lunedì 21 luglio 2003

filosofi...

Il Mattino di Napoli 21.7.03
L’altro pensiero
di Corrado Ocone

Si può giocare con le date e con la filosofia? Certamente. Anche quando le date sono funeste e i filosofi hanno un fondo di tragicità. L’11 settembre è la data in cui (giusto cento anni fa) nacque Theodor Wiesegrund Adorno, con Max Horkheimer autore di una delle opere più importanti del secolo scorso (La dialettica dell’illuminismo, del 1942) e fondatore dell’Istituto di Scienze Sociali di Francoforte. Ma è anche la data in cui la città renana, da un po’ di anni, consegna a un autore particolarmente rappresentativo della cultura contemporanea il Premio intitolato al fondatore della celebre Scuola e della Teoria critica. Due anni fa il prescelto fu Jacques Derrida, ma il filosofo del «decostruzionismo», impegnato in una serie di conferenze in Giappone, dovette chiedere agli organizzatori di posticipare al 22 settembre la data della consegna e della sua lectura. Cosa successe poi quell’11 settembre è cosa risaputa.
E, talmente incredibile e imprevedibile, che Derrida si vide costretto a riporre mano al suo discorso e a farvi cenno. Non fu difficile in verità, perché la prolusione solo apparentemente aveva per oggetto un elemento minimo e privatissimo quale può essere un sogno. In realtà essa era una discussione a briglia sciolta e profondissima sul mondo contemporaneo, sulla tendenziale scomparsa in esso della differenza fra sogno e veglia, fra spettacolo e realtà (e quale fiction ha mai superato in forza immaginativa e impatto reale l’attacco alle Twin Towers?).
Dicevamo del sogno. A farlo fu Walter Benjamin, che lo confidò a Gretel Adorno, la moglie del filosofo, in una lettera che le indirizzò il 12 ottobre 1939 dalla Nièvre, ove si trovava internato. Sapete cosa accomuna Derrida e Benjamin, oltre al fatto di essere filosofi e ebrei? Non ci crederete, ma ancora una data: sono nati entrambi il 15 luglio. Ma, di grazia, cosa sognò Benjamin in una notte di quell’anno orribile per la civiltà europea? Uno scialle ricamato e se stesso che diceva in francese: «Si tratta di trasformare uno scialle in una poesia». Scialle era reso con «fichu», che significa anche «cattivo», «perduto», «condannato», o più trivialmente «fottuto». Ove il «fottuto» era sicuramente egli stesso, che si avviava verso la morte, ma anche, secondo Derrida, il nostro mondo occidentale.
Bisogna seguire però per bene le evoluzioni teoriche del filosofo francese nel bel discorso appena pubblicato in italiano in un agile volumetto (Il sogno di Benjamin, pagine 55, euro 5). Si capirà come si possa parlare filosoficamente di tanti temi del presente: del disagio dell’espatriato, dell’esilio, della difficoltà di esprimersi in una lingua che non è la propria natia, delle «egemonie linguistiche» e di quelle culturali, dell’«avvenire politico dell’Europa e della mondializzazione». E si soppeserà la forza della proposta di un «nuovo illuminismo» e di una nuova teoria critica che ci permetta un «pensiero altro» e «pensare l’altro». Non si potrà tuttavia non scorgere nel fondo un persistente odio verso l’America, che pure ha fatto di Derrida un filosofo acclamato e di successo.
«La mia compassione assoluta per le vittime dell’11 settembre - afferma - non mi impedirà di dirlo: non credo all’innocenza politica di nessuno in questo crimine».
Fra gli attacchi filosofici alla contemporaneità occidentale uno dei più acuti è senza dubbio quello sferrato da Slavoij Zizek, che comincia solo ora a essere tradotto in italiano pur essendo ormai un guru filosofico in tutto il mondo. Lo studioso sloveno si è recentemente impegnato in una decostruzione del concetto chiave delll’Occidente: quello di tolleranza (Difesa dell’intolleranza, Città aperta, pagine 92, euro 8). Non si tratta affatto, a suo modo di vedere, di un concetto asettico e neutrale. Nella volontà di escludere infatti il conflitto dalla sfera politica, il liberale tollerante assume il proprio punto di vista come universale senza sapersi mettere nei panni di chi è escluso e vive ai margini: il migrante, il non occidentale o semplicemente il lavoratore flessibile e precario.
A costoro egli dice: io vi tollero, ma solo nella misura in cui non mi mettete in discussione. È un discorso «totalitario» in quanto non riconosce le differenze. I terroristi ideologici, in quest’ottica, rispondono, secondo Zizek, con un’inaccettabile violenza a una violenza egualmente inaccettabile. Ma, bisogna chiedersi, dovrà pur esserci una differenza fra la presunta violenza culturale e quella reale che miete vittime spesso innocenti, fra il fondamentalismo e la tolleranza? Non sarebbe opportuno spostare il discorso dalla teoria alla pratica?
Mark Jurgensmeyer, sociologo della California, studia il modo di pensare dei fondamenalisti religiosi (islamici, ebrei, cristiani, induisti, buddisti) con un’indagine sul campo che spesso li fa parlare in prima persona. Alla fine del lungo reportage (Terroristi in nome di Dio, Laterza, pagine 340, euro 18), tutto ci sentiremmo di dire tranne che i capi terroristi vivano ai margini o non siano perfettamente integrati nei gangli vitali del mondo globale.