Giornale di Brescia 21.7.03
La colossale statua di avorio e oro raffigurava il padre degli dei
Il bosco di Olimpia dove Zeus sorrideva ai Greci
Mascia Nassivera
Per Omero Zeus era il signore degli dei, la divinità del cielo, della pioggia e dei fulmini. E pensare che, appena nato, se l’era vista brutta, rischiando di essere divorato dal padre Crono che - signore del Cielo - temeva di essere detronizzato da uno dei suoi figli. Ma Zeus si salvò e qualche anno più tardi tramutò in realtà i timori di Crono impadronendosi del potere. Da allora egli diventò il supremo dispensatore di beni e mali, come Nausicaa ricorda nell’Odissea al naufrago Ulisse: «Pure egli solo agli uomini comparte / Zeus Olimpio la gioia, ai tristi e ai buoni, / e a ciascuno come più gli aggrada; / a te dà questi mali ed è pur forza / che tu li soffra». E Zeus stesso nell’Iliade rammenta a Tetide la propria potenza: «Non è mai revocabile o fallace, / mai non rimane senza adempimento / quello ch’io col mio capo abbia sancito». Per questo i Greci decisero, dopo la loro vittoria sui Persiani a Platea, di erigere un mastodontico tempio in onore di Zeus nell’Altis, il bosco sacro di Olimpia dove già sorgevano diversi templi e dove i popoli ellenici potevano incontrarsi in pace, dimenticando le ostilità che spesso li opponevano gli uni contro gli altri. Qui fin dal 776 a.C. si svolgeva una delle più importanti manifestazioni in onore del padre degli dei, chiamata appunto Olimpiadi; la leggenda vuole che fosse stato proprio Zeus a istituire quelle competizioni agonistiche per festeggiare la sua vittoria su Crono, avvenuta a Olimpia. Accanto allo stadio dei giochi, sempre all’interno del recinto del santuario, nel 479 a.C. fu dunque iniziata la costruzione dell’enorme tempio. Subito la questione della statua della divinità da collocare nella cella, cuore sacro dell’edificio, divise gli animi; e solo dopo anni di discussioni tutti si trovarono d’accordo sul nome di Fidia. Questi, intorno alla metà del V secolo, era l’artista greco più famoso, soprattutto grazie ai capolavori creati per il Partenone di Atene; quando arrivò a Olimpia e capì che si voleva un’opera veramente speciale, non ebbe dubbi: quello che serviva era un colosso in oro e avorio («crisoelefantina», dalle parole greche che indicano i due materiali), capace di fare strabiliare contemporanei e posteri. Naturalmente ci riuscì; e in otto anni di lavoro - situati probabilmente tra il 438 e il 430 a.C. - realizzò l’immagine di Zeus più famosa del mondo antico. Ci racconta Pausania che, finita la sua opera, lo scultore chiese a Zeus che cosa ne pensasse; e il dio gli manifestò la sua approvazione con un fulmine. Chi si avvicinava alla cella del tempio si trovava di fronte a un simulacro che, con i suoi tredici metri abbondanti di altezza, sfiorava il soffitto. Siccome Zeus era assiso in trono, l’idea che alzandosi in piedi avrebbe potuto sfondare il tetto esaltava la fantasia dei visitatori, ai quali il padre dell’Olimpo sembrava così ancor più potente. Lo scultore non gli aveva dato un’espressione severa o minacciosa: anzi, colpiva il suo volto sereno, capace di tranquillizzare i pellegrini. Sempre secondo Pausania, la chioma, l’abito e i sandali erano coperti da una profusione di oro: fu calcolato che in tutto erano stati impiegati mille chili del prezioso metallo. Poiché un simile sfoggio di ricchezza attirava l’attenzione dei ladri, sembra che le parti in oro fossero smontabili, in modo da poter essere pesate di quando in quando per verificare se lo spessore aureo rimanesse sempre uguale. Il capo del colosso era cinto da una corona di ulivo dipinta di verde, molto simile a quella conferita ai vincitori delle Olimpiadi; gli occhi erano due luminosissime pietre colorate, mentre le parti nude del corpo - volto, busto, braccia e piedi - erano ricoperte da lastre d’avorio. Ma sotto i preziosi rivestimenti, quali erano i materiali che componevano la struttura portante dell’opera? Tutte le fonti concordano nel ricordare creta, legno, ferro e gesso. Con la mano destra Zeus reggeva la figura della figlia Nike (la Vittoria) con le ali spiegate, un «gingillo» alto due metri; con la sinistra impugnava lo scettro sormontato da un’aquila, animale a lui sacro. I piedi poggiavano su uno sgabello riccamente cesellato e sostenuto da un leone; e i calzari, bene in evidenza, lasciavano a bocca aperta perché ornati di bassorilievi con scene di guerra: è proprio vero che Fidia sfruttava ogni minima superficie per ricordare ai mortali l’immortalità della sua arte. Tutto il trono era ornato di statue e bassorilievi con storie mitologiche, ma forse la vera sorpresa era nascosta nel basamento di marmo della scultura. Si mormorava, infatti, che in un angolo comparisse il viso dello scultore: l’unico particolare giunto fino a noi è che si era ritratto calvo. Il complimento più bello mai fatto a questa statua fu forse quello del filosofo Plotino: «Fidia, creando la statua di Zeus, diede al dio la stessa forma che egli avrebbe scelto se avesse deciso di comparire in figura umana». Attirati dalla fama dell’opera d’arte, ma forse anche dagli splendidi panorami offerti dalla valle dell’Alfeo e dal desiderio di assistere alle Olimpiadi, passarono per il Santuario di Olimpia i più illustri personaggi dell’antica Grecia: da Pindaro ad Aristotele, da Tucidide a Demostene. Molti sovrani stranieri rimasero sbalorditi di fronte alla bellezza della scultura, tanto che lasciarono in dono mantelli, drappi e tele preziose, nei quali la statua fu avvolta. Più tardi anche gli imperatori romani si innamorarono alla follia dello Zeus di Fidia. Se Caligola tentò di trasportarlo a Roma, Nerone optò per la più facile soluzione di costruirsi una villa vicino al Santuario, in modo da poter ammirare quel gigantesco Giove tutte le volte che voleva. Il più pratico fu Adriano, che se ne fece fare una copia ridotta in oro per la sua villa di Tivoli. È naturale che un simulacro pagano così ricco di attrattiva fosse oltremodo inviso ai cristiani e agli imperatori che, abbracciata la nuova religione, combatterono il paganesimo. Nel 426 l’imperatore Teodosio II chiuse il santuario di Olimpia e ne ordinò la distruzione. Sulla sorte della statua di Fidia verità storica e mito ancora oggi si confondono. Secondo alcuni, fu distrutta insieme al tempio; altri invece sostengono che, trasportata a Costantinopoli nel palazzo di una famiglia patrizia, bruciò in un incendio nel 476 o 462 (ma forse le fiamme divamparono durante il trasporto stesso). Comunque siano andate le cose, fu una grave perdita per l’umanità. Oggi del santuario di Olimpia rimangono pochi resti, ma l’atmosfera che si respira fra quei mozziconi di colonne e mucchi di capitelli è la stessa di duemilacinquecento anni fa. Non per nulla il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi, chiese che il suo cuore fosse seppellito davanti al bosco sacro di Olimpia affinché potesse continuare a palpitare di fronte a quel panorama baciato dal mito.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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