità del pensiero psicoanalitico di Aulagnier sta nel fatto che esso aiuta a considerare la più generale crisi della soggettività che attraversa il mondo moderno. In un linguaggio che non è il suo si potrebbe dire che l'Io di cui lei parla altro non è se non la possibilità di descrivere «in prima persona» la propria esperienza, il poter dire `che effetto fa' essere quella persona che si è. Thomas Nagel, l'autore di questa celebre definizione della coscienza, direbbe anche che questo fa parte del senso comune e che la scienza non ce lo può dire, in quanto essa ci descrive oggettivamente in terza persona. Non che della scienza noi non abbiamo anche soggettivamente bisogno, ma l'una cosa non può fare le funzioni dell'altra.
La psicoanalisi, da parte sua, è una strana scienza. Per un verso essa richiede una complessità di riflessione teorica della quale i libri di Aulagnier sono un ottimo esempio; ma per un altro verso la psicoanalisi non è che un'estensione dell'esperienza del senso comune, una straordinaria e privilegiata estensione la cui possibilità è un oggetto privato e sociale da difendere. Un tale privilegio, infatti, sembrava naturale nelle condizioni culturali in cui è nato, un secolo fa, ed è reso ben più problematico nelle condizioni di vita di oggi con le ideologie che le accompagnano. Anche da questo punto di vista colpisce il fatto che la «violenza» di cui parla Piera Aulagnier non sia intesa come una distruttività innata dell'essere umano, ma come la conseguenza di una mancanza nello spazio in cui l'Io dovrebbe avvenire. Strana situazione quella della psicoanalisi, oggi: dopo avere fatto la scoperta dell'inconscio, trova però la sua urgente attualità nel dimostrare che l'Io e la coscienza non sono da buttare.

La Repubblica 27.6.03
Galimberti e Pericoli

(segnalato da Dina Battioni)
Pericoli: Non posso girare per le strade o salire su un autobus senza guardare le persone e provare a ritrarle mentalmente
Galimberti: Se la nostra biografia è scritta sul viso, chi cerca di modificarlo con un lifting non accetta la propria storia
Pericoli: Per me l´elemento più rivelatore è la bocca che prende persino la forma delle parole che diciamo
Galimberti: Quando uno parla con se stesso dice più verità: per questo paziente e analista non si guardano negli occhi
Galimberti: "Noi non vediamo la nostra faccia e dunque ce la immaginiamo, è un viso psichico, non fisico"
Pericoli: "Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre c´è sempre una certa resistenza, la paura di essere letti"

ENRICO REGAZZONI
Cosa spinge a ritrarre il volto di un altro essere umano?
TULLIO PERICOLI - «Per chi lo fa, come per chi lo vedrà, il ritratto presuppone una lettura dei segni del volto più avanzata di qualsiasi altra forma di comunicazione, sia fotografica che cinematografica. Già la parola viene da traere, come se tu dovessi rubare qualcosa a quel volto per mostrarlo ad altri. Davanti all´ipotesi di farsi ritrarre, c´è sempre una forma di resistenza, come se il soggetto si esponesse a una lettura di se stesso più scoperta, quasi una denuncia. Ho fatto un esperimento, qualche tempo fa: sono andato da amici e conoscenti e ho proposto di fargli il ritratto partendo dalle loro indicazioni. Perché porto la barba, come mi penso, come mi vedo... Inizialmente un´adesione entusiasta, poi la fuga, segnata dal panico. L´esposizione era troppo forte».
Ritratto come cortocircuito fra vanità e pudore?
UMBERTO GALIMBERTI - «Certo, ma soprattutto mi piace quello che dice Pericoli quando parla di ritrarre come rubare. Viso viene da visto, ma visto dagli altri. E così visage in francese, Gesicht in tedesco. Il mio volto è il buco nero del mio corpo. Da qui la rapina: l´unica cosa che non vedo di me, l´altro la vede. Sono a disagio, ho paura. E il pudore consiste proprio nel nascondere ciò che diventa preda di altri, a partire dagli organi sessuali».
Effettivamente la maggioranza delle nostre riflessioni su noi stessi si fonda sulla presunzione di conoscerci meglio di quanto possa farlo chiunque altro. In verità noi sappiamo quanto tale presunzione sia debole, per non dire infondata. Il nostro ritratto, mostrandoci ciò che non sappiamo, potrebbe far vacillare molti pensieri e costringerci ad abdicare a certezze che vogliamo incrollabili.
