giovedì 5 giugno 2003

spazio-tempo

La Stampa 5 Giugno 2003
LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ ALLA PROVA DELLA STORIA DEL PENSIERO. IN UN SAGGIO IL RACCONTO DI UN’AVVENTURA FASCINOSA COME UN ROMANZO
Se Einstein sogna di cavalcare la luce
Da Zenone a Virgilio, Galilei, Gadda, Calvino: tra fisica e filosofia
un principio relativo e assoluto che ha guidato l’evoluzione
del mondo. Il rapporto spazio-tempo è l’enigma di sempre
di Claudio Bartocci

COME ci apparirebbe il mondo se viaggiassimo a bordo di una qualche automobile futuribile capace di raggiungere una velocità esattamente uguale a quella della luce? E che cosa accadrebbe se accendessimo i fari? Vedremmo il fascio luminoso immobile davanti a noi? Da bizzarre domande di questo genere, concepite all'età di appena sedici anni - racconta lo stesso Albert Einstein nella sua Autobiografia scientifica - prese forma, dopo dieci lunghi anni di riflessione, quel principio di relatività che sta alla base della famosa teoria da lui formulata nel 1905. La velocità della luce è la stessa per tutti gli osservatori, sia per chi se ne rimanga comodamente seduto in poltrona, sia per chi si lanci in folli corse su automobili potentissime, e costituisce un limite invalicabile per qualsiasi oggetto fisico.
Siamo tentati di avanzare l'ipotesi - oltremodo plausibile sebbene non suffragata da nessuna testimonianza, - che l'idea di viaggiare a cavallo di un raggio di luce possa essere stata suggerita al giovane Einstein, gran divoratore di libri di «scienza popolare», dalla lettura delle avventure di Lumen, nei Récits de l'infini dell'astronomo e divulgatore Camille Flammarion. Lumen è una sorta di spirito sapiente, che infrange le leggi del tempo spostandosi attraverso il cosmo a una velocità superiore a quella della luce e impartisce al discepolo Quaerens sentenziose lezioni che spaziano dalla fisica alla metapsichica. Comunque sia, la curiosità di Einstein (senza voler togliere nulla al suo genio) appartiene a un genere di interrogativi che l'uomo si è posto fin dai tempi più antichi nel tentativo di descrivere il mutevole mondo che lo circonda attraverso il linguaggio. Come si confrontano i differenti punti di vista di chi sta fermo e di chi è in movimento? Dobbiamo credere alla percezione sensibile che ci indica la terra immobile sotto i nostri piedi? Qual è la natura del moto e, dunque, dello spazio? Il tempo è un'illusione? La relatività delle esperienze, e la pluralità delle prospettive, non interessano soltanto lo scienziato, ma anche il filosofo, il poeta, il narratore, il pittore che tenta di fissare sulla tela l'inafferrabile forma fluens del movimento.
Dai presocratici a Kant, da Lucrezio a Calvino e Queneau attraverso Ariosto, da Galilei a Poincaré ed Einstein, le speculazioni teoriche e le ipotesi scientifiche sulla coppia dicotomica assoluto-relativo si intrecciano con le metafore letterarie e le intuizioni poetiche. Un saggio di ampio respiro, Relatività, quante storie (Bollati Boringhieri, 321 pagine, 30,00 euro) di Antonio Sparzani, docente di fisica all'Università di Milano, ripercorre alcune tappe di questo intricato percorso culturale.
Il primo pensatore a mettere a nudo le insidie nascoste nelle nozioni apparentemente chiare a livello intuitivo di movimento, spazio e tempo fu Zenone di Elea. I suoi quattro paradossi (la dicotomia, Achille, la freccia e lo stadio), che conosciamo principalmente attraverso l'interpretazione di Aristotele, hanno segnato in profondità la storia del pensiero occidentale. Non solo l'analisi matematica comincia con Zenone e ogni teoria del moto, da Giovanni Filopono a Newton, si trova a dover fare i conti con le sue sottili argomentazioni, che impongono una ben precisa struttura geometrica allo spazio fisico. Ma l'insolenza con cui Zenone spregia il senso comune affascina anche i letterati. Carlo Emilio Gadda, ad esempio, nel Primo libro delle favole, offre una virtuosistica parafrasi dell'apologo di Achille (il Tachipo) e la tartaruga (la cheli), mentre l'aporia della freccia ispira il racconto Ti con zero di Calvino. E Paul Valéry nel Cimitero marino scrive (nella traduzione di Giorgio Caproni): «Crudel Zenone! Zenone Eleata! / M'hai trafitto con quella freccia alata / Che vibra, vola, e più non vola già!».
Il quarto paradosso di Zenone - lo stadio, la cui interpretazione è più controversa - sembra in ogni caso avere a che fare con la spinosa questione del moto relativo. Questo stesso problema affronta Galilei in un celebre passo del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, ricorrendo all'esemplificazione del «gran navilio» per illustrare il principio di relatività che oggi porta il suo nome: nessun esperimento fisico effettuato a bordo avrà esito differente se la nave è ferma oppure in movimento, «pur che il moto sia uniforme e non fluttuante qua e là». La fantasia della nave, che Galilei sviluppa con un gusto tutto barocco per l'amplificazione, non è affatto una sua invenzione. La lunga storia di questa allegoria ha forse inizio in alcuni versi del De rerum natura di Lucrezio: «la nave che ci trasporta e sembra restare immobile; / quella che è ferma all'ancora e sembra che ci oltrepassi». Virgilio si serve di un'immagine analoga nell'Eneide, mentre Sesto Empirico, il grande filosofo scettico, usa l'esempio della nave a più riprese, sia negli Schizzi pirroniani sia nel trattato Contro i professori, per dimostrare la non esistenza del movimento.
Le riflessioni sulla relatività del moto sono strettamente legate al problema di stabilire se la Terra è immobile al centro dell'universo, come pretendono la tradizione aristotelica e l'astronomia tolemaica, oppure, al contrario, soggetta a una rotazione giornaliera attorno al proprio asse e a una rivoluzione annuale attorno al Sole. I fisici della cosiddetta scuola di Parigi, nel XIV secolo, Giovanni Buridano (il principale difensore della teoria dell'impetus) e Nicole Oresme, suo probabile allievo, si avvalgono dell'argomento della nave per pronunciarsi a favore dell'immobilità della Terra. Diversamente, Giordano Bruno nella Cena delle ceneri, un'opera che secondo alcuni studiosi (Frances Yates in testa) avrebbe influenzato profondamente la genesi del Dialogo galileiano, ricorre all'esperimento ideale di osservare il moto di caduta di una pietra lanciata verso l'alto a bordo di una nave in movimento per propugnare la tesi copernicana.
Non ha torto, crediamo, Borges quando osserva, in Altre inquisizioni, che «forse la storia universale è la storia delle diverse interpretazioni di alcune metafore».