lunedì 21 luglio 2003

Giorello: il «folle volo» da Dante a Feyerabend; attraverso Bruno

Corriere della Sera 21.7.03
ELZEVIRO
Scoperte scientifiche
Il folle volo da Ulisse a Bruno
di GIULIO GIORELLO

«Quando venimmo a quella foce stretta/ Ov’ Ercole segnò li suoi riguardi,/ Acciò che l'uom più oltre non si metta» (Inferno XXVI, vv. 107-109), cioè allo stretto di Gibilterra, Ulisse e i suoi compagni - nella versione poetica di Dante - sono ormai «vecchi e tardi», disposti a correre il rischio del «folle volo» per fare esperienza di un «mondo senza gente». La loro rotta sembra una disperata rincorsa al Sole che tramonta. Eppure, questa sorta di medievale tour di marinai della terza età avviene nel segno della trasgressione. Non solo della tradizionale prudenza dei navigatori, che ben si guardavano dal gettarsi oltre le Colonne d'Ercole, ma anche della sapienza divina che ha situato l'alto monte del Purgatorio nel mezzo dell’Oceano. Il volo non può che essere folle, perché votato al disastro: altro che «virtute e conoscenza», che nell'esortazione di Ulisse ciascun vero uomo dovrebbe cercare di perseguire. Ma quelle parole sono pronunciate da una figura che per Dante è quasi la personificazione dell'inganno. Come dire che conoscenza e virtù possono essere anche votate al male. Cristoforo Colombo era convinto che non fosse affatto folle quel tipo di crociera, che avrebbe permesso «passando per Occidente» di raggiungere a Oriente terre ricche come le Indie. Ma anche lui sembra esser stato ossessionato dalla montagna del Purgatorio: la Terra non andava considerata esattamente rotonda perché «essa aveva piuttosto la forma di un seno di donna con la protuberanza del capezzolo» (che coincideva, appunto, con l'alto monte di Dante). Colombo si sbagliava: non doveva trovare sulla sua rotta le Indie, ma scoprire comunque qualcosa di molto interessante. Non l'altro mondo delle anime che scontano la loro pena, ma un nuovo mondo e pieno di gente, nonché di strane piante e animali, per non dire di oro e altri preziosi metalli. Cariche di queste meraviglie dovevano tornare in Europa le Caravelle. E cominciava una ben diversa Odissea, quella dei popoli indigeni vessati e rapiti dai conquistatori «cristiani».
Il Cinquecento, che vede compiersi il Grande Periplo con il ritorno dei superstiti della flotta agli ordini di Magellano (ma non lui che perisce) e al tempo stesso gli astronomi discutere di «novità celesti», plasmerà una potente metafora: i «filosofi della natura» sono come gli esploratori geografici - entrambi gustano il frutto proibito della scoperta e ne rendono partecipi gli altri. Nel secolo successivo, in piena rivoluzione scientifica, Galileo Galilei sarà presentato dagli Accademici dei Lincei come «il Fiorentino scopritore non di nuove terre ma di non ancor vedute parti del cielo». Ancor ai tempi nostri, come ha sottolineato Paul Feyerabend, ogni vero ricercatore non può che sentirsi imbarcato in un viaggio verso la sua «America della conoscenza».
Questa potente retorica rovescia quella di Dante: i nuovi adepti di «virtute e conoscenza» sono soprattutto uomini giovani, ma forse non così disinteressati. Già nel dialogo La cena de le Ceneri (1534) Giordano Bruno capovolgeva quest'immagine e spezzava l'analogia. I navigatori dei nostri oceani, da quelli dell'antica mitologia a uomini come Colombo, hanno insegnato agli indigeni delle terre che hanno «scoperto» soprattutto «l'arte di assassinarsi e tiranneggiarsi l'un l'altro» (e dunque folle è stato davvero il loro volo, giacché ha esportato i modi europei della violenza). Al contrario, il filosofo della natura, armato della propria ragione, «ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo» e in questo modo «ha donato gli occhi alle talpe» cioè ha liberato dall'ignoranza almeno quella parte di umanità capace di seguire virtù e conoscenza.
Aveva ragione Bruno in questa sua «stroncatura»? Lo stesso Colombo nella sua Relazione della navigazione lungo tutta la costa meridionale di Cuba (1495) riporta di essere stato salutato da un cacicco «nell'isola di Santiago, che gli indigeni chiamano Jamayca», con queste parole: «Dappertutto la gente ti teme, e tu hai distrutto i cannibali, che sono assai numerosi e feroci, facendo a pezzi le loro canoe e case, prendendo le donne e i figli, uccidendo quanti non poterono mettersi in salvo». Oggi, in un’epoca in cui qualunque leggenda non è immune da revisione, William Least Heat-Moon scrive che Colombo ha dato il via «a pratiche che avrebbero condotto allo sterminio di interi popoli e culture» (Colombo nelle Americhe, Einaudi). Al contrario, l'universo «senza muraglie» e popolato da innumerevoli sistemi solari che Bruno ci ha regalato nei suoi Dialoghi italiani resta innocente di tutti gli orrori che gli uomini commettono su questa terra, piccolo pianeta «sperduto» attorno al suo Sole. Tra i pochi nell'epoca sua a denunciare l'imperialismo degli esploratori-conquistatori, Bruno rimpiangeva un'età in cui «agili navi» di pirati come Ulisse ancora non portavano desolazione da una terra all'altra. L'ultimo «mago», finito sul rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, nel suo vivere e morire nella contraddizione può essere eletto a simbolo di quell'Europa che ha scelto di donare al resto del mondo non la devastazione ma la conoscenza.