GALIMBERTI - «E´ così, anche perché la nostra faccia, non potendo vederla, ce la immaginiamo secondo schemi corporei che sono frutto di educazione, ambiente, riconoscimenti. Si tratta di schemi psichici, che per esempio spingono molte ragazze belle a considerarsi brutte. Ma mentre noi pensiamo un viso psichico, chi ci ritrae prende la nostra faccia fisica».
Come si individuano i segni che fanno un ritratto?
PERICOLI - «Non lo so. Più ne faccio e meno capisco perché cinque segni messi assieme fanno quella faccia che si distingue da miliardi di facce possibili. Diceva Georg Simmel che "il viso risolve nel modo più completo il compito di produrre con un minimo di variazione dell´elemento singolo un maximum di variazione dell´espressione complessiva". Ma questa non è solo una proprietà dei segni. E´ che noi abbiamo una capacità di lettura così ampia che un piccolo spostamento rivoluziona tutto. Siamo noi a innescare questa rivoluzione. Come potremmo infatti riconoscere quel volto fra sei miliardi, se non avessimo almeno sei miliardi di elementi nelle nostre possibilità selettive? Se basta un tratto minimo, voglio dire, è perché la rivoluzione è già nei nostri occhi».
E non c´è una tecnica per cogliere i tratti determinanti?
PERICOLI - «Non è una tecnica».
GALIMBERTI - «Forse è una percezione inconscia che hanno gli artisti, che poi è simile a quella che tutti noi utilizziamo quando, vedendo una faccia, decidiamo se con quella persona si può parlare o no, se è simpatica o meno, se il suo mondo ci è emotivamente accessibile».
Quindi la capacità di ritrarre è un dono non investigabile, che permette all´artista di cogliere ciò che neppure lui sa?
GALIMBERTI - «Bergson diceva che gli animali raggiungono quello che non cercano. Nell´artista c´è questa animalità, che è la capacità di saltare la dimensione discorsiva e cogliere subito la cosa».
PERICOLI - «E´ anche un esercizio continuo e inconscio. Io non posso girare per le strade, o salire su un autobus, senza soffermarmi su ogni faccia che vedo. E domandarmi: come la disegnerei?».
GALIMBERTI - «Voglio aggiungere una cosa sul capitale narrativo del volto. E cioè che se il nostro viso è la nostra biografia, e lo è, tutti coloro che lo modificano artificialmente, col bisturi o con il lifting, non accettano la loro biografia. In omaggio a un modello collettivo di bellezza, costoro rifiutano non le loro fattezze, ma la loro storia».
PERICOLI - «Ecco, davanti ai volti che si costringono dentro a un modello io sono un po´ disarmato. So di persone che limitano di proposito i movimenti del loro viso: evitano perfino di ridere per paura di un´eccessiva deformazione. Ma in fondo la faccia cos´è, se non una quantità di muscoli esercitabili come in palestra? Le nostre facce sono il risultato della nostra palestra quotidiana. E in questo senso l´elemento per me più rivelatore è la bocca».
Più degli occhi?
PERICOLI - «Sì, perché i muscoli della bocca sono quelli più in attività. Perfino durante un brutto sogno facciamo delle smorfie. E quando parliamo la nostra bocca prende la forma delle parole che pronunciamo. Penso che ci sia una bocca che parla italiano, una che parla in francese, una in americano. E a ben guardare anche i nostri occhi, e le orecchie, e tutti gli elementi del viso sono, come dice Garboli, i correlativi facciali del pensiero».
GALIMBERTI - «In fondo bocca viene da buco. Il nostro viso ha tanti buchi, dai quali noi veniamo fuori».
Ma siamo certi che il volto non menta mai? Siamo sicuri, voglio dire, che sia una somma esatta della nostra identità?
GALIMBERTI - «Al posto della parola identità dobbiamo usare il sé: che non è l´io, cioè il modo in cui mi rappresento nel mondo esterno, ma il mio me stesso. Allora c´è una perfetta coincidenza fra il mio volto e me stesso. Il problema è che io non conosco il mio me stesso, e mi produco in una dimensione egoica, socialmente accettabile. Mi falsifico, ma il mio volto mi dichiara. Il misconoscimento che noi facciamo del nostro volto, la differenza fra come lo pensiamo e come lo vediamo riflesso in una vetrina è la distanza fra ciò che pensiamo di noi e ciò che veramente siamo. Somma di conscio e inconscio, il nostro viso è la nostra riproduzione».
