giovedì 7 agosto 2003

Giorello: da Leibniz a Gödel

Corriere della Sera 7.8.03
Una realtà dominata dalle macchine o una virtuosa cooperazione? In un saggio di Martin Davis le possibili risposte
L’umana avventura dell’intelligenza artificiale
di Giulio Giorello

Fra il 1680 e il 1685 la direzione delle miniere dell’Harz, regione montuosa a sud est di Hannover, doveva scontrarsi col «più improbabile dei minatori», il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). La materia del contendere riguardava come far funzionare le pompe che dovevano impedire che le acque allagassero i cunicoli delle miniere: da secoli ci si era serviti di mulini ad acqua, che avevano il difetto di essere inutilizzabili d’inverno, quando i fiumi gelavano; Leibniz proponeva di ricorrere ai mulini a vento. Fatte le debite proporzioni, è ancora storia di oggi: non siamo sempre alla ricerca di una qualche fonte di energia che sia economica, «pulita» e non ci pianti in asso nel momento meno opportuno? In una Germania che lentamente usciva dai disastri della Guerra dei trent’anni, Leibniz, che aveva già alle proprie spalle importanti scoperte matematiche, sperava di poter finanziare con questa innovazione una riforma del sapere e della politica, che la facesse finita con le dispute religiose che avevano insanguinato la Cristianità e ponesse le basi di una nuova Europa. Il primo passo era quello di «assoggettare a leggi matematiche il ragionamento umano, la cosa più eccellente e utile che possediamo» - e poi gli «uomini di buona volontà», di fronte a qualsiasi spinoso problema si sarebbero esortati l’un l’altro con un «Calcoliamo!» fino a trovare la soluzione che avrebbe messo tutti d’accordo. Come racconta Martin Davis, uno dei maggiori logici americani, nel suo recente Il calcolatore universale , l’umana avventura è piena di Don Chisciotte e di mulini a vento. Nel caso di Leibniz non si tratta di follia, almeno sul lungo periodo. Nella prima metà dell’Ottocento Ada Lovelace (1815-1852), figlia di Lord Byron, sosteneva che il congegno necessario, escogitato (1834) da Charles Babbage (1791-1871), avrebbe potuto «tessere» formule matematiche proprio come «tesse fiori e foglie il telaio di Jacquard», la macchina che produceva tessuti seguendo un disegno specificato da una pila di schede perforate. La storia del calcolatore è fin dall’origine legata alla Rivoluzione industriale.
Come mostra Davis, la svolta nell’intera vicenda è stata la sostituzione del «computista» umano con una macchina. Nel Novecento i primi grandi calcolatori (gli «ippopotami», com’erano detti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale) hanno ceduto il passo ai computer di oggi, «sempre più piccoli e sempre più potenti». Ma, aggiunge Davis, «se l’informatica avanza a velocità tale da togliere il respiro, sì da farci ammirare le imprese degli ingegneri, è fin troppo facile dimenticare quei logici le cui idee le hanno rese possibili».
Già Leibniz era interessato alla natura profonda della ragione umana, alle sue connessioni col linguaggio, agli aspetti del pensiero che potessero essere «catturati» dal calcolo. Tre secoli di logica hanno consentito che il suo «sogno» prendesse corpo. Nel secondo dopoguerra dovevano essere soprattutto un riluttante «figlio dell’Impero Britannico», Alan Turing, e un rampollo della Mitteleuropa che aveva «trovato l’America», John von Neumann, a sviluppare l’idea di «calcolatore universale», una sorta di macchina «capace di fare da sola il lavoro di tutte», vero e proprio «modello» di qualunque attività calcolistica. E forse del pensiero stesso, come vuole quella corrente di ricerca nota come Intelligenza Artificiale, che al proprio attivo annovera programmi contro cui perdono campioni di scacchi o che sono in grado di scoprire regolarità profonde in fenomeni naturali la cui complessità spaventa la mente umana.
Il libro di Davis finisce con una domanda ormai ineludibile nella nostra epoca tecnologica: le macchine possono pensare? Matematici come Roger Penrose e filosofi come John Searle tendono a escluderlo, anche se ammettono che la nostra mente altro non è che un «prodotto» del cervello, soggetto alle leggi della fisica e della chimica; quello che è stato forse il più grande logico del Novecento, Kurt Gödel (e che tanta parte ha nella storia raccontata da Davis), riteneva invece che il nostro cervello fosse un computer capace di funzionare più o meno bene, ma credeva che la mente avesse una potenza irriducibile al corpo. Davis lascia aperta la questione: c’è in lui un po’ della saggezza dello scrittore Samuel Butler che, nel lontano 1871, insisteva sulla «straordinaria evoluzione delle macchine» che sarebbero state capaci di sorprendere qualunque previsione umana. Ma Butler (il quale detestava Darwin, il teorico dell’evoluzione degli esseri viventi) temeva che il sogno di Leibniz si sarebbe tramutato nell’incubo di un mondo dominato da macchine «troppo intelligenti».
Oggi non pochi filosofi la pensano più o meno come lui e «maledicono» quello straordinario minatore dell’Harz. Mi sia lecito, allora, un ricordo personale: il «sogno di Leibniz» (tra l’altro, questa locuzione si deve a un grande logico e matematico italiano, Giuseppe Peano) era tra gli argomenti preferiti del mio caro amico Marco Mondadori (uno dei più brillanti esponenti della scuola logica italiana, scomparso nel 1999), che se la prendeva con lo «sterile» pessimismo di Butler e concepiva invece le macchine (più o meno intelligenti) non come nemiche ma come «compagne di strada» degli esseri umani (più o meno pensanti) in una sorta di «virtuosa» cooperazione.

Il libro: «Il calcolatore universale. Da Leibniz a Turing» di Martin Davis, traduzione di Gianni Rigamonti, edizioni Adelphi, pagine 321, € 24