PERICOLI - «Il sé che si rivela: questo, esattamente, spiega la paura. Un timore che precede la conoscenza. Sappiamo che il nostro volto rivela moltissimo e può tradirci. Anche il nostro destino dipende dal viso, e noi ci mostriamo ogni giorno con qualcosa che ci fa paura. Siamo contenti di apparire sul giornale, ma allo stesso tempo ci sentiamo spaventati».
Sbaglio, o stiamo dicendo che la fisiognomica è una scienza esatta?
PERICOLI - «Non lo è, se metti in fila dei tratti: quello che ha il naso fatto in un certo modo ha questo carattere, quello che ha una fronte sfuggente... Questo no, perché il volto è prima di tutto un sistema di relazione fra più elementi. Puoi decifrare un viso, ma non puoi organizzare questa lettura in un insieme di regole».
GALIMBERTI - «Tuttavia, quando la fisiognomica analizza le persone individua una corrispondenza secca. A Santa Maria della Pietà, il grande manicomio di Roma, ho sfogliato dei volumoni di fisiognomica dove i volti erano assimilati ai loro corrispettivi animali. Impressionante».
PERICOLI - «Ma non puoi generalizzare: tutti coloro che hanno la mascella equina presentano certi caratteri... Questo è Lombroso, inaccettabile».
GALIMBERTI - «Ovviamente. C´è una corrispondenza fra dentro e fuori, non tra fuori e fuori».
E quanto pesa lo sguardo del ritrattista? Quanto può alterare il ritratto l´idea che l´artista ha del suo soggetto?
PERICOLI - «E´chiaro che, ritraendo un volto, non ne faccio solo una lettura, ma arrivo quasi a violentarlo. In quel volto non può non esserci ciò che so di lui. Prendiamo il caso di Kafka. Nelle foto quasi anonime che si lasciò fare, dove per compiacere il fotografo o la sua stessa famiglia compare come un dolce gentiluomo, io non posso non ritrovare ciò che ha scritto. Solo tra gli ultimi scatti ce n´è uno che presenta una lieve divergenza degli occhi, al limite dello strabismo. Come se non si fosse controllato. Era stanco e malato, e gli occhi si sono aperti come una finestra. Insomma, qualcosa invento, qualcosa forzo, e dalla faccia vien fuori quello che mi aspetto».
Finalmente si parla di occhi. Fin qui evitati come due cronici bugiardi.
PERICOLI - «Ho posto l´attenzione sulla bocca perché non facciamo caso a come la muoviamo, dunque è capace di informazioni sorprendenti. Gli occhi, al contrario, sono la parte del volto con cui ci esprimiamo di più, ma anche quella più controllata. Se vogliamo indossare una maschera, ci copriamo gli occhi, non la bocca. Perché sappiamo che lì ci riveliamo di più. Sono insomma una parte molto ricca, ma anche ambigua. E per me non sono il centro».
GALIMBERTI - «Poi, nel ritratto, c´è un´inversione di funzione. Fatto per guardare, l´occhio guardato collassa, e lo sguardo si abbassa».
PERICOLI - «Vorrei domandare io una cosa a Galimberti: perché nella posizione classica analista e paziente non si guardano negli occhi?»
GALIMBERTI - «Perché somiglierebbe troppo a una conversazione. Inoltre, guardarsi negli occhi sarebbe una forma di controllo reciproco che va evitato. Infine, perché se uno parla con se stesso dice più verità»
.
Ma se lo sguardo guardato non è vero, la storia del ritratto è una galleria infinita di bugie. O c´è un sistema che l´artista conosce per violare la maschera?
PERICOLI - «Nel mio caso la risposta è facilissima: quasi tutti i miei ritratti nascono da una foto. E la foto ruba l´istante, coglie l´espressione che ha l´instabilità del passaggio da una all´altra. Quei due occhi di Kafka sono due occhi rubati. Altrimenti il soggetto si mette in posa per somigliare al ritratto che verrà. Così io faccio sempre delle foto, che mi serviranno per ritoccare quella posa».
E la bellezza di un volto, cos´è? In natura, il volto è il centro della seduzione perché è la parte del corpo che meno può dissimulare l´età, e dunque la fertilità di un soggetto. Per voi qual è l´elemento centrale di questa seduzione, che chiamiamo bellezza?
GALIMBERTI - «Direi l´intensità. Più che la forma e l´armonia, l´intensità di un volto ti dice quanta anima c´è. Anima animale, intendo. E l´intensità è data dallo sguardo e dalla mobilità del volto. Da questa sono attratto, molto più che dall´armonia, che può essere statica e non sedurre affatto».
PERICOLI - «Concordo, l´intensità. Forse anche per questo il volto da cui sono meno attratto è il mio. Lo trovo poco intenso e poco espressivo, e faccio una gran fatica a disegnarlo. Mi seducono invece i volti che mi suggeriscono una quantità di possibili ritratti, che potrei disegnare in dieci modi diversi».
GALIMBERTI - «E´normale: poiché il volto manifesta più di quanto sai di te, è faticoso ritrarre se stessi. Scusi, Pericoli: ma ha mai ritratto Pintor? Perché non è tanto diverso da lui, e lui era bello intenso. Anche il suo viso lo è, solo che lei non vede questa intensità e non ce la fa a riprodurla».
Pericoli, si esercita mai a ritrarre lo stesso viso a distanza di anni?
PERICOLI - «Certo, ed è un esercizio che mi piace molto. Il cambiamento, l´accumulo... Però c´è anche un momento, nella vita, in cui un viso raggiunge la sua perfezione, e capisci che resterà quel viso lì».
GALIMBERTI - «Si arriva a quel viso, una faccia quieta che governa se stessa, nel momento in cui conquisti l´accettazione incondizionata di quello che sei. Non sei più in guerra con te stesso, con la tua ombra. Ammetti: ebbene sì, sono anche questo. Nietzsche lo dice bene: diventa ciò che sei. E per me questa frase potrebbe essere lo stemma dell´intera psicoanalisi».
Mai incontrato un viso irritraibile?
PERICOLI - «Sì. Non so perché, ma è Nabokov. Apparentemente ha degli elementi facili: un bel naso grosso, una certa pappagorgia... In realtà non c´è mai, è inafferrabile come le sue farfalle. E io non sono mai riuscito ad acchiapparlo».
Un´ultima cosa sull´attuale declino del volto. Cent´anni fa era sufficiente spedire una foto per organizzare un matrimonio, oggi con internet si possono raggiungere incresciose intimità senza mai vedersi. Il volto sembra perdere valore e differenza, per adeguarsi a standard di bellezza imposti dalla moda.
GALIMBERTI - «C´è un processo di fortissima decorporizzazione, e l´erotismo non passa più per il confronto dei corpi ma attraverso la visione, tipo internet o tv, o addirittura per via fonica. E´ un sintomo grave che ci si possa sposare anche senza mai essersi visti in faccia, perché vuol dire che la relazione prescinde dalla corporeità. Direi che stiamo recuperando, a un livello degradato, un atteggiamento religioso. Cosa diceva la religione? Che il corpo è carne da redimere, come se fosse una cosa sporca. Sotto il profilo igienico, oggi viviamo qualcosa di simile: il corpo va profumato, corretto, costruito. Il modello è generalmente televisivo, e il corpo è perennemente inadeguato. Per cui, se vuoi evitare la depressione, o te lo costruisci o lo rimuovi».
PERICOLI - «Però, proprio dalla tv ci viene anche un´altra cosa, e cioè un´esasperazione dei primi piani che ci permette di cogliere i dettagli espressivi di un volto in modo molto forte. Grazie alla tv, posso dire di conoscere benissimo Maurizio Costanzo, di sapere tutto di lui. E che dire della faccia di Bush? Certi zoom ne rivelano una diabolicità cui non avremmo accesso, altrimenti. Perché nessuno può stare in posa per dieci minuti, parlando. La telecamera ti stana. Non è un caso che Berlusconi pretenda che davanti all´obiettivo venga messa una calza. Insomma, non so se è un bene o un male, ma ci siamo creati un archivio personale delle facce che ci governano, ci raccontano le storie, ci istruiscono. La tv ce li impone ma ci dà anche informazioni preziose su costoro. E tutti questi dettagli, che registriamo anche senza saperlo, prima o poi sbucheranno fuori, da qualche parte».